Il capo di gabinetto del comune
di Torino, dimessosi dalla carica dopo essere stato intercettato in una
telefonata nella quale esortava il vertice dei trasposti pubblici della città a
cancellare la sanzione ad un suo amico che aveva viaggiato senza biglietto, si
era già segnalato per ingerenze nella gestione.
Infatti, nella questione
dell’accusa per falso ideologico relativo al bilancio del comune di Torino, i 5
milioni dovuti dal comune alla società Ream sono stati cancellati dal bilancio
2017 su “ordine” (così informa Il Fatto Quotidiano on line del 17 ottobre 2017)
rivolto appunto dal capo di gabinetto ai dirigenti competenti.
Registriamo dunque i seguenti due
elementi di cronaca:
1)
il capo di gabinetto del comune di Torino si ingerisce
nell’operatività ed “ordina” di cancellare dal bilancio di previsione
un’ingentissima somma di denaro;
2)
il capo di gabinetto del comune di Torino si ingerisce
nell’operatività, ed “invita” l’amministratore delegato della Gtt a cancellare
la multa ad un amico.
Non sappiano quali altri atti di
concreta ed evidente ingerenza nella gestione siano stati compiuti dal capo di
gabinetto del comune di Torino e dagli altri capi di gabinetto dei sindaci.
L’impressione è che dietro a quelli, piuttosto significativi, emersi agli onori
della cronaca, moltissimi altri ve ne siano, ma non assurti a “notizia” di
giornale.
La questione è che la figura del capo di gabinetto è del tutto inutile, ma rischia fortemente di divenire molto
dannosa, perché concepita e vissuta dai protagonisti (sindaci che nominano,
capi di gabinetto nominati) come un sistema per violare il principio di
separazione tra funzioni politico-amministrative e funzioni gestionali, posto a
chiare lettere sia dagli articoli 4 e 5 del d.lgs 165/2001, sia dagli articoli
48 e 107 del d.lgs 267/2000.
Violare il principio di
separazione è il primo tra i rischi di “corruzione amministrativa” (che non
coincide necessariamente col reato di corruzione, ma discende da conflitti di
interesse tali da inquinare le scelte operative): la gestione operativa,
infatti, invece di svolgersi allo scopo di attuare gli indirizzi politici nel
rispetto dell’interesse generale, con imparzialità, finisce per essere
strumento di discriminazione tra chi risulta “amico” di una certa sigla
politica, o per forzare la mano su scelte operative, doverose ma sgradite dalla
politica, che vengono ostacolate, osteggiate o forzate, a danno dell’ente,
della collettività e creando contrasti enormi con la struttura amministrativa.
Eppure, la normativa, al di là
delle regole anticorruzione che andrebbero rispettate con scrupolo, contiene
ben due misure per evitare che l’azione di un capo di gabinetto possa svolgersi
secondo il paradigma certamente non esemplare di Torino.
La prima misura consiste nella
circostanza che il capo di gabinetto non è in alcun modo previsto
dall’ordinamento locale, d.lgs 267/2000.
La seconda misura consiste nel
fatto che laddove, applicando l’articolo 90 del d.lgs 267/2000 si ritenga
comunque possibile attivare detta figura, lo stesso articolo 90, al comma
3-bis, ne circoscrive in modo chiarissimo i confini operativi: “resta
fermo il divieto di effettuazione di attività gestionale”, per
qualsiasi soggetto, qualunque sia la sua qualificazione (capo di gabinetto o
altro) che sia incaricato negli staff politici.
Appare abbastanza chiaro che gli
atti attribuiti dalla cronaca all’operato del capo di gabinetto dimessosi siano
in chiara violazione del divieto di attività gestionale; tra essi, al di là del
poco simpatico intervento per ottenere il favore nei confronti dell’amico
sorpreso a non pagare i biglietti di viaggio, appare particolarmente grave l’
“ordine” impartito agli uffici per ottenere la cancellazione dal bilancio di previsione
della somma di 5 milioni di euro.
Le riforme degli ultimi 25 anni
vogliono che gli organi di governo svolgano il difficile e delicato “mestiere”
che le regole della rappresentanza pubblica democratica attribuiscono loro:
programmare, delineare indirizzi politici, scegliere le priorità, reperire le
risorse e destinarle. Per ottenere ciò, le riforme hanno sottratto alla
politica la gestione concreta, che possa interessarsi del biglietto non pagato,
della somma da iscrivere nel bilancio o anche del permesso di costruire, della
concessione, del divieto e del contributo da erogare. Questi sono atti
operativi che non devono avere una colorazione politica: il permesso di
costruire spetta se il progetto è rispettoso della programmazione urbanistica;
non può spettare, anche se il progettista è “amico” o il costruttore un “grande
elettore” laddove l’opera sia priva di autorizzazioni, criteri o insista in
zone a rischio.
Il capo di gabinetto non può e
non deve essere la leva (spesso si utilizza a questo scopo anche l’altra
inutile figura del direttore generale o “city manager) per violare la divisione
tra programmazione politica e gestione e, quindi, adottare atti come un
“ordine” che un sindaco non può legittimamente emanare, fingendo che la
provenienza da una figura “tecnica”, invece che politica, rimedi al vulnus
della violazione del principio di divisione.
La legge espressamente, come
visto, vieta ai componenti dello staff politico l’ingerenza nella gestione per
una ragione molto semplice: la diretta connessione del componente dello staff
politico, nominato per appartenenza politica (nel caso di Torino il capo di
gabinetto era anche il “king maker” del sindaco), lo rendono un’espressione
diretta della politica, come tale da escludere dalla gestione diretta.
E’ una conclusione logica e disposta in modo chiarissimo dalla legge, ma
troppo spesso violata. E il prezzo c’è: bilanci che perdono i pezzi, le multe
che vengono cancellate agli amici.
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