Il caso di corruzione per lo
stadio di Roma evidenzia per l’ennesima volta la quanto sia esiziale per la
trasparenza dell’operato dell’amministrazione pubblica l’utilizzo continuo di
incarichi fiduciari, sempre più spesso conferiti gratuitamente.
L’elemento particolare
dell’inchiesta sullo stadio sta nel ruolo per nulla facile da definire
dell’avvocato Lanzalone.
Qual è il ruolo del
professionista, ex presidente dell’Acea? Non lo hanno molto chiaro nemmeno i
procuratori della Repubblica titolari dell’inchiesta.
L’ipotesi è aver commesso il
reato di corruzione nell’ambito delle complesse trattative finalizzate alle
regole urbanistiche da seguire per la realizzazione dello stadio a Roma, per
aver accettato un incarico da centinaia di migliaia di euro offerto dal
costruttore Parnasi, controparte del comune di Roma proprio nella delicata
pratica amministrativa.
Leggiamo cosa dispone l’articolo
319 del codice penale nel definire il reato di corruzione: “Il pubblico
ufficiale , che, per omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato un
atto del suo ufficio, ovvero per compiere o per aver compiuto un atto contrario
ai doveri di ufficio, riceve, per sé o per un terzo, denaro od altra utilità, o
ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da sei a dieci anni”.
Come noto, la parte del corrotto
nell’ambito della fattispecie penale della corruzione la può svolgere solo un
pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio.
Chi è il pubblico ufficiale? Ce
lo spiega l’articolo 357, comma 1, del codice penale, a mente del quale “agli effetti della legge penale, sono
pubblici ufficiali, coloro i quali esercitano una pubblica funzione
legislativa, giudiziaria o amministrativa”. La pubblica funzione è definita
a sua volta dal comma 2 dell’articolo 357: “è
pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e
da atti autoritativi e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione
della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di
poteri autoritativi o certificativi”.
Dunque, il pubblico ufficiale
deve disporre del potere diretto di costituire, modificare o estinguere
situazioni giuridiche soggettive. A tale scopo deve essere incardinato negli
organi della pubblica amministrazione, dotati, in misura varia, del potere di
formare e manifestare la volontà pubblica. Dunque, il pubblico ufficiale o è un
componente degli organi di governo che rappresentano l’amministrazione per rappresentanza
elettorale diretta o per designazione di secondo grado, oppure è un funzionario,
titolare di un rapporto di lavoro subordinato con l’ente del quale forma e
manifesta la volontà.
E l’incaricato di pubblico
servizio? Ai sensi dell’articolo 358 del codice penale, “agli effetti della legge penale, sono incaricati di un pubblico
servizio coloro i quali, a qualunque titolo,
prestano un pubblico servizio”. Il comma 2 del medesimo articolo 358
specifica che per “pubblico servizio deve
intendersi un'attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione,
ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di questa ultima, e con
esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione
di opera meramente materiale”.
Insomma, l’incaricato di
pubblico svolge un’attività nell’interesse dell’amministrazione e regolata
dalle stesse norme e disposizioni, senza disporre, però, direttamente dei
poteri tipici della funzione pubblica, cioè quelli decisionali, autoritativi e
certificativi volti a costituire, modificare o estinguere le situazioni
giuridiche soggettive.
Come si capisce, l’incaricato di
pubblico servizio deve agire sulla base di un “titolo”: almeno un contratto, un
incarico formalizzato che potrebbe anche non determinarne l’inserimento nei
ruoli pubblici, ma ne finalizza l’azione assoggettandola alle regole pubbliche
da seguire nel caso di specie.
Ora, qui sta il punto dolente
del caso di specie. Su Il Fatto Quotidiano del 16 giugno 2018 l’articolo
intitolato ““Non aveva poteri” : Raggi
prova ridimensionare il consulente” si prova a dare conto delle specifiche
difficoltà dell’impianto accusatorio.
Il sindaco di Roma ha riferito
ai titolari dell’inchiesta, afferma l’articolo, che Lanzalone “non ha mai preso alcuna decisione, era solo
un consulente del Campidoglio senza poteri”. Dunque, stando al primo
cittadino della Capitale, l’avvocato Lanzalone non potrebbe essere qualificato
come pubblico ufficiale e, soprattutto, non ha espresso la volontà del Comune.
Un modo per affermare l’estraneità dell’amministrazione alle azioni poste in
essere dal “consulente”.
