Oggettivamente,
il termine “concorsone”, utilizzato per sintetizzare lanciata da Palazzo Vidoni
nei giorni scorsi come idea per rimpinguare le fila esangui dei dipendenti
pubblici, non pare proprio fortunatissimo.
Oltre
a ricordare troppo da vicino le tantissime pubblicità che negli anni hanno
sempre lanciato un “concorsone” per vincere sterline, viaggi o i sempre
agognatissimi telefonini, i concorsoni sono sempre stati abbastanza problematici
per la pubblica amministrazione. La scuola di concorsoni ne ha conosciuti
tantissimi: mai che si siano tenuti senza i simmetrici “ricorsoni” al Tar e,
comunque, col risultato almeno di tirare finalmente dentro gli insegnanti
precari, che restano sempre in gran numero, come un mare al cui svuotamento si
prova con un badile. Poi, ci sono stati i concorsoni al comune di Roma, per
assumere agenti di polizia municipale: inchiodati, perché le buste erano
trasparenti e si vedeva il nome del concorrente (evidentemente, c’è stato
eufemisticamente un fraintendimento del significato della “trasparenza”
amministrativa). E così via.
Al
di là dei sinistri richiami, comunque il mega concorso per assumere in tempi
ravvicinati (4 anni) 500.000 dipendenti pubblici e così rimpiazzare i
corrispondenti pensionamenti previsti tra il 2018 e il 2021, non è sicuramente
una soluzione né facilmente praticabile, né, soprattutto, del tutto utile.
Qui
è bene precisare: sicuramente il numero dei dipendenti pubblici in Italia,
contrariamente alla vulgata, non è per nulla ridondante, specie se paragonato
ai principali Paesi competitori in Europa[1]. Inoltre l’ormai elevatissima
età media, ben al di sopra dei 50 anni, sicuramente rende evidente la necessità
del “ricambio generazionale”.
Dunque,
un “concorsone” è il benvenuto, in quanto necessario? L’esperienza consiglia
prudenza. In questo caso, non si possono che condividere le parole del
professor Sabino Cassese, espresse nell’editoriale pubblicato dal Corriere
della sera lo scorso 20 settembre: “Dopo
il «digiuno» di questi anni di crisi, con il forte rallentamento del
«turnover», fare una tale «abbuffata» provocherebbe sconvolgimenti: si pensi
solo ai «maxiconcorsi», alle difficoltà
che si incontrerebbero nella formazione «on the job», alla difficile
sistemazione negli uffici del Nord e del Sud di circa 80 mila persone nel solo
prossimo anno. La vicenda della scuola, ancora in corso, evidentemente, non ha
insegnato nulla”.
In
effetti, passare all’improvviso da un regime di fortissime restrizioni alle
assunzioni, che si prolunga da 15 anni di “tetti” alla spesa, arricchiti da un
blocco quasi totale nel 2005 e, peggio ancora, tra il 2015 e il 2016 a causa della
devastazione derivante dalla riforma delle province, ad uno sblocco così esteso
di assunzioni, sostanzialmente il 100% del turn over è difficilissimo da
gestire. E non solo per le condivisibili osservazioni del Cassese.
Pensiamo
ai presupposti del “concorsone”. Il Governo sostiene che, grazie alla riforma
Madia della PA, il ricambio generazionale è possibile perché si abbandona la
“dotazione organica” e si passa ai fabbisogni, così flessibilizzando la
gestione del personale e potendosi assumere persone dotate delle competenze e
professionalità necessarie per la nuova PA: si pensi alla necessità di un
maggior numero di tecnici e progettisti per sbloccare gli appalti o,
soprattutto, alla necessità di adeguarsi alla “rivoluzione digitale”, che
richiede più matematici e statistici, più informatici, più analisti di
processo, e meno giuristi o amministrativi puri.
