TESTO AGGIORNATO ALL'ORDINANZA 658/2020
La proliferazione di ordinanze
dettate dall’emergenza, nel doveroso obbligo di rispondere ad esigenze reali,
come quella di scongiurare disordini dovuti alle effettive necessità di molte
famiglie che a causa della gelata economica hanno difficoltà a procurarsi quanto
serve per mangiare, crea tuttavia problemi operativi di non poco conto.
L’idea dei buoni spesa,
certamente non nuova visto che già regioni ed enti locali l’hanno sperimentata
da tempo e non solo nella situazione dell’emergenza coronavirus, va anche bene.
Tutto sta, però, come sempre,
nei dettagli operativi, che nel caso di specie restano avvolti nelle nebbie.
Forse, anche, per dare il messaggio di ridurre al massimo i passaggi
amministrativi.
Allora, scopriamo che manca un
elemento: il Governo non ha ancora adottato nessun atto per indicare alla Corte
dei conti che nessuno degli atti adottati nell’emergenza potrà essere oggetto
di scrutinio ai fini della responsabilità contabile. Sarà compito della
magistratura penale occuparsi di eventuali reati.
L’assenza di indicazioni alla
magistratura contabile lascia sempre incombere su scelte operative diciamo non
tanto disinvolte, quanto adeguate in termini di elasticità e velocità alle
urgenze dettate dall’emergenza, il fastidio del peso di possibili controlli
successivi, dai quali possano scattare pretese di risarcimenti erariali. Il che
costituisce un deterrente alla coniugazione di bene e presto.
Un primo elemento di rilievo
dell’ordinanza della Protezione civile è l’autorizzazione all’acquisizione di
buoni spesa utilizzabili per l’acquisto di generi alimentari, “in deroga al
decreto legislativo 18 aprile 2016, n.50”.
La previsione contiene una
conferma e una novità da comprendere. La conferma è che il d.lgs 50/2015, cioè
il codice dei contratti, è letteralmente una palla al piede. Operatori,
commentatori, amministrazioni pubbliche, imprese, lo dicono da sempre. Il codice
dei contratti è un inno alla burocrazia, un Moloch che incombe sugli appalti,
rendendoli farraginosi, oggetto di contenziosi infiniti coltivati da interpretazioni
giurisprudenziali che sul medesimo tema (si pensi al principio di rotazione)
sono capaci di confliggere in modo insanabile e frontale, nonché da
lievitazioni e superfetazioni normative, come le sfortunate Linee Guida.
Ogni volta che vi sia una
necessità anche di gran lunga inferiore al livello di allarme ed emergenza
determinati dal Cvid-19, il codice dei contratti viene in tutto o in parte
derogato, alleggerito, rivisto.
Speriamo si sia capito che quell’impianto
va radicalmente rifatto, da zero. E che si sia capita la lezione: se si
stabilisce che al di sotto di una certa soglia di spesa non è necessaria una
gara o un confronto e non deve essere fornita la motivazione della scelta
diretta del contraente, è perché la motivazione è dettata direttamente dalla
legge ed è da ricavare nella pura e semplice fissazione della soglia di spesa
al di sotto della quale non c’è gara. Punto. Esistendo MePa e altri mercati
elettronici da cui trarre prezzi di riferimento, se il dirigente acquisti
direttamente un bene o un servizio o aggiudichi un appalto manifestamente a
prezzi fuori mercato, paghi penalmente, contabilmente e sia allontanato per
sempre dai ruoli dell’amministrazione pubblica.
Ma, questo riguarda il futuro. L’oggi
ci pone di fronte alla novità, la “deroga” al codice dei contratti. Che porta
con sé due problemi:
1)
l’estensione della deroga;
2)
la legittimità della fonte di tale deroga.
Il primo problema deve
rispondere alla domanda: “cosa” si deroga del codice dei contratti? Per come è
scritta la norma, la risposta appare clamorosa, quanto inevitabile: si deroga
all’intero codice dei contratti.
Non sembra che l’intento consista
solo nel derogare alle procedure di gara, ma anche a tutto quel che precede e
segue. Non c’è da fare capitolato, non c’è da costituire seggio di gara o
commissione di gara, non c’è proposta di aggiudicazione, non c’è aggiudicazione,
non vi sono clausole stand still, non vi sono comunicazioni infra e post
gara, non vi sono verbali di inizio attività, stati di avanzamento, certificati
di pagamento, certificati di regolare esecuzione. Non vi sono Cig, non vi sono
versamenti all’Anac. Non vi sono verifiche ai sensi dell’articolo 80 del codice.
Non v’è nemmeno tracciabilità finanziaria. Nulla.
E’ una deroga totale e completa.
Se così non fosse, del resto, attivarsi “subito” e in modo che entro il 15
aprile giungano ai comuni le risorse a compensazione della spesa sostenuta (i
comuni la anticipano, che sia chiaro), come prevede l’ordinanza, sarebbe
materialmente impensabile, non solo impossibile.