Ma, allora, visto che è appunto
qualificato come “consulente” l’ex numero uno dell’Acea è qualificabile come
incaricato di pubblico servizio? Sì, ma se vi fosse il “titolo” richiesto dal
codice penale: uno straccio di incarico o di contratto anche sola prestazione
professionale.
Invece, nulla. Spiega l’articolo
de Il Fatto Quotidiano: “È con una nota del 9 marzo 2017 che viene
incaricato di "supportare e coadiuvare" il sindaco nell'ambito
"delle specifiche attività di natura trasversale", in ragione
"della complessità giuridica delle relazioni pubblico-privato di alcuni
rilevanti e strategici interventi urbanistici, di erogazione di servizi
pubblici". Non solo quindi la faccenda dello stadio. Questa nota della Raggi però non
viene formalizzata. E la sindaca ai magistrati ne spiega il motivo. Si pensava di inquadrare la sua posizione o
in base all'articolo 90 del Tuel, (testounico enti locali) riguardante
"uffici posti alle dirette dipendenze del sindaco", ma avrebbe dovuto cancellare la propria
iscrizione all'albo degli avvocati; o in base ad un’ulteriore norma sulle
consulenze gratuite”.
Dunque, si conferma che il
“consulente” ha prestato le sue attività senza alcun titolo: né un contratto di
assunzione (l’articolo 90 del d.lgs 267/2000, come noto, consente di assumere
nello staff del sindaco persone che lo aiutino nello svolgimento delle proprie
funzioni di “indirizzo e controllo”; il comma 3-bis vieta, però, a questi
appartenenti agli staff di svolgere attività gestionale: difficile ritenere che
l’intervento in trattative per comporre i dissidi col Parnasi derivanti
dall’imposizione del comune di dimezzare le cubature del progetto risulti privi
della caratteristica di “attività gestionale”); né perfino un contratto di
prestazione professionale, anche solo a titolo gratuito.
Per questo, informa sempre
l’articolo de Il Fatto Quotidiano “per il
tribunale di Roma era un consulente di
fatto del Campidoglio e quindi un pubblico ufficiale, con "il potere di orientare le scelte", scrive il gip
nell'ordinanza”.
Così sintetizzato, l’impianto
accusatorio non pare saldissimo. E’ del tutto naturale, anzi causa tipica della
consulenza, che il consulente orienti le scelte del committente, altrimenti
perché lo ingaggerebbe? Definire il rapporto, non regolato in alcun modo, come
consulenza “di fatto”, per giungere poi a considerare il consulente solo di
fatto alla stregua di un pubblico ufficiale perché “orienta”, pur senza poter
decidere nulla, è tema che sarà affrontato con i necessari approfondimenti dai
giudici di merito.
Qui rileviamo alcuni aspetti
fondamentali, che come sempre risultano eclatanti a Roma, ma sono diffusissimi
dappertutto. Il primo aspetto è che nessuno sa con esattezza come l’avvocato
Lanzalone sia stato incaricato. Le informazioni sono contraddittorie: chi parla
di un invio “imposto” dai “vertici” del partito, chi invece afferma che sia
stata una scelta propria del sindaco.
Come mancano informazioni chiare sul modo attraverso il quale si è giunti a scegliere il Lanzalone come
“consulente”, mancano totalmente, affermano i giornali ma lo conferma il
sindaco di Roma, un titolo giuridico volto alla regolazione del rapporto tra il
consulente ed il comune. Insomma: non è chiaro per nulla a che titolo il
Lanzalone partecipasse a riunioni e trattative col Parnasi relative allo stadio
della Roma.
Questi sono gli aspetti gravi,
che al di là dell’eventuale commissione di reati, rivela la violazione dei
minimali principi di accountability,
che in Italia resta sempre una sconosciuta.
Ogni comune, non solo Roma, ed ogni
amministrazione pubblica dovrebbe essere in grado, applicando i semplicissimi
principio della trasparenza e del rispetto delle regole di mercato e
concorrenza, di spiegare ai cittadini come e perché incarica un qualsiasi
soggetto terzo, professionista o impresa che sia, indicando i fini
dell’incarico, i costi, i poteri esercitabili, i risultati attesi, gli
strumenti di valutazione e controllo del suo operato.
In poche parole abbiamo
sintetizzato il significato vero e profondo della legge 190/2012 e delle altre
disposizioni che compongono l’insieme del sistema “anticorruzione”.
Per l’ennesima volta, si deve
constatare che questo insieme di norme non ha funzionato.
