La riforma delle regole sulle assunzioni disposta dall’articolo 33, comma 2, del d.l. 34/2019, convertito in legge 58/2019, si sta trasformando ogni giorno di più in un vero e proprio caso di di rifiuto psicologico, comprensibile quanto si vuole, della novità, in piena sindrome di Stoccolma di attaccamento alle vecchie logiche.
Un fenomeno che andrebbe analizzato più da scienze sociali e psicologiche, che non sotto il mero aspetto giuridico.
In primo luogo, appare francamente assurda la stessa vicenda normativa. L’articolo 33, comma 2, entra in vigore l’1.5.2019.
Il decreto attuativo avrebbe dovuto vedere la luce entro 60 giorni non dalla legge di conversione, bensì proprio dall’entrata in vigore del decreto-legge e, quindi, entro l’1.7.2019.
Tuttavia, immediatamente a regioni e comuni la norma non è piaciuta e sono partite manovre dilatorie e modificative, che hanno anche inciso sul testo della legge di conversione.
Inizialmente, nel testo originario del decreto, il valore soglia si sarebbe dovuto reperire mettendo in rapporto la spesa complessiva per tutto il personale dipendente, al lordo degli oneri riflessi a carico dell'amministrazione con le entrate relative ai primi tre titoli delle entrate del rendiconto dell'anno precedente a quello in cui viene prevista l'assunzione, considerate al netto del fondo crediti dubbia esigibilità stanziato in bilancio di previsione.
La legge di conversione ha “sporcato” il rapporto, inizialmente correttamente previsto tra due grandezze (spesa ed entrate) di un medesimo rendiconto, prevedendo che, invece, le entrate fossero la media del triennio precedente; il fondo crediti di dubbia esigibilità, però, è rimasto connesso a quello stanziato nel bilancio di previsione, senza che si capisca più se sia quello dell’anno in corso, o l’ultimo rendicontato.
Già la legge di conversione, quindi, ha modificato in modo del tutto inopportuno, sul piano della logica l’emendamento, per la paura che nel 2019 alcuni comuni avessero effettuato un numero di assunzioni tale da rendere il rapporto con le entrate penalizzante.
Si sarebbe dovuto, allora, lavorare per definire valori soglia credibili e non eccessivamente difficoltosi.
Nulla di tutto questo. Il Dpcm per mesi e mesi nel corso del 2019 non si è visto. Fino alla Conferenza Stato-regioni autonomie locali dell’11.12.2019. Che, assurdamente, non approva il testo (comunque molto deficitario) di un decreto attuativo, ma di un decreto modificativo dell’articolo 33, comma 2. Infatti, la Conferenza ha previsto due valori soglia: quello degli enti “virtuosi” e quello, superiore, oltre i quali gli enti non sono virtuosi, creando una fascia di enti i cui valori soglia siano più elevati di quelli virtuosi, ma al di sotto di quelli non virtuosi.
E’ una delle rare volte che un Dpcm, invece di attuare, modifica. Ma, ovviamente, il Dpcm non aveva questo potere. La Conferenza, quindi, ha approvato contestualmente un emendamento alla legge di bilancio per il 2020, che modificasse il testo dell’articolo 33, comma 2, in modo da adeguare (pazzesco!) la legge al Dpcm. Cosa avvenuta con l’articolo 1, comma 853, della legge 160/2019.
Tutto risolto? Neanche per sogno. Nonostante l’Anci avesse espresso il proprio esplicito “assenso tecnico” al testo del Dpcm, ai comuni la riforma continua a non piacere e, di riflesso, molti interpreti prestano voce a queste perplessità.
E continuano le azioni dilatorie, fino alla Conferenza Stato-città autonomie locali, che prevede lo slittamento dell’efficacia della riforma dell’1.1.2020, inizialmente previsto nel testo approvato nella seduta dell’11.12.2019, al 20 aprile 2020. Chissà mai perché.