Tutto
verissimo. Ma, altrettanto indubitabile è che una simile rivoluzione anche
nella verifica delle professionalità andava avviata ben prima: non è
oggettivamente immaginabile che in 4 anni si riesca a riprogrammare i
fabbisogni, rivedere totalmente le professionalità e anche attivare il
“concorsone” e per giunta chiuderlo davvero con 500.000 assunzioni. La “volata”
per un simile vasto programma è molto, ma molto, più lunga. Occorreva pensarci
almeno 10 anni fa.
Tuttavia,
un decennio fa, o quasi, i pensieri erano ben altri. Si era alle soglie della
tremenda crisi economica, disvelatasi in pieno nel 2009. Dovendosi correre a
provare a consolidare i conti pubblici, ci si rese conto che una delle voci più
facilmente contenibili della spesa corrente era proprio quella del personale
pubblico: bastava irrigidire il tetto alle assunzioni e bloccare la dinamica
della contrattazione collettiva.
E’
quello che si è deciso nel 2010. E i risultati non sono mancati; la spesa del
personale pubblico è scesa da 174 miliardi a circa 160, in corrispondenza del
calo dei dipendent da 3,5 milioni a poco più di 3 milioni.
Nel
2010 era già perfettamente noto a tutti che tra il 2018 e il 2021 vi sarebbe
stato un pensionamento di massa di circa 500.000 unità. Proprio questa
consapevolezza, unita alle misure di blocco della spesa del personale
consentirono, nel 2010, di non adottare scelte ben più drastiche stabilite in
Spagna o Grecia, nazioni nelle quali si stabilì, prima, di ridurre tra il 5% e
il 10% gli stipendi pubblici, per, poi, anche licenziare un gran numero di
dipendenti pubblici.
La
tenuta a medio lungo termine della pendenza verso il basso della curva di spesa
del personale pubblico ha permesso di non ridurre gli stipendi pubblici in
cifra assoluta, ma di ridurre il costo complessivo (sacrificando il potere
d’acquisto, ma parificandolo a quello di molti settori del privato) in modo
costante.
L’investimento
in nuove figure e professionalità, che andava fatto per tempo, non è stato
attivato perché la riduzione in breve tempo dei ranghi pubblici era un
risultato cui si mirava.
L’improvviso
cambio di rotta annunciato (ma non si sa se sarà davvero sostenibile) dal
Governo non può lasciare convinti, proprio perché i tempi della
riprogrammazione e della nuova ondata di reclutamenti appaiono a rigor di
logica assolutamente inconciliabili.
Inoltre,
l’arma dei “fabbisogni” è a doppio taglio. Da un lato, è corretto abbandonare
la logica di dotazioni organiche costituite da rigidi elenchi di dipendenti che
si assumono necessari per il funzionamento degli enti; dotazioni composte anni
ed anni fa, non si sa come e con esiti diversissimi anche tra enti comparabili
e similari. Fabbisogni basati su standard e linee guida univoci, come prevede
la riforma Madia, potrebbero rimediare, attualizzare i bisogni, renderli
coerenti con le funzioni svolte ed eliminare le incredibili differenze tra enti
per aree geografiche oggi esistenti.
Però,
dai fabbisogni potrebbe emergere una “sopresa” anche se relativa: cioè la
fortissima insufficienza di personale, in generale, ed in specifici servizi in
particolare.
Si
prendano i servizi addetti alle politiche attive per il lavoro. Chcchè se ne
dica, 6.000 dipendenti in Italia, contro i circa100.000 della Germania è un gap
che la tecnologia digitale non potrà mai superare (del resto, pare difficile
immaginare che la Germania
sia più arretrata dell’Italia nell’informatica e, per altro, sanno fare
benissimo di conto e analizzare i fabbisogni).
Qualsiasi
analisi del fabbisogno appena seria, dimostrerebbe la necessità di una quantità
(e di una qualità per profili professionali mancanti) di addetti ai servizi per
lavoro molto più ampia delle pochissime unità presenti.