D’altra parte, non è un vero e
proprio contratto di fornitura ex codice dei contratti: il beneficiario non è
il comune, ma i cittadini in condizioni di bisogno. E’ un contratto in favore
di terzi, un intervento di sostegno finanziario, un vero e proprio contributo,
che passa, però, attraverso l’acquisto di “titoli”, i buoni spesa, di esercizi
commerciali alimentari.
Il vero problema è il secondo:
la legittimità di un’ordinanza della Presidenza del consiglio dei ministri,
dipartimento della Protezione civile, che consente una deroga così estesa al
codice dei contratti. L’emergenza la giustifica e la rende sostenibile. Ma, è
un salto nel buio.
Sul piano operativo, come agire,
allora? E’ chiaro che alcuni elementi non possono mancare:
1.
l’atto di avvio dell’iter, con impegno della spesa
e “chiamata a raccolta” dei fornitori;
2.
l’ulteriore eventuale atto di chiamata di soggetti
chiamati a supporto, per la consegna dei buoni spesa;
3.
la sottoscrizione con i fornitori di una convenzione
per l’acquisto dei buoni;
4.
l’individuazione dei destinatari;
5.
la consegna dei buoni;
6.
la rendicontazione.
Passiamo ad un esame veloce dei vari
passaggi. L’avvio dell’iter passa per un provvedimento che:
a)
dia atto dell’ordinanza e del finanziamento previsto
dall’ordinanza; si badi: i 400 milioni previsti sono con vincolo di
destinazione; nulla vieta, però, ai comuni di utilizzare altre risorse di bilancio
e in particolare del fondo di solidarietà comunale, al quale confluiranno per cassa
le anticipazioni decise dal Governo;
b)
stabilisca di individuare gli esercizi
commerciali e di pubblicarli in uno specifico elenco posto nel sito
istituzionale, in bell’evidenza;
c)
impegni la spesa;
d)
fissi i criteri generali per individuare i
destinatari.
Di che atto si tratta? Il testo
finale dell’ordinanza della Protezione Civile 29.3.2020, n. 658 ha fortunatamente
eliminato: “Il comune provvede con ordinanza del sindaco, su proposta del
responsabile dell’ufficio preposto ai servizi sociali e del responsabile
finanziario, ad individuare la platea dei beneficiari tra i nuclei
familiari più esposti ai rischi derivanti dall’emergenza epidemiologica da
virus COVID-19, con priorità per quelli non già assegnatari di sostegno pubblico”.
Allo scopo di evitare sconquassi
nella determinazione delle competenze e di contraddire con le previsioni del d.l.
19/2020, volto ad evitare un inopportuno proliferare di ordinanze sindacali, il
testo finale dispone che “l’ufficio dei servizi sociali di ciascun comune individua
la platea dei beneficiari ed il relativo contributo tra i nuclei familiari più
esposti agli effetti economici derivanti dall’emergenza epidemiologica da virus
Covid-19 e tra quelli in stato di bisogno, per soddisfare le necessità più
urgenti ed essenziali con priorità per quelli non già assegnatari di sostegno
pubblico”.
Ovviamente, resta la funzione di
iniziativa politica del sindaco, che darà gli indirizzi per l’attivazione della
procedura. Meglio se i comuni riuscissero, anche in un secondo momento, a definire
col Peg l’obiettivo specifico da assegnare ai vari soggetti competenti.
In ogni caso, all’indirizzo del
sindaco, che in emergenza può anche essere del tutto informale e verbale, frutto
di indicazioni anche fornite in riunioni in videoconferenza con segretario comunale
e responsabili, seguirà l’atto di iniziativa ad “evidenza pubblica”, il provvedimento
“a contrattare” con gli esercizi commerciali, contenente l’impegno della spesa.
Tale atto sarà una determina del
dirigente o responsabile di servizio degli affari generali o amministrativi o
di quell’altra unità amministrativa che nell’ente curi contratti e convenzioni.
Siamo, quindi, alla seconda fase,
successiva all’impegno della spesa. Come individuare gli esercizi commerciali?
Non è da fare alcuna gara, sarebbe oltremodo impensabile. Come sarebbe
possibile mettere a confronto i costi di specifici generi alimentari tra loro,
visto che i listini sono totalmente diversi? Inoltre, i cittadini che beneficeranno
dei buoni spesa non sono certo liberi di andare a fare la spesa esattamente
dove credono. Certo, la titolarità del buono induce a ritenere che gli spostamenti
nel territorio dovranno considerarsi giustificati. Ma, è opportuno che i comuni
attivino un elenco quanto più lungo possibile di esercizi commerciali dai quali
acquisire buoni spesa, per favorire la massima prossimità territoriale alle
famiglie.
Non c’è una gara sui prezzi. L’ordinanza,
nel testo finale, rimette ai comuni il compito di determinare il valore del
buono spesa (inizialmente si era pensato ad un valore di 300 euro per famiglia).
Gli esercizi commerciali dovranno accettare il titolo di spesa per il valore
previsto.
