di Vito Antonio Bonanno, Segretario
Generale del comune di Alcamo
Il
probabile prolungarsi dei termini di efficacia delle misure di contrasto alla
diffusione dei contagi da coronavirus e le difficoltà, strutturali e culturali,
nell’organizzazione del lavoro pubblico in modalità agile, come prevede l’art.
87, comma 1, del decreto-legge 17 marzo 2020, n.18, aumentano l’interesse e i
dubbi verso la misura residuale prevista dal legislatore “qualora non sia possibile ricorrere al lavoro agile, anche nella forma
semplificata” e risultino utilizzate tutte le ferie pregresse, i congedi,
la banca delle ore, la rotazione e gli altri istituti contrattali: in tal caso,
l’amministrazione pubblica può “motivatamente esentare il personale
dipendente dal servizio”.
Fermo
restando che la decisione costituisce un tipico atto di gestione del rapporto
di lavoro e, quindi, rientra nella competenza datoriale che appartiene al
dirigente ai sensi dell’art. 107 Tuel, il quale la esercita con la capacità e i
poteri del privato datore di lavoro ai sensi dell’art. 89, comma 6, del
medesimo testo normativo, sono stati sollevati alcuni dubbi applicativi sia sul
contenuto della motivazione, sia anche su eventuali profili di responsabilità
in capo al dirigente che dispone l’esenzione, alla luce della previsione normativa
a mente della quale “il periodo di
esenzione dal servizio costituisce servizio prestato a tutti gli effetti di
legge e l’amministrazione non
corrisponde l’indennità sostitutiva di mensa”.
Per
inquadrare le questioni qui sunteggiate ed in particolare quella afferente la
sussistenza dei presupposti della fattispecie di responsabilità
amministrativo-contabile per l’esborso della retribuzione ai dipendenti
esentati dall’obbligo di prestare l’attività lavorativa, occorre inquadrare il
particolare contesto normativo in cui ci troviamo ad operare e la disciplina
civilistica della sospensione della prestazione lavorativa per cause di forza
maggiore.
L’analisi
deve prendere le mosse dal decreto-legge 23.2.2020, n. 6, convertito dalla
legge n. 13/2020, oggi abrogato dall’art.5, comma 1, lett. a), del
decreto-legge 25.3.2020, n. 19, che ha riscritto il catalogo delle misure che
l’autorità amministrativa può applicare per contrastare la diffusione dei
contagi rendendole tassative, il cui art. 1, inter alios, alla lett. k) prevedeva la possibilità di disporre con
decreto del Presidente dei Consiglio dei Ministri “la chiusura o limitazione dell’attività degli uffici
pubblici”. A fronte di tale previsione, l’art. 19, comma 3, del
decreto-legge 2.3.2020, n.9, tuttora vigente, dispone che “i periodi di assenza dal servizio dei dipendenti delle amministrazioni
di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, imposti
dai provvedimenti di contenimento del fenomeno epidemiologico da COVID-19 ,
adottati ai sensi dell’art. 3, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio 2020,
n.6, costituiscono servizio prestato a tutti gli effetti di legge”.
Nonostante
autorevoli opinioni contrarie, si ritiene che tale disposizione sia tuttora
vigente e non risulti abrogata, nemmeno per continenza, dal comma 3 dell’art.
87 del decreto legge n. 18/2020, in quanto la prima disposizione ha un raggio
applicativo differente dalla più recente previsione normativa. Quella norma,
infatti, fuori dai casi in cui l’assenza del dipendente era legata allo stato
di malattia o di quarantena con sorveglianza attiva a domicilio, equiparato al
ricovero ospedaliero dal comma 1 del citato art. 19, mirava a non imputare al
lavoratore l’assenza dal luogo di lavoro – da cui, come vedremo, discende la
sospensione dell’erogazione della retribuzione - allorquando risulta
conseguente ai provvedimenti emessi ai sensi dell’art. 3, comma 1, del d.l.
