Diamo per scontato che quanto ha
dichiarato l’ex presidente del Consiglio, Romano Prodi, al Corriere della sera
del 27 ottobre sia vero e corretto: la pubblica amministrazione è l’unico male
dell’Italia.
In effetti, esperti di pubblica
amministrazione come Alfredo Ferrante, sul portale Formiche.net (http://formiche.net/2017/10/27/quellunico-problema-italiano/)
ha avanzato il dubbio che di problemi l’Italia ne abbia molti altri e
abbastanza gravi.
Ma, limitiamoci all’affermazione
del Prodi: davvero la pubblica amministrazione è l’unico problema italiano.
Ergo, la concreta soluzione ai
problemi italiani, si deve concludere, è solo e soltanto una riforma della
pubblica amministrazione, capace di modificarla da problema a risorsa.
Questo, del resto, è lo slogan
che sentiamo da oltre un quarto di secolo, da quando, cioè, nel 1990 si diede
vita alla riforma dell’ordinamento degli enti locali, seguita da un’altra
riforma proprio della pubblica amministrazione, il d.lgs 29/1993.
Un attimo, però.
Abbiamo posto come vera ed
incontrovertibile l’affermazione del Prodi: la pubblica amministrazione è
l’unico problema italiano. E non abbiamo potuto fare a meno di sottolineare che
nel 1990 è stata avviata una rilevantissima riforma della pubblica
amministrazione, necessitata dalla consapevolezza dell’obbligo di risolvere il
problema.
Una curiosità, allora, emerge: se
la pubblica amministrazione già 27 anni fa era stata percepita come problema da
trasformare in risorsa e si procedette tra il 1990 e il 1993 a due riforme
molto ampie, come mai ancora nel 2017 si parla di pubblica amministrazione in termini
di problema e non di risorsa?
Il tema è molto ampio. Sia
consentita, dunque, una breve digressione. Discettare di problemi di un Paese
industriale, avanzato, democratico e complesso come l’Italia, ragionando per
slogan e riducendo i problemi a uno e indicando poche isolate soluzioni
radicali come “ideone” per risolvere senza colpo ferire questi problemi è la
quint’essenza del populismo. Il quale, come noto, consiste nel governare
nell’interesse di pochi, ma esponendo grandi temi come obiettivi generali da
far apprezzare alla “pancia” della gente, creando all’interno del “popolo” al
contempo pulsioni e vendette sociali. Il “populismo” vive di ricette
semplicistiche, spesso idonee solo a divisioni nel popolo e tra il popolo: è
proprio del “populismo” additare di volta in volta una moneta, oppure i
sindacati, oppure i “padroni”, o ancora le banche, o popolazioni di fede
religiosa diversa, come grandi problemi da affrontare, con “riforme”, che di
fatto mirano sempre e solo alla distruzione, all’abolizione, alla
cancellazione. L’assenza di analisi, di conoscenza profonda dei problemi,
porta, ovviamente, a soluzioni semplicistiche. Il ramo è secco, dunque
tagliamolo: non prestando, però, attenzione alla parte del ramo tagliato sulla
quale siamo seduti.
La riforma delle province è lì a
dimostrarlo. E’ stata ed è il simbolo di un’azione governativa di stampo
pienamente e totalmente populista. Il tema era di facile approccio: le province
non servono a niente, anzi sono il cimitero degli elefanti, fonte di corruzione
e sprechi, costano troppo. Eliminiamole! Si è dato corso, dunque, ad una
dissennata e frettolosa riforma, per altro incostituzionale, che ha sortito un
brevissimo beneficio di popolarità di qualche politico particolarmente esposto
sul tema, mentre non ha prodotto nessuna utilità, né concreta, né percepibile,
nei confronti del popolo: nessuna tassa è stata ridotta, nessuna riduzione
della pressione fiscale si è verificata, al contrario molti dei servizi che le
province invece rendevano ai cittadini (scuole e strade) sono stati devastati e
per giunta, adesso, quando i buoi (leggasi tre miliardi di prelievo forzoso
imposti dalla riforma) sono scappati, si prevede di restituirne (solo parte)
alle province stesse.
Ora, che un partito privo di una
lunga storia, di un ragionamento filosofico ed economico alla base, di una
chiara struttura organizzativa, di un orientamento sociale ed economico saldato
su elementi sociali aggregati ed omogenei, possa fondare su accenti populisti
un proprio “programma” politico, appare anche comprensibile.
Che, però, il taumaturgo di
riforme “epocali” possa essere invocato da esponenti di un partito di storia
totalmente riversa come rimedio generale e magico ad un problema “unico”,
dimostra che, in realtà, il populismo alberga ben oltre i confini nei quali la
stampa pensa di limitarlo.
Romano Prodi, nell’affermare che
la pubblica amministrazione è l’unico problema italiano, ha anche aggiunto che
se non ci fossero i Tar si avrebbe una spinta allo sviluppo del 5%.