Il modo più semplice consiste:
1.
nell’acquisire la disponibilità degli esercizi
commerciali a far parte del progetto;
2.
nell’acquisto di carte prepagate emesse dagli
esercizi commerciali, con le quali le famiglie potranno effettuare la spesa.
In realtà, si pone un problema
operativo di non poco conto. Se esistesse una meta-carta prepagata del valore pari
all’importo del buono spesa fissato dal comune, spendibile presso qualsiasi
esercizio commerciale, sarebbe l’optimum. Di fatto, il comune consegnerebbe
alla famiglia una sorta di “buono pasto”, utilizzabile presso qualsiasi
esercizio che lo accetti.
Si potrebbe arrivare a questa
soluzione se il comune emettesse buoni (anche cartacei o virtuali, una mail di
autorizzazione), accettati dagli esercizi convenzionati, i quali, alla
presentazione dei buoni da parte dei cittadini, li ritirerebbero, per
presentare poi lo scontrino al comune (o al soggetto del terzo settore dal
comune incaricato e finanziato), per ottenere il pagamento, indicando con un
atto (altra mail? Segnatura sullo scontrino) che la spesa è stata
effettivamente rivolta al titolare del buono (sarà da prevedere a carico di
questo l’esibizione di un documento di riconoscimento alla cassa dell’esercizio
commerciale).
Sta di fatto che, se non si
procede come immaginato sopra, il meta-buono non esiste. A meno che non sia
creato al volo, con l’acquisizione, da parte del comune, di una quantità di
carte di credito prepagate magari emesse dal tesoriere. Ma, limitare la spesa
di quelle carte ai soli esercizi commerciali alimentari è molto difficile (sebbene,
con la chiusura forzata di moltissimi altri esercizi commerciali, non impossibile).
Di fatto, il sistema migliore
sarebbe acquisire proprio buoni pasto emessi da qualche catena, caricati per il
valore stabilito dal comune e permettere di spenderli dove meglio il nucleo
familiare ritenga. Si consentirebbe la libera scelta dell’esercizio
commerciale, che giustificherebbe ancor di più la scelta di derogare totalmente
al codice dei contratti e qualificherebbe la “chiamata” degli esercizi
commerciali come un accreditamento generale a farsi da tramite dell’erogazione
di un contributo, il buono spesa, finalizzato e spendibile solo, appunto, per
generi alimentari.
Altrimenti, l’acquisto di specifiche
carte prepagate emesse dal singolo esercizio commerciale ha la scomodità di limitare
la libertà di scelta e di veicolare le famiglie verso specifici esercizi.
E, poi i comuni potranno
distribuire numeri molto contenuti di buoni spesa. Ma, se non si sa quali
esercizi sono scelti dai nuclei, quanti ne dovrebbe acquisire, ciascun comune?
Immaginiamo che un comune di non
più di 5000 abitanti possa erogare (come nelle bozze iniziali) non più di 66
buoni spesa. Torniamo ai rapporti con gli esercizi commerciali. Se in 5
aderiscono, il comune per assicurare la libera scelta dovrà acquistare 66 buoni
pasto da 300 per 5, dunque 330 buoni pasto.
Non potrà, allora, materialmente
pagare subito gli esercizi. Questi dovranno mettere a disposizione ciascuno 66
buoni pasto precaricati. Il comune, nel momento in cui distribuisce, dovrà far
esercitare ai nuclei familiari la scelta di quale tessera prepagata usare e
consegnarle solo quella. Quindi, il comune restituirà agli esercizi commerciali
le tessere non utilizzate e gli esercizi potranno “scaricarle” dell’importo.
L’ordinanza 658/2020 precisa che
i comuni, per l’acquisto e la distribuzione dei beni, possono avvalersi degli
enti del Terzo Settore. Inoltre, per individuare i fabbisogni alimentari e per una
migliore distribuzione dei beni tra i destinatari, i comuni in particolare
possono coordinarsi con gli enti attivi nella distribuzione alimentare a valere
sulle risorse del Programma operativo del Fondo di aiuti europei agli indigenti
(FEAD).
Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali rende disponibile l’elenco
delle organizzazioni partner del citato Programma operativo. Le attività
connesse alla distribuzione alimentare non sono soggette alle restrizioni agli
spostamenti: i dipendenti del Terzo settore ed i volontari coinvolti, oltre ai
dipendenti dei comuni, potranno ovviamente circolare liberamente.
Per non perdere tempo nella
sottoscrizione della convenzione con gli esercizi commerciali (ma anche con gli
enti del Terzo settore, se da coinvolgere ex novo), è opportuno pensare a
sistemi di adesione molto veloci: il comune pubblichi sul proprio sito una convenzione
firmata digitalmente dal dirigente o responsabile di servizio; nella stessa
pagina del sito, renda disponibile un modulo di accettazione per adesione, che
il rappresentante legale compili e sottoscriva digitalmente, inviandolo alla
pec dell’ente. In questo modo, l’ente costituisce automaticamente l’elenco
degli aderenti, tenendo sempre aperta l’adesione, e non perde tempo per la
sottoscrizione dell’atto, nella forma di scrittura privata, permettendone anche
la sottoscrizione da remoto e rispettando le regole del distanziamento sociale.