6/2020 per contenere la diffusione dei contagi. La norma mira a tutelare tutti
coloro che prestano servizio in uffici pubblici la cui attività risulta sospesa
dai Dpcm (servizi educativi dell’infanzia, scuole, università, musei,
biblioteche e altri luoghi della cultura) e la cui prestazione lavorativa è,
dunque, inesigibile non per impedimento soggettivo del lavoratore né per
volontà del datore di lavoro; ha affermato convincentemente la Corte dei Conti,
nella memoria trasmessa al Senato il 10 marzo 2020 sul disegno di legge di
conversione del decreto-legge 9/2020 (AS 1746), che la norma in esame “interviene per acclarare che laddove le
autorità dovessero adottare provvedimenti di chiusura degli uffici, le assenze
dovranno essere considerate come servizio effettivamente reso”; si tratta,
dunque, di situazioni di assenza dal servizio in conseguenza di
provvedimenti autoritativi emessi per arginare la diffusione del contagio
virale e che incidono sul rapporto sinallagmatico che caratterizza il lavoro
subordinato alle dipendenze di pubbliche amministrazioni. Tuttavia, le
Sezioni Riunite della Corte osservano che “l’eventuale
dispensa del dipendente dal rendere la propria prestazione andrebbe valutata
tenendo conto delle concrete possibilità di avvalersi di modalità
alternative di lavoro a distanza”. Ancora più netto il dossier
dell’Ufficio Studi del Senato (pubblicato il 6 marzo 2020) il quale, nel
sottolineare che la tutela in questione consegue all’adozione dei DPCM e non di
atti di altra autorità, afferma che la fattispecie riguarda “casi di impossibilità derivanti
dall’adozione di divieti di accesso o di allontanamento ovvero da misure di
chiusura di uffici pubblici”. La rapida evoluzione del contagio virale ha
comportato, come noto, l’adozione di molteplici provvedimenti sia da parte
dell’autorità statale che delle autorità regionali e locali che, per quanto
riguarda il tema di indagine, hanno trovato un approdo (sicuramente non
definitivo) nell’art. 87 del d.l. 18/2020 e nell’art. 1, lett. s), del d.l.
19/2020. Quest’ultima norma, abrogando la prima misura che prevedeva anche la “chiusura” degli uffici pubblici, dispone
che con DPCM può essere disposta “la
limitazione della presenza fisica dei dipendenti negli uffici delle
amministrazioni pubbliche, fatte comunque salve le attività indifferibili e
l’erogazione dei servizi essenziali prioritariamente mediante il ricorso a
modalità di lavoro agile”. In buona sostanza, in luogo della generalizzata
previsione di poter addivenire anche alla chiusura degli uffici pubblici, il
legislatore –pur contemplando la sospensione dell’attività dei musei e degli
altri luoghi di cultura oltre che delle attività di istruzione di ogni tipo e
di quelle afferenti il servizio giustizia- ha capovolto la prospettiva
originaria introducendo la misura della “limitazione
della presenza fisica dei dipendenti negli uffici pubblici” da attuare “prioritariamente mediante il ricorso a
modalità di lavoro agile”. In sostanza, la logica che sorregge la strategia
di tutela della salute dei dipendenti pubblici e di contenimento del contagio è
quella di svuotare gli uffici senza
interrompere le attività lavorative che debbono ordinariamente essere
svolte in modalità agile semplificata, ai sensi dell’art. 87, commi 1 e 2 del
d.l. 18/2020, cioè da casa, al netto delle attività indifferibili che
richiedono la presenza in ufficio e di quelle connesse alla gestione dell’emergenza
(sul punto, sia consentito il rinvio ad un mio precedente scritto in materia di
organizzazione del lavoro pubblico a seguito dell’emergenza epidemiologica,
pubblicato
qui).
Ne
discende, pertanto, che la dispensa dal servizio di cui al terzo comma
dell’art. 87 del d.l. 18/2020 non consegue a provvedimenti autoritativi
dell’autorità statale di chiusura di uffici pubblici o di sospensione di
attività svolte in uffici o strutture pubbliche, bensì ad un provvedimento
datoriale del dirigente che, a valle del processo di riorganizzazione della
struttura di riferimento e applicati tutti gli istituti contrattuali che
disciplinano congedi, permessi, recuperi e rotazione, non è in grado di
consentire la prestazione dell’attività lavorativa del dipendente in modalità
agile semplificata (home working) né le
prestazioni ordinariamente disimpegnate dallo stesso afferiscono ad attività ritenute
indifferibili e da prestare obbligatoriamente in ufficio, avuto riguardo anche
alle attività di emergenza.
Il
provvedimento datoriale deve essere adeguatamente motivato, in coerenza
con l’eccezionalità della previsione normativa, dalla cui applicazione non
debbono derivare effetti negativi sull’attività che l’amministrazione nel
suo complesso è chiamata ad espletare: da qui discende la necessità di
interpretare l’istituto della “rotazione” come misura trasversale all’intera
organizzazione, da applicare nel solo rispetto del principio di esigibilità
della mansioni di cui all’art. 52 del d.lgs. 165/2001 e smi, non potendo il
prestatore contestare nemmeno eventuali modifiche al profilo o alle attività in
concreto disimpegnate, risultando pienamente esigibili nel pubblico impiego tutte
le mansioni ascrivibili alla categoria contrattuale di inquadramento.