Ma,
la riforma Madia nel lanciare i fabbisogni al posto delle dotazioni organiche,
tuttavia, limita la programmazione alla fotografia dell’esistente: in estrema
sintesi, anche se i fabbisogni riveleranno gap enormi tra personale presente e
reali necessità, comunque gli organici che risulteranno dalla programmazione
altro non saranno se non la somma dei dipendenti già in servizio, più i
dipendenti potenzialmente da assumere sulla base delle risorse assunzionali di
volta in volta disponibili.
Quindi,
a bocce ferme, di fatto la dotazione complessiva dei servizi per l’impiego
rimarrebbe esattamente la stessa.
Allora,
a monte della programmazione delle assunzioni, che è compito di ogni singolo
ente, dovrebbe esservi una programmazione generale e coordinata, fin qui mai
vista, anche se la riforma Madia parla di linee guida che dovrebbero servire allo
scopo.
Occorrerebbe
che da Palazzo Vidoni si individuassero priorità assolute, finalizzate a
riconvertire in primo luogo le dotazioni, con passaggi (anche solo potenziali)
di dipendenti da un’amministrazione all’altra. Non è difficile comprendere che in
Italia risultino fortemente sotto dotate amministrazioni come gli enti museali
ed i siti archeologici; gli uffici giudiziari (e gli stessi magistrati); gli
ispettorati del lavoro; i servizi per l’impiego; l’Inps.
Prima
ancora di pensare a quanti dipendenti assumere, occorrerebbe un programma che
di necessità faccia virtù e passi da un comparto all’altro le possibilità
assunzionali, così da consentire a quello meno dotato rispetto appunto ai veri
fabbisogni di ottenere un incremento significativo dei dipendenti, mentre si
sgonfiano i ruoli del comparto “cedente”.
Questo
consentirebbe anche l’analisi seria e completa delle professionalità occorrenti
allo scopo, per quanto è oggi già chiaro che mansioni come il protocollatore,
l’archivista, il commesso, sono tra quelle destinate a svanire, a seguito della
rivoluzione digitale.
Il
piano di livello centrale, poi, dovrebbe affrontare e risolvere una volta e per
sempre il tema della pessima distribuzione territoriale dei dipendenti
pubblici.
Un
vero vasto programma di rilancio della PA, insomma, invece di partire dalle
assunzioni, dovrebbe individuare dove occorre riorganizzare; decidere quali
enti possono assumere e quali no; in quali territori assumere meno e in quali
di più; quali professionalità servono negli enti nei quali le assunzioni sono
ammesse e quali no; quali attività di formazione sono propedeutiche allo scopo.
E solo dopo lanciarsi in proclami e concorsoni. Ma, se i presupposti sono
correttamente rispettati, non servirebbe più nemmeno il concorsone: anche con
molti concorsini un piano di questa portata sarebbe attuabile.
Tuttavia,
appare chiaro che siamo ben lontani da questo. Ci si è limitati fin qui solo
agli slogan: lo “svecchiamento”, la “staffetta generazionale” e la
“programmazione”. Titoli ad effetto. Ma, riforme devastanti come quella delle
province dovrebbero insegnare che se la riforma è fatta tanto per farla e per
compiacere elettorato o stampa, i risultato sono, spesso (se non sempre) solo
il caos.
[1]
Al
di là degli innumerevoli studi e rapporti di qualsiasi fonte (Ocse, Eurostat,
Sindacati vari, Eurispes, ecc…) tutti concordi nel confermare l’affermazione,
pare conclusivo quanto scrive la
Corte dei conti, Sezioni Riunite, nel paragrafo 3.5 della
Relazione 2016 sul costo del lavoro pubblico “3.5. Raffronto europeo sulla consistenza numerica dei dipendenti
pubblici Un raffronto europeo sull’andamento
della consistenza numerica dei dipendenti pubblici e della spesa per redditi,
negli anni della crisi, è
stato effettuato dalla Ragioneria generale dello Stato nella premessa alla
pubblicazione del Conto annuale per il 2014. La dinamica dell’occupazione nel settore pubblico e la spesa
di personale, rapportati ad altre significative variabili demografiche e
macroeconomiche nel periodo 2009-2014
(per quanto attiene ai dati di consuntivo) e fino al 2017 (sulla base delle
previsioni governative) sono stati, in quella sede, analizzati e posti a raffronto
per quanto attiene all’Italia,
la Francia , la Germania , il Regno Unito
e la Spagna.