La fase più delicata è l’individuazione
dei destinatari, che, comunque, vista l’entità dei finanziamenti, non potranno
essere moltissimi.
La’ordinanza espone solo due
criteri molto astratti per determinare i beneficiari:
-
nuclei familiari più esposti ai rischi derivanti
dall’emergenza epidemiologica da virus COVID-19,
-
nuclei in stato di bisogno, con priorità per quelli
non già assegnatari di sostegno pubblico.
La maggiore o minore esposizione
ai rischi non pare sia, in effetti, patrimonio conoscitivo né degli assistenti
sociali, né dei responsabili dei servizi finanziari, né dei sindaci, ma di
virologi e medici. Dunque, si tratta di un criterio difficilmente attuabile con
senso scientifico; ci si può avvicinare col “buon senso”, tenendo conto della
presenza nei nuclei di anziani, portatori di handicap, immunodepressi e
similari altre situazioni, per altro non tutte conoscibili e conosciute. Il
comune non è detto abbia questo patrimonio di dati, per altro in gran parte riservatissimi.
Anche lo “stato di bisogno” è di
difficile interpretazione. Fare riferimento all’Isee è fuorviante. Esso fa
riferimento a redditi del passato e, comunque, a valutazioni del “patrimonio”,
non utili a valutare una situazione di bisogno connessa all’immediata
disponibilità di risorse “contanti”. Anche chi disponga di una casa di
proprietà o altri beni, dai quali non riesca a ricavare un reddito finanziario,
se non disponga più delle entrate da un’attività lavorativa chiusa o persa,
potrebbe trovarsi in una condizione di “bisogno”, che sarà da valutare caso per
caso, quindi, senza automatismi.
Il buono spesa dovrà essere
assegnato a chi non goda già di “sostegno pubblico”. Per come è scritta la
previsione, par di capire che debba trattarsi di qualsiasi “sostegno pubblico”.
I comuni dovranno fare riferimento alle banche dati dei percettori di contributi
ed erogazioni pubbliche, con le quali sono per altro avvezzi, da quando si
gestisce il Rei. Ad esempio, Rei, Reddito di cittadinanza e altri contributi
comunali o regionali sono da ritenere di ostacolo all’accesso al buono spesa.
Attenzione: per quanto sia
ovvio, è opportuno ricordare che se il comune deve rendere pubblico l’elenco
degli esercizi commerciali aderenti all’iniziativa, dovrà tenere strettamente
riservati i dati dei beneficiari, visto che emergono dati soggetti a particolare
trattamento (gli ex dati “super sensibili”).
Anche la distribuzione delle
carte, quindi, dovrà avvenire nella maggiore discrezione e riservatezza
possibile. Laddove il comune si avvalga di soggetti del Terzo settore per
compiere questa operazione, dovrà garantire che essi operino nel più stretto
riserbo, per altro necessario per evitare tensioni sociali.
E’ opportuno che i comuni non si
lascino tentare dall’individuare i casi mediante procedure pubbliche “ad
istanza di parte”. La riservatezza verrebbe messa a rischio e il rischio di
contenziosi e ricorsi, che porrebbe poi il problema dell’accesso a dati così
riservati, sarebbe molto più elevato di un sistema di individuazione “d’ufficio”,
con conservazione agli atti della relazione tecnica dei servizi sociali sui criteri
di individuazione dei destinatari. Sarà una fatica enorme, cui si accompagnerà
un peso della scelta altrettanto grave, quanto la responsabilità connessa. Non
un gran regalo, né ai sindaci, né ai responsabili dei servizi sociali.
Certo, per enti di grandi
dimensioni, ove la conoscenza diretta dei nuclei potenzialmente beneficiari
risulta molto difficoltosa, attivare canali pubblici per invitare gli
interessati a manifestare l’interesse ad ottenere il buono spesa non sarà evitabile.
Meglio non configurare l’avviso come una “graduatoria”, ma appunto come un
invito a presentare motivatamente interesse all’assegnazione, evidenziando che
essa resta condizionata alle disponibilità di bilancio e alla valutazione del
profilo di necessità e bisogno, determinata dal comune stesso.
Infine: gli enti che ancora non
abbiano approvato il bilancio, come possono attivare questi buoni spesa?
Si potrebbe fare riferimento
alle regole sulla gestione provvisoria, di cui all’articolo 163, comma 3, del
Tuel, che ammettono la possibilità di impegnare spese “tassativamente regolate
dalla legge”. Il fatto è che un’ordinanza, non è una legge. Occorrerebbe fare
lo sforzo interpretativo di agganciare il precetto dell’ordinanza alle
disposizioni di legge che essa a sua volta attua. Torniamo alla lacuna
evidenziata sopra relativa alla Corte dei conti…
L’ordinanza, con un esercizio discutibile
della competenza in materia, afferma l’ovvio nel comma 3 dell’articolo 1, ove
rileva che in caso di esercizio provvisorio “sono autorizzate variazioni di
bilancio con delibera di giunta”.