Slogan. Solo slogan. Come quelli
delle pubblicità dei dentifrici, che puntualmente informano della capacità di
ridurre la placca del 10% “come dimostrano studi clinici” che nessuno conosce,
nessuno ha mai visto; soprattutto, nessuno riesce mai a sapere la percentuale
oggetto dello slogan pubblicitario da quale dividendo e divisore venga fuori.
Ma, la percentuale “fa effetto”.
Fa apparire un ragionamento del tutto astratto e vago, come frutto di una
riflessione scientifico-matematica. Ricordiamo bene lo “studio” di
Confindustria sulle conseguenze della vittoria del “no” al referendum del 4
dicembre 2016: percentuali disastrose e minuziosamente indicate di riduzione
del Pil erano state previste. Ovviamente, quello studio era un insieme di
affermazioni del tutto avventate ed infondate, come dimostra quanto avvenuto
post vittoria del referendum. Ma, in campagna elettorale, in quel momento, non
valeva evidenziare la realtà, occorrevano “suggestioni”, per indurre e
convincere che una riforma della Costituzione avrebbe avuto poteri magici sulla
ripresa economica di una Nazione.
Quel 5% snocciolato dal Prodi
come aliquota di incremento della ricchezza nazionale derivante dalla sola
abolizione dei Tar è esattamente come le percentuali di riduzione del tartaro e
della placca vantate dalle pubblicità dei dentifrici o come i granelli di sale
in contenitori “esoterici” che maghi e stregoni vendono ai creduloni, per
risolvere i loro problemi di amore, salute e lavoro. Una percentuale
inesistente, fondata sul nulla, utilizzata solo per vestire di matematica un
ragionamento altrettanto fondato sull’argilla: quello della pubblica
amministrazione come unico problema italiano.
Torniamo ad ammettere, però, che
sia vero. Ma, altrettanto vero è che:
1)
Romano Prodi è stato presidente del consiglio due volte: tra
il 1996 e il 1999 e tra il 2006 e il 2008;
2)
i governi presieduti dal Prodi hanno emanato le riforme
Bassanini, la riforma del lavoro pubblico e della pubblica amministrazione, più
riforme della scuola, la riforma della sanità, la riforma dell’università, la
riforma della legge sul procedimento amministrativo, il codice
dell’amministrazione digitale, il codice degli appalti e ci fermiamo qui per
non dilungarci su un elenco sterminato;
3)
il partito cui appartiene il Prodi, che nel corso dei 21 anni
intercorsi tra il 1996 e il 2017, ha ulteriormente e più volte governato,
ponendo in essere un’altrettale quantità di riforme, sempre sugli stessi temi
e, per altro, sempre utilizzando i medesimi consulenti e docenti universitari
quali fonti di ispirazione e redazione dei testi di riforma.
Allora, poiché le cose stanno
così, la domanda vera da porre al Prodi e a noi stessi è: ma se in 21 anni, pur
essendo consci che la pubblica amministrazione “è l’unico problema italiano”,
avete più volte riformato, nelle sue varie sfaccettature, la pubblica
amministrazione e, ancora, dopo 21 anni, la pubblica amministrazione resta
“l’unico problema italiano”, non vuol dire, forse, che quelle - reiterate,
ripetute, continue, alluvionali, non ponderate, frettolose, generiche, imprecise,
di scarsa qualità - riforme, non sono servite a nulla? Non è l’ammissione della
colpa, gravissima, di non essere stati capaci di risolvere quell’unico problema
che affligge l’Italia? Non è la drammatica dimostrazione di aver completamente
fallito una schiacciata a metà campo, visto che il problema era uno solo e che
una crescita del 5% della ricchezza era dietro l’angolo, bastando poche e
mirate riforme?
Ma, a queste domande se ne
aggiunge, poi, un’ultima rassegnata: siamo proprio sicuri che una classe politica
e di governo che in 21 anni, pur conoscendo bene l’unico problema dell’Italia,
non è capace di risolverlo, non sia essa stessa parte del problema?
Very nice and interesting post
RispondiEliminaFamous Positive Quotes
make new friends
Sconveniente verità per i politici che hanno infatti una gravissima responsabilità dalle riforme Bassanini in poi. Un disastro fatto in nome dell'Europa (governance multi-livello messa su all'italiana per contemperare a quanto chiesto dal trattato di Maastricht) da politici e gente inviata su seza cpirci granchè. Perchè l'Europa ed il processo decisionale è per specialisti in quanto resta ancora largamente improntata ad un processo inter-governativo. Anche l'iter normale distingue tipo 1 procedura legislativa ordinaria e 49 straordinarie . Il più grosso problema oramai in Italia è che la classe anche mediamente istruita non capisce nulla di materie giuridiche e civiche e continua a non seguire responsabilmente le questioni che possono stare a cuore specie le questioni europee.