Né come prevenzione: è attestato
dai fatti che, nonostante il Piano Nazionale Anticorruzione, nonostante le
norme, nonostante le regole specifiche del comune, un professionista sia stato
scelto senza alcun confronto con altri, senza alcuna certezza delle modalità
con le quali ha iniziato a svolgere le sue funzioni, persino senza alcun
incarico formale. Né come controllo: nessuno ha avuto modo di accorgersi che il
“consulente” del comune ad un certo punto ha accettato incarichi dalla
controparte del comune, in pieno e totale conflitto di interessi.
La legge 190/2012 proprio per
evitare ciò ha introdotto nell’articolo 53 del d.ls 165/2001 il comma 16-ter: “I dipendenti
che, negli ultimi tre anni di servizio, hanno esercitato poteri autoritativi o
negoziali per conto delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1,
comma 2, non possono svolgere, nei tre anni successivi alla cessazione del
rapporto di pubblico impiego, attività lavorativa o professionale presso i
soggetti privati destinatari dell’attività della pubblica amministrazione
svolta attraverso i medesimi poteri. I contratti conclusi e gli incarichi
conferiti in violazione di quanto previsto dal presente comma sono nulli ed è
fatto divieto ai soggetti privati che li hanno conclusi o conferiti di
contrattare con le pubbliche amministrazioni per i successivi tre anni con
obbligo di restituzione dei compensi eventualmente percepiti e accertati ad
essi riferiti”.
Siccome nel nostro
provincialismo ci piace sempre utilizzare parole straniere, questa norma è nota
come divieto di pantouflage o di revolving door: insomma, se un
dipendente pubblico tratta un affare con una controparte privata, poi non può
entrare in affari con quella controparte.
Sì: però questo vale solo per i
“dipendenti” pubblici. Ma, Lanzalone non era un dipendente pubblico. Certo,
l’articolo 2, comma 3, del Dpr 62/2013 (codice di comportamento dei dipendenti
pubblici) dispone: “Le pubbliche
amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165
del 2001 estendono, per quanto
compatibili, gli obblighi di condotta
previsti dal presente codice a tutti i collaboratori o consulenti, con qualsiasi tipologia di contratto o incarico e a
qualsiasi titolo, ai titolari di organi e di incarichi negli uffici di
diretta collaborazione delle autorità politiche, nonché nei confronti dei
collaboratori a qualsiasi titolo di imprese fornitrici di beni o servizi e che
realizzano opere in favore dell’amministrazione”. Ma, il Lanzalone, come si
è visto, pare abbia agito senza alcun titolo.
Per inciso: ancora una volta è
stata la magistratura penale ad individuare eventuali violazioni alle regole,
non l’apparato anticorruzione del comune, non l’Anac.
Il nocciolo amministrativo, non
penale, della vicenda è tutto qui. L’incarico al Lanzalone è stato attribuito in
spregio a qualsiasi norma e principio di trasparenza. Il che significa aver
favorito l’opacità, esattamente il terreno di coltura dei conflitti di
interesse e della corruzione.
Ma, il problema vero è che nei
comuni e nelle pubbliche amministrazioni la refrattarietà ad applicare queste
regole è vastissima. Il caso di Roma è un archetipo: di fatto alla fine altro
non è se non un incarico che il sindaco ha conferito, per sola via di fatto, ad
un avvocato.
Si notano due effetti perversi:
a)
l’aggiramento delle regole di selezione e
ingaggio come dipendente, anche solo dello staff, perché non è stato applicato
nemmeno l’articolo 90 del d.lgs 267/2000;
b)
l’aggiramento, ma si direbbe la totale
violazione, di uno dei baluardi dell’anticorruzione, quel codice dei contratti
che ha finalmente chiarito come le prestazioni
dei legali siano appalti di servizio, specificando che:
a.
l’attività di difesa in giudizio non è soggetta
alla regole puntuali del codice, ma ai principi enunciati dal suo articolo 4,
tra i quali: “economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento,
trasparenza, proporzionalità, pubblicità”;
come si nota, dei principi indicati in grassetto non s’è vista nemmeno l’ombra;
b.
la consulenza è, invece, una prestazione di
servizio regolata ai sensi dell’allegato IX del codice dei contratti, secondo
il quale sono “servizi legali” da assoggettare alla disciplina particolare
degli articoli 140, 143 e 144, tutti i servizi legali “non esclusi” per effetto
dell’articolo 17, comma 1, lettera d), del codice, tra cui appunto le
consulenze, Cpv 79110000-8.