E’ da ricordare che l’ordinanza
ammette la possibilità per i comuni possono di destinare alle misure urgenti di
solidarietà alimentare eventuali donazioni, per incrementare i fondi
disponibili o anche donazioni “in natura” di alimentari e generi di prima
necessità. Per il caso di donazioni in denaro, l’ordinanza autorizza l’apertura
di conti correnti bancari presso il proprio tesoriere o conti correnti postali,
sui quali fare confluire le donazioni. Le donazioni si gioveranno delle
detassazioni previste dall’articolo 66 del d.l. 18/2020.
TESTO PRECEDENTE
La proliferazione di ordinanze dettate dall’emergenza, nel doveroso obbligo di rispondere ad esigenze reali, come quella di scongiurare disordini dovuti alle effettive necessità di molte famiglie che a causa della gelata economica hanno difficoltà a procurarsi quanto serve per mangiare, crea tuttavia problemi operativi di non poco conto.
L’idea dei buoni spesa,
certamente non nuova visto che già regioni ed enti locali l’hanno sperimentata
da tempo e non solo nella situazione dell’emergenza coronavirus, va anche bene.
Tutto sta, però, come sempre,
nei dettagli operativi, che nel caso di specie restano avvolti nelle nebbie.
Forse, anche, per dare il messaggio di ridurre al massimo i passaggi
amministrativi.
Allora, scopriamo che manca un
elemento: il Governo non ha ancora adottato nessun atto per indicare alla Corte
dei conti che nessuno degli atti adottati nell’emergenza potrà essere oggetto
di scrutinio ai fini della responsabilità contabile. Sarà compito della
magistratura penale occuparsi di eventuali reati.
L’assenza di indicazioni alla
magistratura contabile lascia sempre incombere su scelte operative diciamo non
tanto disinvolte, quanto adeguate in termini di elasticità e velocità alle
urgenze dettate dall’emergenza, il fastidio del peso di possibili controlli
successivi, dai quali possano scattare pretese di risarcimenti erariali. Il che
costituisce un deterrente alla coniugazione di bene e presto.
Un primo elemento di rilievo
dell’ordinanza della Protezione civile, della quale si commenta una bozza, è l’autorizzazione
all’acquisizione di buoni spesa utilizzabili per l’acquisto di generi
alimentari, “in deroga al decreto legislativo 18 aprile 2016, n.50”.
La previsione contiene una
conferma e una novità da comprendere. La conferma è che il d.lgs 50/2015, cioè
il codice dei contratti, è letteralmente una palla al piede. Operatori,
commentatori, amministrazioni pubbliche, imprese, lo dicono da sempre. Il codice
dei contratti è un inno alla burocrazia, un Moloch che incombe sugli appalti,
rendendoli farraginosi, oggetto di contenziosi infiniti coltivati da interpretazioni
giurisprudenziali che sul medesimo tema (si pensi al principio di rotazione)
sono capaci di confliggere in modo insanabile e frontale, nonché da
lievitazioni e superfetazioni normative, come le sfortunate Linee Guida.
Ogni volta che vi sia una
necessità anche di gran lunga inferiore al livello di allarme ed emergenza
determinati dal Covid-19, il codice dei contratti viene in tutto o in parte
derogato, alleggerito, rivisto.
Speriamo si sia capito che quell’impianto
va radicalmente rifatto, da zero. E che si sia capita la lezione: se si
stabilisce che al di sotto di una certa soglia di spesa non è necessaria una
gara o un confronto e non deve essere fornita la motivazione della scelta
diretta del contraente, è perché la motivazione è dettata direttamente dalla
legge ed è da ricavare nella pura e semplice fissazione della soglia di spesa
al di sotto della quale non c’è gara. Punto. Esistendo MePa e altri mercati
elettronici da cui trarre prezzi di riferimento, se il dirigente acquisti
direttamente un bene o un servizio o aggiudichi un appalto manifestamente a
prezzi fuori mercato, paghi penalmente, contabilmente e sia allontanato per
sempre dai ruoli dell’amministrazione pubblica.
Ma, questo riguarda il futuro. L’oggi
ci pone di fronte alla novità, la “deroga” al codice dei contratti. Che porta
con sé due problemi:
1)
l’estensione della deroga;
2)
la legittimità della fonte di tale deroga.
Il primo problema deve
rispondere alla domanda: “cosa” si deroga del codice dei contratti? Per come è
scritta la norma, la risposta appare clamorosa, quanto inevitabile: si deroga
all’intero codice dei contratti.