EliminaE la PA ne è uo delle componenti. La PA va malissimo dalla separazione dei poteri tecnici da quelli politici bella risposta intelligente data alle inchieste Mani Pulite (anche dal crollo del Muro di Berlino e tutte le bugie perpetrate da finanziamenti occulti) da una classe politica che si è riorganizzata: poi il decentramento creativo, l'annullamento dei controlli ex ante di legittimità sugli atti in nome di una non ben chiara autonomia (arbitrio della peggior classe politica locale), la dirigenza scelta e controllata dalla politica senza neppure uno straccio d concorso, l'indebolimento dei segretari comunali e provinciali soggette alla scelta del politico di turno; il caso della riforma delle province data in pasto, attenzione, alle regioni che hanno ciascuna con proprio tornaconto "definito le competenza da riprendersi e da delegare" (forse ai comuni?... nnamo bene). Tutto frutto di (sch) riforme. I bilanci dei comuni sono un'altra nota esilarante se non fosse una questione vera. Il pareggio di bilancio imposto dal Governo Monti e messo in Costituzione ha infatti avuto effetto di fotografare una gravissima realtà fatta di finanza creativa, derivati, debiti fuori bilancio, entrate non esigibili comunque invece spese, partecipate e quote in enti strumentali utili per dare poltrone a destra e manca. Ebbene il bilancio armonizzato reso secondo le nuove regole in via sperimentale ha scoperchiato una situazione di ruberie e forzature operate da amministratori che non sono mai stati toccati nel portafoglio e mai lo saranno. Una domanda sorge spontanea: ma un amministratore nuovo e di diverso colore politico che si insedia in una amministrazione dopo diciamo 30 anni di altro colore politico, posto che rileva una serie di anomalia e debiti, perchè non porta i conti al TAR e si dimette? Questa è la domanda che mi ha fatto un medico? Bella domanda. Sarebbe interessare capire perchè non si fa!!
A me invece sembra che il problema più grande che abbia l'Italia sia la mancanza di libertà di stampa, con i grandi giornali che sono grandi solo perché hanno enormi risorse economiche dietro che non derivano dalla vendita dei giornali, che pagano dei servi ammaestrati, talvolta anche docenti universitari del giusto giro, per scrivere quel che vuole il padrone. Una minoranza danarosa, che ci insegna come votare, le idee politicamente corrette, quali devono essere i nostri gusti sessuali, quali personaggi famosi possono impunemente stuprare donne e bambini e quali invece no, chi è populista e chi invece no. Uno stesso gesto può essere giusto o sbagliato a seconda da chi è fatto. Un interessamento per una multa (notizia di oggi), diventa più spregevole di un favoreggiamento alla mafia o di una colossale truffa ai risparmiatori o di una guerra.
RispondiEliminaDa pubblico dipendente con 33 anni di servizio prestato in diverse realtà (geografiche e amministrative) della p.a. italiana, condivido totalmente l'analisi e le considerazioni dell'Autore. L'unico vero problema dell'Italia sono le pessime riforme a cui la pubblica amministrazione é stata forzosamente sottoposta negli ultimi 25 anni, quasi sempre per fini politici ed elettorali. Senza tema di smentita, posso affermare che quando ho iniziato il mio lavoro in un ufficio periferico di un Ministero, nel 1984, la qualità complessiva del servizio offerto ai cittadini era nettamente superiore a quella attuale, pur avendo a disposizione tecnologie e strumenti operativi molto meno performanti. Ringrazio sentitamente per aver posto l'accento in modo così preciso e articolato sulla faciloneria dilettantesca con cui sono stati emanati, negli anni, molti provvedimenti di "riforma" della p.a.: un problema del quale, purtroppo, sembrano rimasti consapevoli solo coloro che operano quotidianamente negli uffici pubblici e ne scontano in prima persona le conseguenze.
RispondiEliminaCondivido ed apprezzo l'articolo di Oliveri e la risposta di Biagiotti.
RispondiEliminaHo operato per quasi quarant'anni nella pubblica amministrazione (Comuni) nel ruolo di dirigente e non posso che ribadire come le tanto pubblicizzate "riforme per la semplificazione" non sono state altro che un coacervo di norme intricate create (scusate se mi sento andreottiano) solo per rendere più difficoltosa l'operatività della pubblica amministrazione. Il problema sta nel fatto che il cittadino non lo sa e quindi scarica le sue frustrazioni (che sono anche quelle di chi lavora) sul dipendente, incapace di dare risposte alle sue giuste esigenze.
Mi son sempre detto, e ho sempre sostenuto, che il pubblico dipendente oggi più che fornire un servizio è costretto a difendere se stesso. E' pur vero che non tutti sono colpevoli, ma è altrettanto vero che "i prodotti" (!!!!) del nostro (?) Parlamento hanno creato solo inutili e inverosimili complicazioni.
Una domanda sorge spontanea: ma chi legifera è capace di intendere e volere?
Credo, anche se sono in quiescenza da diversi anni ma seguo con interesse l'evolversi(?) della situazione, che andremo sempre peggio. E penso a chi oggi è rimasto a difendere l'indifendibile.
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