Ma, ancora non finisce. Infatti, Anci (che aveva espresso il proprio “assenso tecnico”, ma evidentemente scherzava, al testo del Dpcm visto nella seduta della Conferenza dell’11.12.2019) ed interpreti, si “accorgono” che l’articolo 6, comma 3, del testo dello schema di Dpcm penalizza proprio gli enti della fascia cuscinetto, introdotta dal Dpcm, che invece di attuare la legge ne aveva promosso la modifica.
Quindi, che fare? Altro emendamento. Questa volta alla legge di conversione del d.l. 162/2019, la quale modifica per l’ennesima volta l’articolo 33, comma 2, prevedendo per gli enti di questa seconda fascia non l’obbligo di contenere le spese per assunzioni entro il tetto complessivo della spesa di personale come emerge dall’ultimo rendiconto approvato, regola previsto dal testo del Dpcm approvato l’11.12.2019 dalla Conferenza, ma il diverso obbligo di effettuare le assunzioni possibili finché non si superi il rapporto tra spese di personale ed entrate correnti dell’ultimo consuntivo definite dall’ultimo rendiconto.
Un tourbillon di regole, modifiche, scadenze, rinvii, precisazioni, ritardi, altre precisazioni, pentimenti, che lascia sbigottiti.
Ma, non basta. Ancora operatori ed interpreti si abbarbicano al passato. Ad esempio col continuare a presentare il dubbio se dalle spese del personale vada esclusa qualche voce, come i maggiori oneri derivanti dai rinnovi della contrattazione nazionale collettiva, oppure le spese per le assunzioni dei disabili o categorie protette.
Il problema dell’esclusione dal computo delle spese di alcune specifiche voci si poteva e doveva porre nel precedente sistema, nel quale la spesa delle assunzioni era vista isolatamente, come specifico sottoinsieme delle spese, da contenere. Dunque, aveva un senso indicare quali spese comprendere e quali no, tra i vincoli; ad esempio, visto che le assunzioni previste dalla legge 68/1999 sono obbligatorie, non avrebbe senso includere una spesa obbligatoria in un tetto alle spese per assunzioni.
La riforma impostata dall’articolo 33, comma 2, del d.l. 34/2019 abbandona totalmente le logiche di vincoli specifici alla spesa di personale, ed introduce il principio molto diverso della sostenibilità della spesa di personale che viene rapportata, quindi, alle entrate correnti (purtroppo, diluite nel triennio a causa della non condivisibile scelta adottata con la legge di conversione del decreto).
Se, quindi, le assunzioni attivabili sono tutte quelle che consentono di aumentare la spesa (per gli enti virtuosi) fino a quella prevista dai valori soglia di virtuosità indicati dal Dpcm, oppure di contenerla secondo le regole per gli enti non virtuosi, non ha più alcun rilievo “escludere” certe tipologie di spesa di personale. Tutta la spesa di personale, comprese le voci escluse nel vecchio sistema, va considerata, perché tutta questa spesa deve essere finanziata da entrate sufficienti a dimostrarne la sostenibilità.
Non deve passare inosservato il dato che il d.l. 34/2019 opportunamente elimina dal computo della spesa del personale l’Irap, che solo per finzione giuridica col precedente sistema era considerata appartenente alle spese di personale. L’Irap è un’imposta e come tale va trattata e, quindi, è corretto non considerarla nel rapporto tra spesa di personale ed entrate correnti. Il resto della spesa di personale (macroaggregati 101 e 103) sì.
C’è, poi, il problema del rendiconto ultimo approvato. La visione statica o dinamica della previsione della norma e del Dpcm sono entrambe sostenibili. Oggettivamente, l’interpretazione dinamica, che prevede l’aggiornamento dei dati al momento dell’approvazione del rendiconto (che non è obbligatori approvare il 30 aprile: lo si potrebbe, e forse sarebbe opportuno, approvare anche ben prima) anche in corso d’anno è utile per giovarsi da subito di eventuali benefici determinati al valore soglia da decisioni operativi volte a contenere la spesa del personale o ad aumentare le entrate. Parrebbe assurdo rinviare a due esercizi gli effetti di queste manovre, se si adottasse la scelta di vedere i rendiconti come un blocco statico, invece che come rappresentazioni di un flusso.