Non sembra che l’intento consista
solo nel derogare alle procedure di gara, ma anche a tutto quel che precede e
segue. Non c’è da fare capitolato, non c’è da costituire seggio di gara o
commissione di gara, non c’è proposta di aggiudicazione, non c’è aggiudicazione,
non vi sono clausole stand still, non vi sono comunicazioni infra e post gara,
non vi sono verbali di inizio attività, stati di avanzamento, certificati di
pagamento, certificati di regolare esecuzione. Non vi sono Cig, non vi sono
versamenti all’Anac. Non vi sono verifiche ai sensi dell’articolo 80 del codice.
Non v’è nemmeno tracciabilità finanziaria. Nulla.
E’ una deroga totale e completa.
Se così non fosse, del resto, attivarsi “subito” e in modo che entro il 15
aprile giungano ai comuni le risorse a compensazione della spesa sostenuta (i
comuni la anticipano, che sia chiaro), come prevede l’ordinanza, sarebbe
materialmente impensabile, non solo impossibile.
D’altra parte, non è un vero e
proprio contratto di fornitura ex codice dei contratti: il beneficiario non è
il comune, ma i cittadini in condizioni di bisogno. E’ un contratto in favore
di terzi, un intervento di sostegno finanziario, un vero e proprio contributo,
che passa, però, attraverso l’acquisto di “titoli”, i buoni spesa, di esercizi
commerciali alimentari.
Il vero problema è il secondo:
la legittimità di un’ordinanza della Presidenza del consiglio dei ministri,
dipartimento della Protezione civile, che consente una deroga così estesa al
codice dei contratti. L’emergenza la giustifica e la rende sostenibile. Ma, è
un salto nel buio.
Sul piano operativo, come agire,
allora? E’ chiaro che alcuni elementi non possono mancare:
1.
l’atto di avvio dell’iter, con impegno della spesa
e “chiamata a raccolta” dei fornitori;
2.
l’ulteriore eventuale atto di chiamata di soggetti
chiamati a supporto, per la consegna dei buoni spesa;
3.
la sottoscrizione con i fornitori di una convenzione
per l’acquisto dei buoni;
4.
l’individuazione dei destinatari;
5.
la consegna dei buoni;
6.
la rendicontazione.
Passiamo ad un esame veloce dei vari
passaggi. L’avvio dell’iter passa per un provvedimento che:
a)
dia atto dell’ordinanza e del finanziamento previsto
dall’ordinanza; si badi: i 300 (o 400) milioni previsti sono con vincolo di
destinazione; nulla vieta, però, ai comuni di utilizzare altre risorse di bilancio
e in particolare del fondo di solidarietà comunale, al quale confluiranno per cassa
le anticipazioni decise dal Governo;
b)
stabilisca di individuare gli esercizi
commerciali e di pubblicarli in uno specifico elenco posto nel sito
istituzionale, in bell’evidenza;
c)
impegni la spesa;
d)
fissi i criteri generali per individuare i
destinatari.
Di che atto si tratta? L’ordinanza
della Protezione Civile, anche qui con ampia deroga all’ordine delle competenze
fissato dalla normativa e, nel caso di specie, dal d.lgs 267/2000, stabilisce
(nella bozza disponibile): “Il comune provvede con ordinanza del sindaco, su
proposta del responsabile dell’ufficio preposto ai servizi sociali e del
responsabile finanziario, ad individuare la platea dei beneficiari tra i
nuclei familiari più esposti ai rischi derivanti dall’emergenza epidemiologica
da virus COVID-19, con priorità per quelli non già assegnatari di sostegno pubblico”.
E’ chiaro che questa
disposizione è scritta da chi ha una cognizione estremamente sommaria delle
competenze e funzioni negli enti locali.
Ad una prima lettura, la
previsione potrebbe intendersi come attribuzione – derogatoria – al sindaco del
potere di gestione, mediante l’atto monocratico suo tipico, l’ordinanza. Se si
trattasse di questo atto, si dovrebbe ritenere che il riferimento non sia l’ordinanza
prevista dall’articolo 50, comma 5, del Tuel, le cui materie poco hanno a che
fare con la questione dell’erogazione dei buoni spesa, quanto, invece, dell’ordinanza
di cui all’articolo 54, comma 4. L’idea dei buoni spesa è figlia, infatti,
delle informative giunte al Ministero dell’interno sul concreto pericolo di
disordini nelle città, dovuti appunto alla situazione di allarmante indigenza
di molte famiglie: la possibilità di “assalti ai forni” è questione tipica di
sicurezza urbana.
Una lettura, quindi, istintiva della
previsione potrebbe portare a ritenere che sia il sindaco a provvedere all’attivazione
della procedura, su proposta del responsabile dei servizi sociali e del
ragioniere capo.
Quindi, l’ordinanza sarebbe il
provvedimento di avvio e “a contrattare” con gli esercizi commerciali e perfino
di impegno della spesa-
Ad un esame più attento, le cose
non possono stare così. La disposizione della bozza è meno innovativa di quanto
appaia: infatti, attribuisce all’ordinanza del sindaco il solo potere di individuare
la platea dei soggetti destinatari; non di impegnare la spesa, né di avviare la
“chiamata” degli esercizi commerciali.
