Lo sblocco del lavoro agile nelle zone colpite dal coronavirus potrebbe essere occasione ghiotta perché la pubblica amministrazione lanci definitivamente questa forma di esecuzione del rapporto di lavoro.
L’articolo 3 del Dpcm 23.2.2020, esecutivo del d.l. 6/2020, punta proprio al lavoro agile come strumento fondamentale per consentire la prosecuzione delle attività lavorative anche laddove i dipendenti si ritrovino nell’impossibilità di rendere la prestazione fisicamente nei luoghi sede datoriale.
La disposizione citata prevede che “La modalità di lavoro agile disciplinata dagli articoli da 18 a 23 della legge 22 maggio 2017, n. 81, e' applicabile in via automatica ad ogni rapporto di lavoro subordinato nell'ambito di aree considerate a rischio nelle situazioni di emergenza nazionale o locale nel rispetto dei principi dettati dalle menzionate disposizioni e anche in assenza degli accordi individuati ivi previsti”.
Nel sistema pubblico il lavoro agile stenta ancora a partire, soffocato dall’esigenza di regolarlo con direttive e dai soliti problemi di iper normazione, che hanno appesantito le modalità operative con progetti speciali, connessi a particolari forme di finanziamento e defatiganti relazioni sindacali.
In effetti, la direttiva della Funzione Pubblica 1 giugno 2017, n. 3, registrata dalla Corte dei conti il 26 giugno 2017, n. 1517, ha fornito da tempo spunti interessanti per il passaggio allo smart working. In particolare sulle relazioni sindacali, la direttiva ricorda che in materia di smart working, “in assenza di specifiche disposizioni normative e contrattuali, soccorrono le disposizioni normative di carattere generale in materia di poteri datoriali e di riparto di competenza tra fonte legislativa e fonte contrattuale”; quindi, in applicazione dell’articolo 5, comma 2, del d.lgs 165/2001, secondo il quale le determinazioni per l'organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte in via esclusiva dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro, nella sostanza, poiché nessuna norma o contratto collettivo impone specifiche relazioni, è possibile attivare per iniziativa datoriale un’organizzazione in lavoro agile. Il Dpcm 23.2.2020 non fa altro che facilitare questa possibilità.
A ben vedere, la resistenza che ancora lo smart working incontra nella PA è dovuta in gran parte all’eterno problema dell’individuazione dei “prodotti” del lavoro, lo stesso che rende i progetti gestionali alla base dell’erogazione dei premi di produttività troppo spesso fumosi e velleitari.
I datori pubblici non sono ancora capaci di indicare gli esiti o i “prodotti” delle prestazioni. Tanto è vero che la gran parte dei sistemi di valutazione si basa su improbabili giudizi su criteri altisonanti ma incapaci di indicare il rendimento, come “l’orientamento al cliente” o le varie “capacità di”.
Per attivare il lavoro agile, come per una seria valutazione, occorre indicare gli esiti del lavoro e stimare il tempo standard necessario per svolgerlo.
Compiuta questa operazione, attività ispettive, oppure accessi degli addetti ai servizi sociali alle strutture o alle abitazioni degli utenti, o anche colloqui di orientamento ai servizi, azioni di ricerca ed accompagnamento al lavoro di persone in cerca di occupazione, imputazione di dati, controlli di atti e processi, sarebbero misurabili in modo piuttosto semplice.
La misurabilità del prodotto del processo lavorativo consente di rendere autonoma la prestazione dal luogo e dai mezzi di produzione presenti nella sede e di renderla in via remota: tutti i processi gestibili con applicativi internet o che richiedono mobilità nel territorio e contatti con terzi (e la PA ne gestisce moltissimi) si prestano al lavoro agile.
Il Dpcm attiva una semplificazione dell’attivazione del lavoro agile connessa ad un’emergenza, che per quanto concerne il lavoro pubblico sembra opportuno si estenda come misura a regime, per passare da un’eterna sperimentazione limitata a pochi casi e compressa da progetti tanto complessi quanto eccessivamente ambiziosi, ad una modalità standardizzata.
Gli sforzi, più che sulla regolazione dell’istituto, andrebbero concentrati sull’individuazione di standard operativi o “metriche” del lavoro. Si attendono da decenni e soprattutto dal 2009, epoca di approvazione della riforma Brunetta.
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