Certo, si dovrebbero aggiornare in corso d’anno alcuni documenti programmatori e previsionali. Ma, programmi e previsioni, in quanto tali, non possono essere considerati elementi fissi ed immutabili; per loro natura vanno considerati solo una guida, legata ad eventi futuri ed incerti e soggetti ad aggiornamenti, che in alcuni casi sono obbligatori per legge a cadenze fisse, in altri si rendono necessari ed opportuni. Quando vigeva il sistema del patto di stabilità, occorreva monitorare mese per mese gli andamenti di bilancio, anche per correggere il tiro dei programmi o oltre che della gestione: perché queste correzioni, che costituiscono l’essenza stessa del controllo di gestione, non potrebbero attivarsi per il controllo della spesa per assunzioni a tempo indeterminato e di personale?
Infine, altro dubbio, posto ad esempio da T. Grandelli e M. Zamberlan (Calcoli, consuntivi e spese: le tre incognite sul personale, in Quotidiano Enti Locali del 17.2.2020): che accade ad un comune che nel 2019 avesse assunto in modo tale da aumentare la spesa di personale rispetto al 2018?
Questo dubbio è indotto dalle tecniche dilatorie, che hanno spostato in là l’attuazione del Dpcm. Non si fosse scelto di perdere tempo, nel 2020 si sarebbe in presenza di una norma operativa.
In ogni caso, l’incremento della spesa di personale nel 2019 rispetto al 2018 è un falso problema, connesso proprio alla visione statica o dinamica del rendiconto.
Un comune che nel 2019 avesse incrementato la spesa rispetto al 2018 farebbe bene a far finta di nulla e, nel 2020, assumere secondo le regole del Dpcm, per “accorgersi” dell’eventuale incremento della spesa del 2019 solo nel 2021, laddove si intendesse, nella visione statica, utilizzabile tra un anno i dati del rendiconto 2019? Non sarebbe come nascondere la polvere sotto il tappeto?
Gli autori dell’articolo in commento esemplificano il problema con questa domanda: “Comune da 20mila abitanti, dove nel 2019 la spesa di personale, rispetto al 2018, è già cresciuta del 3%, nel 2020 può beneficiare di tutto il 9% di bonus previsto dal decreto attuativo o si deve fermare al 6%, ovviamente fatto salvo il rispetto del primo valore soglia?”.
La risposta sta nella domanda. Leggiamo il testo del Dpcm (salvo ulteriori possibili modifiche). C’è scritto, nell’articolo 5, comma 1, che i comuni virtuosi “possono incrementare annualmente, per assunzioni di personale a tempo indeterminato, la spesa del personale registrata nel 2018 […] in misura non superiore al valore percentuale indicato dalla seguente Tabella 2”. La previsione normativa sembra chiara al di là di qualsiasi ragionevole dubbio: l’incremento percentuale concesso non è, per restare all’esempio, DEL 9%, ma FINO AL 9%. Quindi, può essere anche inferiore. E deve esserlo, laddove nel 2019 l’ente avesse incrementato già la spesa di personale rispetto al 2018.
Dunque, il dubbio, correttamente posto, è del tutto infondato o, comunque, trova agevole risposta nelle norme.
Il problema è che se le nuove regole vengono lette ancora alla luce del precedente sistema o con un atteggiamento di rifiuto o “abrogante” o teso ad evidenziarne solo problemi di superficie, senza tentare di reperire le soluzioni pur possibili, nonostante stesure testuali come sempre largamente opache ed involute, la riforma non decollerà mai.
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