In effetti, nel rispetto della
separazione delle competenze tra organi di governo e gestione, disposta dall’articolo
4 del d.lgs 165/2001 e dall’articolo 107 del Tuel, al sindaco compete:
1.
l’indirizzo agli uffici, in particolare dei
servizi sociali e finanziari, di innescare le procedure necessarie; indirizzo
che può essere rivolto, ovviamente, anche a quelle altre strutture
amministrative interne con competenze dirette, si pensi agli uffici per le gare
e contratti o agli uffici per il commercio; l’indirizzo del sindaco è attuativo
di una previsione generale, l’ordinanza, che attribuisce ai comuni risorse con
vincolo di destinazione, quindi è doveroso in ogni caso per gli uffici
apprestare quanto necessario, anche in assenza eventuale del Piano Esecutivo di
Gestione e di indicazioni nel Documento Unico di Programmazione: l’emergenza è
emergenza;
2.
l’adozione, con ordinanza, dell’elenco dei
beneficiari, applicando i criteri di individuazione, proposti dai servizi sociali
(proposti, ed evidentemente negoziati e condivisi col sindaco stesso).
L’atto di evidenza pubblica che,
invece, impegna la spesa ed attiva la negoziazione con gli esercizi commerciali
sarà una determina del dirigente o responsabile di servizio degli affari
generali o amministrativi o di quell’altra unità amministrativa che nell’ente
curi contratti e convenzioni.
Siamo, quindi, alla seconda fase,
successiva all’impegno della spesa. Come individuare gli esercizi commerciali?
Non è da fare alcuna gara, sarebbe oltremodo impensabile. Come sarebbe
possibile mettere a confronto i costi di specifici generi alimentari tra loro,
visto che i listini sono totalmente diversi? Inoltre, i cittadini che beneficeranno
dei buoni spesa non sono certo liberi di andare a fare la spesa esattamente
dove credono. Certo, la titolarità del buono induce a ritenere che gli spostamenti
nel territorio dovranno considerarsi giustificati. Ma, è opportuno che i comuni
attivino un elenco quanto più lungo possibile di esercizi commerciali dai quali
acquisire buoni spesa, per favorire la massima prossimità territoriale alle
famiglie.
Non c’è una gara sui prezzi. Si
sa che un buono spesa vale 300 (o 400, nella bozza non si capisce) euro per
nucleo. Gli esercizi commerciali dovranno accettare il titolo di spesa per il
valore previsto.
Il modo più semplice consiste:
1.
nell’acquisire la disponibilità degli esercizi
commerciali a far parte del progetto;
2.
nell’acquisto di carte prepagate emesse dagli
esercizi commerciali, con le quali le famiglie potranno effettuare la spesa.
In realtà, si pone un problema
operativo di non poco conto. Se esistesse una meta-carta prepagata del valore
di 300-400 euro, spendibile presso qualsiasi esercizio commerciale, sarebbe l’optimum.
Di fatto, il comune consegnerebbe alla famiglia una sorta di “buono pasto”,
utilizzabile presso qualsiasi esercizio che lo accetti.
Questo meta-buono non esiste. A
meno che non sia creato al volo, con l’acquisizione, da parte del comune, di
una quantità di carte di credito prepagate magari emesse dal tesoriere. Ma, limitare
la spesa di quelle carte ai soli esercizi commerciali alimentari è molto
difficile (sebbene, con la chiusura forzata di moltissimi altri esercizi
commerciali, non impossibile).
Di fatto, il sistema migliore
sarebbe acquisire proprio buoni pasto emessi da qualche catena, caricati per un
valore di 300 o 400 euro e permettere di spenderli dove meglio il nucleo
familiare ritenga. Si permetterebbe la libera scelta dell’esercizio
commerciale, che giustificherebbe ancor di più la scelta di derogare totalmente
al codice dei contratti e qualificherebbe la “chiamata” degli esercizi
commerciali come un accreditamento generale a farsi da tramite dell’erogazione
di un contributo, il buono spesa, finalizzato e spendibile solo, appunto, per
generi alimentari.
Altrimenti, l’acquisto di specifiche
carte prepagate emesse dal singolo esercizio commerciale ha la scomodità di limitare
la libertà di scelta e di veicolare le famiglie verso specifici esercizi.
E, poi: come vedremo meglio tra
breve, i comuni potranno distribuire numeri molto contenuti di buoni spesa. Ma,
se non si sa quali esercizi sono scelti dai nuclei, quanti ne dovrebbe
acquisire, ciascun comune?
Andiamo ai numeri. Per i comuni fino
a 5000 abitanti, la bozza di ordinanza prevede 20.000 di finanziamento.
Facciamo che, all’ingrosso, un nucleo familiare sia costituito da 2,5 elementi:
5.000 diviso 2,5 fa 2000 nuclei familiari. Ipotizziamo di ridurli anche a 1500.
Ma, 20.000 diviso 300, fa 66,6. Quindi, un comune di 5000 abitanti può erogare
i buoni spesa (se non decide di incrementare con proprie risorse il finanziamento
statale) a 66 famiglie, il 4,5% del totale di famiglie, se computato in 1500.
