Una concessione di un punto ristoro in una scuola, come anche in un
ufficio pubblico, non rientra nel campo di applicazione del codice
dei contratti.
Colpisce che la giurisprudenza sempre più spesso, negli ultimi anni,
intervenga con pronunce estremamente discutibili e fortemente
criticabili, per la insoddisfacente fondatezza delle argomentazioni.
Ne è esempio la sentenza del Tar Lazio, sez. III-bis, 17.9.2019, n.
11054, che ha annullato la procedura di assegnazione di un punto
ristoro (le classiche macchinette erogatrici di bevande e merende) in
una scuola, perché l’ente appaltante ha previsto nel bando il
criterio del massimo rialzo del canone, invece dell’offerta
economicamente più vantaggiosa.
Nella sostanza, la sentenza accetta che oggetto della procedura di
gara non era una concessione di servizi di ristorazione, ma giunge ad
una conclusione che non può condividersi. Afferma la pronuncia:
“anche a considerare l'oggetto della gara in questione come la
mera concessione di un punto ristoro, il Collegio osserva che doveva
trovare applicazione, come prospettato dalla società ricorrente,
l'art. 164, comma 2, del D.lgvo n. 50/2016, il quale stabilisce che
"Alle procedure di
aggiudicazione di contratti di concessione di lavori pubblici o di
servizi si applicano, per quanto compatibili, le disposizioni
contenute nella parte I e nella parte II, del presente codice,
relativamente ai principi generali, alle esclusioni, alle modalità e
alle procedure di affidamento, alle modalità di pubblicazione e
redazione dei bandi e degli avvisi, ai requisiti generali e speciali
e ai motivi di esclusione, ai criteri di aggiudicazione, alle
modalità di comunicazione ai candidati e agli offerenti, ai
requisiti di qualificazione degli operatori economici, ai termini di
ricezione delle domande di partecipazione alla concessione e delle
offerte, alle modalità di esecuzione"”.
Dove sta l’errore in cui incorre il Tar? Proprio nella
configurazione della fattispecie giuridica come concessione di
servizi. Un errore, per altro, che si riscontra molto, troppo spesso,
nella gestione operativa degli enti, derivante dalla confusione tra
concessione di servizi e concessioni di immobili patrimoniali a fini
di utilizzo commerciale.
Verifichiamo i molti elementi sulla base dei quali il Tar avrebbe
dovuto rilevare che a ben vedere nel caso di specie il codice dei
contratti semplicemente non va applicato.
In primo luogo, occorre capire quali sono le concessioni disciplinate
dal d.lgs 50/2016. Non è difficile: basta leggere l’articolo 3,
comma 1, lettera vv): secondo cui è “«concessione di servizi»,
un contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto in virtù del
quale una o più stazioni appaltanti affidano a uno o più operatori
economici la fornitura e la gestione di servizi diversi
dall'esecuzione di lavori di cui alla lettera ll) riconoscendo a
titolo di corrispettivo unicamente il diritto di gestire i servizi
oggetto del contratto o tale diritto accompagnato da un prezzo, con
assunzione in capo al concessionario del rischio operativo legato
alla gestione dei servizi”.
La norma configura con estrema chiarezza la concessione come sistema
alternativo a quello dell’appalto. E’ pur sempre
l’esternalizzazione di una prestazione che dovrebbe essere resa
dall’amministrazione, la quale sceglie di non realizzarla
direttamente, bensì di affidarla ad un appaltatore, anzi, ad un
concessionario.
Il negozio giuridico è sinallagmatico: a fronte della prestazione
resa dal concessionario al concedente, questo consente al
concessionario di ottenere il guadagno gestendo i servizi ed
introitando interamente i corrispettivi.
Scopriamo, quindi, che il codice dei contratti costruisce il negozio
giuridico come un contratto a prestazioni corrispettive, nel quale la
PA concedente assume il ruolo di parte obbligata al corrispettivo,
che nella concessione si trasforma nel diritto a gestire ed ad
introitare tariffe o proventi gestionali. Che la PA sia parte
“passiva” del rapporto è confermato da un elemento decisivo: il
diritto alla gestione può essere accompagnato da un prezzo, erogato
dalla PA.