Le
valutazioni relative alla spesa per redditi risultano in linea con quelle esposte
nel precedente paragrafo.
A
conclusione dell’analisi
emerge che in Italia il numero degli occupati nella pubblica amministrazione e
la spesa per redditi si collocano su valori in linea con la media europea,
generalmente più
contenuti rispetto a quelli degli altri paesi presi in considerazione, sia per
quanto attiene al loro valore assoluto, sia se i dati relativi al personale
pubblico vengono raffrontati con il PIL, con la popolazione residente, col totale
degli occupati e con la spesa corrente. Quanto sopra evidenzia la severità, da un lato, e l’efficacia in termini finanziari, dall’altro, delle politiche riduttive della
spesa per redditi attuate dall’Italia
per fronteggiare la crisi economica internazionale. Tra i paesi considerati,
solo la Spagna
ha posto in essere misure altrettanto incisive mentre Germania, Francia e Gran
Bretagna, seppur con alcune distinzioni, non sono intervenute in modo
altrettanto significativo nei confronti del pubblico impiego”.
Voglio fare anche per questa volta l'avvocato del diavolo o vedere le cose da un altro punto di vista. Il superamento delle dotazioni organiche e l'assunzione delle "figure di cui si ha bisogno" potrebbe però portare alla realizzazione di concorsi confezionati ad hoc su misura per qualcuno. C'è da assumere il nipote del Sindaco? (per dirne una)... in cosa è laureato, Geologia? Ci serve un geologo perché... (una motivazione si trova sempre) 3 anni fa c'è stato un lieve smottamento e bisogna ricontrollare il territorio comunale. E' un ingegnere idraulico? Bisogna riprogettare il sistema fognario. Se poi è un informatico allora è tutto in discesa, basterà che ci serva un informatico specializzato in cio' in cui è specializzato lui.
RispondiEliminaQuesto per dire che la discrezionalità è un'arma a doppio taglio, specie dove chi decide non rischia personalmente: mi spiego meglio: nel ristorante a conduzione familiare se il proprietario assume il cuoco peggiore poi perde clienti e rischia soldi di tasca sua; nella pubblica amministrazione il dirigente rischia molto poco.
La stessa discrezionalità pericolosa è nell'attribuzione dei sistemi premianti e/o progressioni. Chi è il dipendente piu' efficiente, quello che lavora di piu' e meglio o la biondina giovane e disponibile che su facebook ha le foto in gita con il dirigente? Perfino alcune medie-grandi aziende private dove i soldi non sono del dirigente (che comunque rischia piu' che nel pubblico) hanno gettato la spugna da questo punto di vista e i premi produzione li calcolano solo in base al numero di assenze (dato oggettivo) o addirittura uguale per tutti.
C'è il rischio che questa riforma aumenti ancora di piu' la percentuale di raccomandati nella P.A., infatti spesso gli idonei arrivati subito sotto ai vincitori sono i primi tra i non raccomandati.
Faccio di seguito osservazioni poco giuridiche ma da "medioman". Da circa 20 anni nel mio comune ma anche in provincia (...) e regione entrano solo i raccomandati, con concorsi ad hoc o sotterfugi vari, dall'operaio al mega direttore generale, al giornalista. Sarebbe preferibile un concorso unico per i 3 enti a livello nazionale, con obbligo di permanenza per 5 anni e trasferimento solo a compensazione di altro trasferimento o comunque con una regola anti raccomandazioni.
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