Un po’ poco. Ma ci torniamo
dopo. Torniamo ai rapporti con gli esercizi commerciali. Se in 5 aderiscono, il
comune per assicurare la libera scelta dovrà acquistare 66 buoni pasto da 300
per 5, dunque 330 buoni pasto.
Non potrà, allora, materialmente
pagare subito gli esercizi. Questi dovranno mettere a disposizione ciascuno 66
buoni pasto precaricati. Il comune, nel momento in cui distribuisce, dovrà far
esercitare ai nuclei familiari la scelta di quale tessera prepagata usare e
consegnarle solo quella. Quindi, il comune restituirà agli esercizi commerciali
le tessere non utilizzate e gli esercizi potranno “scaricarle” dell’importo.
Per non perdere tempo nella
sottoscrizione della convenzione, è opportuno pensare a sistemi di adesione
molto veloci: il comune pubblichi sul proprio sito una convenzione firmata digitalmente
dal dirigente o responsabile di servizio; nella stessa pagina del sito, renda
disponibile un modulo di accettazione per adesione, che il rappresentante
legale compili e sottoscriva digitalmente, inviandolo alla pec dell’ente. In
questo modo, l’ente costituisce automaticamente l’elenco degli aderenti,
tenendo sempre aperta l’adesione, e non perde tempo per la sottoscrizione dell’atto,
nella forma di scrittura privata, permettendone anche la sottoscrizione da
remoto e rispettando le regole del distanziamento sociale.
La fase più delicata è l’individuazione
dei destinatari, che, come si è visto prima, sono pochi, molto pochi.
La bozza di ordinanza espone solo
due criteri molto astratti per determinare i beneficiari:
-
nuclei familiari più esposti ai rischi derivanti
dall’emergenza epidemiologica da virus COVID-19,
-
priorità per quelli non già assegnatari di
sostegno pubblico.
La maggiore o minore esposizione
ai rischi non pare sia, in effetti, patrimonio conoscitivo né degli assistenti
sociali, né dei responsabili dei servizi finanziari, né dei sindaci, ma di
virologi e medici. Dunque, si tratta di un criterio difficilmente attuabile con
senso scientifico; ci si può avvicinare col “buon senso”, tenendo conto della
presenza nei nuclei di anziani, portatori di handicap, immunodepressi e
similari altre situazioni, per altro non tutte conoscibili e conosciute. Il
comune non è detto abbia questo patrimonio di dati, per altro in gran parte riservatissimi.
Il buono spesa dovrà essere
assegnato a chi non goda già di “sostegno pubblico”. Per come è scritta la
previsione, par di capire che debba trattarsi di qualsiasi “sostegno pubblico”.
I comuni dovranno fare riferimento alle banche dati dei percettori di contributi
ed erogazioni pubbliche, con le quali sono per altro avvezzi, da quando si
gestisce il Rei. Ad esempio, Rei, Reddito di cittadinanza e altri contributi
comunali o regionali sono da ritenere di ostacolo all’accesso al buono spesa.
Attenzione: per quanto sia
ovvio, è opportuno ricordare che se il comune deve rendere pubblico l’elenco
degli esercizi commerciali aderenti all’iniziativa, dovrà tenere strettamente
riservati i dati dei beneficiari, visto che emergono dati soggetti a
particolare trattamento (gli ex dati “super sensibili”).
Anche la distribuzione delle
carte, quindi, dovrà avvenire nella maggiore discrezione e riservatezza
possibile. Laddove il comune si avvalga di soggetti del terzo settore per
compiere questa operazione, dovrà garantire che essi operino nel più stretto
riserbo, per altro necessario per evitare tensioni sociali.
E’ opportuno che i comuni non si
lascino tentare dall’individuare i casi mediante procedure “ad istanza di parte”.
La riservatezza verrebbe messa a rischio e il rischio di contenziosi e ricorsi,
che porrebbe poi il problema dell’accesso a dati così riservati, sarebbe molto
più elevato di un sistema di individuazione “d’ufficio”, con conservazione agli
atti della relazione tecnica dei servizi sociali sui criteri di individuazione
dei destinatari. Sarà una fatica enorme, cui si accompagnerà un peso della
scelta altrettanto grave, quanto la responsabilità connessa. Non un gran regalo,
né ai sindaci, né ai responsabili dei servizi sociali.
Infine: gli enti che ancora non
abbiano approvato il bilancio, come possono attivare questi buoni spesa?
Si potrebbe fare riferimento
alle regole sulla gestione provvisoria, di cui all’articolo 163, comma 3, del
Tuel, che ammettono la possibilità di impegnare spese “tassativamente regolate
dalla legge”. Il fatto è che un’ordinanza, non è una legge. Occorrerebbe fare
lo sforzo interpretativo di agganciare il precetto dell’ordinanza alle
disposizioni di legge che essa a sua volta attua. Torniamo alla lacuna
evidenziata sopra relativa alla Corte dei conti…
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