Eppure, tra sindaci, segretari
comunali, dirigenti e funzionari è diffusissima l’opinione – per altro difesa
dal Consiglio dell’ordine degli avvocati e in qualche misura dal Consiglio di
stato, ancora legato ad erronee interpretazioni di anni addietro – che agli
avvocati gli incarichi si possano e debbano dare esclusivamente per via
fiduciaria e non secondo le ovvie, banali, minime regole della trasparenza, il
cui rispetto eviterebbe di incorrere in casi limite, che però si presentano,
come quello di Roma, ove nemmeno si sa chi e come abbia incaricato il
consulente e nemmeno esiste un titolo giuridico della sua attività.
La mancanza di trasparenza nelle
selezioni, tanto dei dipendenti pubblici, quanto dei professionisti, è uno dei
maggiori rischi di corruzione previsti direttamente dall’articolo 1, comma 16,
della legge 190/2012, ed accertato varie volte dall’Anac nei suoi piani
nazionali anticorruzione.
Eppure, ancora si discetta della
opportunità di scegliere l’avvocato per via fiduciaria, perché “occorre
assicurare la vittoria delle cause” e quindi “non si può scegliere come fosse
un qualsiasi appalto”. Ma, e se poi l’avvocato, scelto per via fiduciaria da
chi pensa di avere un’arte divinatoria tale da selezionare sempre e solo
l’avvocato vincente (ma non sarebbe meglio curare le attività in modo il più
corretto possibile, così da instradare l’attività di qualsiasi avvocato?),
perde la causa? Che accade? Chi lo sceglie si dimette, ottiene una valutazione
negativa, paga in qualche modo?
E se, poi, l’avvocato così “di
fiducia” in altro modo tradisca la fiducia? E’ l’imbarazzo nel quale ora si
trova il sindaco di Roma, certamente non direttamente chiamata in causa
dall’inchiesta, certamente non in grado di conoscere i rapporti privati tra il
suo “consulente” ed il Parnasi, ma comunque fonte dell’incarico “di fatto”. Sul
piano penale non v’è responsabilità, ma sul piano politico la culpa in eligendum la si può certo
pretendere.
E lo stesso vale per le miriadi
di incarichi “di fatto” che piovono ogni giorno su tutti gli 8.000 comuni
d’Italia, o incarichi anche espressamente regolati, con contratti di
consulenza, o con incarichi ai sensi degli articolo 90 o 110 del d.lgs 267/2000, tutti volti a creare nella sostanza un apparato amministrativo
“parallelo” a quello pubblico, caratterizzato dalla diretta riferibilità alla
politica, che molte volte “paracaduta” l’avvocato, il consulente, il
professionista, con o senza titoli di ingaggio chiari, per creare una gestione
vicina alla politica e, come tale, già di per sé esposta a tutti i pericoli
propri del conflitto di interessi della corruzione.
In Sicilia si è risolto il
problema dell’opacità evidente di questo modo di agire, istituzionalizzando la
figura del cosiddetto “esperto del sindaco”; perché non basta il sindaco, non
bastano gli assessori, non basta il consiglio, non basta il segretario
comunale, non bastano dirigenti e funzionari, non basta lo staff, non bastano
gli incarichi a contratto: occorre anche l’“esperto”. No?
Oppure, si ritiene di poter
affermare la “discrezionalità” (la differenza della quale con l’arbitrio
evidentemente non è ancora del tutto compresa da tutti) della scelta sulla base
della “gratuità” dell’incarico.
Sul tema degli incarichi
gratuiti, resta una pietra miliare il pregevolissimo articolo scritto dal
costituzionalista Michele Ainis sul Corriere della sera il 22 agosto 2015, dal
titolo “Gli
incarichi gratuiti svalutano il lavoro (favorendo i baratti)”. Scrive
Ainis: “come verrà ricompensato il
consulente” ovviamente gratuito? “Con
favori, protezioni, «entrature». Insomma col biglietto d’ingresso in un
circuito dove non conta il merito, bensì le conoscenze”.
Sembra scritto proprio per il
caso di Roma: ha affermato il vice premier Di Maio che il Lanzalone è stato,
poi, nominato al vertice dell’Acea come “premio” per l’attività, gratuita e
senza titolo, svolta relativamente allo stadio.
Occorre altro per comprendere
che il sistema così come impiantato non funziona? Che occorre che qualsiasi
persona si presenti in qualunque tavolo, dimostri espressamente il titolo per
il quale parla e agisce per conto di una PA? Che occorre imporre, eliminando
qualsiasi dubbio latinorum di Consiglio
di stato o chiunque altro, selezioni pubbliche, trasparenti e motivabili, di professionisti
esterni? Che occorrono controlli preventivi su questi incarichi?
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