Il secondo elemento caratterizzante la concessione è l’assunzione
del rischio operativo nella gestione del servizio. Il rischio
operativo è definito dall’articolo 3, comma 1, lettera zz), del
d.lgs 50/2016: “rischio legato alla gestione dei lavori o dei
servizi sul lato della domanda o sul lato dell’offerta o di
entrambi, trasferito all'operatore economico nei casi di cui
all'articolo 180. Si considera che l'operatore economico nei casi di
cui all'articolo 180 assuma il rischio operativo nel caso in cui, in
condizioni operative normali, per tali intendendosi l'insussistenza
di eventi non prevedibili non sia garantito il recupero degli
investimenti effettuati o dei costi sostenuti per la gestione dei
lavori o dei servizi oggetto della concessione. La parte del rischio
trasferita all'operatore economico nei casi di cui all'articolo 180
deve comportare una reale esposizione alle fluttuazioni del mercato
tale per cui ogni potenziale perdita stimata subita dal
concessionario non sia puramente nominale o trascurabile”.
Il rischio operativo è connesso, quindi, a costi ed investimenti
(che nella gara vanno esposti in un piano finanziario) affrontati dal
concessionario per rendere il servizio esternalizzato dalla PA. Un
servizio, torniamo a ribadirlo, che dovrebbe essere prodotto dalla PA
stessa, ma che essa sceglie di affidare ad operatori economici del
mercato.
Ora, nel caso di specie, un punto di ristoro con le macchinette, ma
anche un semplice bancone-bar, è una funzione alla quale deve
adempiere una scuola o anche un ufficio pubblico?
Ovviamente no. A meno che non si tratti di servizi di ristorazione.
Fattispecie sicuramente non rientrante nel caso di specie. Il quale è
semplicissimo: è solo e soltanto la concessione di spazi degli
uffici, l’occupazione insomma di metrature cubiche, ove consentire
ad un esercente la vendita di bevande e alimentari.
Non si tratta di un servizio a carico della PA; non si vede quale
piano finanziario possa essere elaborato per simile fattispecie,
visto che consiste nella concessione di spazi finalizzati
all’esercizio di attività commerciale.
Soprattutto, non v’è traslazione di rischio, poiché la PA non
deve rendere la prestazione. Ed è per questa ragione che la PA,
lungi dal poter integrare gli introiti acquisiti dal concessionario
con la vendita al pubblico mediante un “prezzo”, esattamente al
contrario pretende dal concessionario il pagamento di un “canone
concessorio”.
La presenza del canone evidenzia che la PA invece di parte passiva è
parte attiva della concessione e conferma il carattere patrimoniale
della stessa: il canone è versato a fronte dell’occupazione dei
locali.
Andiamo alle conclusioni. Il Tar avrebbe dovuto verificare se nel
vocabolario comune degli appalti un servizio simile ad un punto di
ristoro sia previsto. La risposta è ovviamente negativa. Le
concessioni possono limitarsi appunto alla ristorazione dei
dipendenti o, nel caso delle scuole, per altro solo quelle che vanno
fino alle elementari, degli studenti.
Non solo. Il Tar ha letto con attenzione l’articolo 164, comma 2,
del d.lgs 50/2016. Sarebbe stato meglio, però, se avesse dato
un’occhiata anche al comma 1, ultimo periodo, del medesimo articolo
164. Avrebbe scoperto che ivi si dispone: “In ogni caso,
le disposizioni della presente Parte non si applicano ai
provvedimenti, comunque denominati, con cui le
amministrazioni aggiudicatrici, a richiesta di un
operatore economico, autorizzano, stabilendone
le modalità e le condizioni, l'esercizio di un'attività
economica che può svolgersi anche mediante l'utilizzo di impianti o
altri beni immobili pubblici”. Esattamente, cioè, la
“concessione patrimoniale” che consenta l’esercizio di
un’attività commerciale, come quella oggetto della controversia.
Lungi dal poter essere annullata la procedura per mancata
applicazione del criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa, essa non doveva nemmeno lontanamente richiamare il
codice dei contratti. Il Tar avrebbe dovuto respingere il ricorso,
per assenza totale, comunque, della violazione di norme di legge,
visto che le norme sulle concessioni non debbono applicarsi alle
autorizzazioni/concessioni finalizzate all’utilizzo di spazi
pubblici per esercizio di attività commerciali.
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