L’attività
di micro-organizzazione del dirigente, dunque, necessita di una previa analisi
di contesto, sia organizzativo che tecnologico, la quale deve essere condivisa
con analoghe analisi degli altri dirigenti, e con una necessaria ed ineludibile
sintesi dei fabbisogni dell’intero ente che chiama in causa il
segretario comunale titolare di funzioni di sovrintendenza e coordinamento
dell’attività dei dirigenti.
Inutile
negare che tale istruttoria e le correlate decisioni datoriali scontano il
ritardo, invero comune alla maggior parte delle pubbliche amministrazioni, nel
processo di digitalizzazione. Stando ai dati di Banca d’Italia (memoria
presentata al Senato il 25 marzo 2020 nell’ambito dell’esame del ddl 1766 di
conversione del decreto legge 18/2020), “secondo
l’indicatore DESI della Commissione, il nostro Paese si trova al di sotto della
media europea per quanto riguarda la fornitura di servizi pubblici digitali.
Nostre elaborazioni dei dati della Rilevazione sulle forze lavoro mostrano che,
nel 2019, nella PA meno dell’1 per cento dei lavoratori ha lavorato da casa
almeno una volta nel mese di riferimento. I dipendenti pubblici che hanno
usato lo smart working sono in media
significativamente più giovani e più istruiti (i laureati sono più della metà,
contro il 27% tra quelli che non lo hanno usato) e sono occupati in professioni
più qualificate, mentre è poco diffuso tra le persone occupate in mansioni di
ufficio più operative”.
Tuttavia,
occorre sottolineare che il legislatore dell’emergenza mostra di essere
consapevole di tale diffuso contesto organizzativo e strutturale, da un lato,
semplificando la disciplina dello smart
working e le informazioni e comunicazioni da effettuare in caso di sua
attivazione, dall’altro, consentendo ai pubblici dipendenti di servizi di
strumentazioni informatiche e di rete propri, ed introducendo una norma (art.
75) tesa per il futuro ad accelerare le procedure per l’acquisto degli
strumenti informatici a supporto del lavoro agile che si aggiunge ad un’altra
(art. 18 del d.l. 9/2020) che autorizza l’aumento del 50% delle quantità
massime di forniture di computer portatili e tablet attive presso CONSIP (secondo
i dati della Corte dei conti allo stato sono attive 3 convenzioni che scadono a
ottobre e novembre prossimi e che riguardano 22.500 portatili e 10.000 tablet;
altre 3 gare pubblicate a dicembre 2019 debbono essere ancora aggiudicate:
cfr.memoria del 10 marzo 2020 su AS 1746).
Alla
luce di quanto fin qui evidenziato, risulta evidente che l’esenzione (o
dispensa) dal servizio di cui all’art. 87, comma 3 del d.l. 18/2020 differisce
da quella prevista dall’art. 19, comma 3 del d.l. 9/2020, risultando
quest’ultima una decisione necessitata dall’adozione da parte dell’Autorità
statale di misure di chiusura di uffici pubblici (per quanto, prima di
esonerare dal servizio il dipendente addetto all’ufficio chiuso con DPCM, il
dirigente debba motivare un possibile impiego dello stesso in altro ufficio ad
equivalenza di mansioni nonché disporre il congedo d’ufficio per smaltire
eventuali periodi di ferie pregresse); di contro, l’esenzione di cui alla più
recente previsione normativa costituisce una decisione datoriale che potrà,
comunque, sempre essere riguardata sotto il profilo della coerenza e
rispondenza ai principi di efficacia, efficienza ed economicità e, in ultimo,
al buon andamento di cui all’art. 97 della Costituzione che, secondo la
giurisprudenza ordinaria e contabile, conforma anche l’attività di diritto
privato della pubblica amministrazione, essendo i poteri privatistici della
pubblica amministrazione comunque funzionalizzati all’attuazione dei richiamati
principi di matrice costituzionale. E, nella più recente ricostruzione
dell’erario come funzione, la violazione di tali canoni ove accompagnata alla
spendita di risorse pubbliche costituisce danno erariale, sub specie di danno da disservizio, che mira a reintegrare
il patrimonio pubblico della minore produttività dell’apparato pubblico (si
vedano, ex multis, Corte Conti,
Lazio, 30.1.2019, n.43). Secondo la norma richiamata, infatti, il dipendente
dispensato dal servizio dal dirigente continua a percepire la retribuzione (l’intera
retribuzione, ad eccezione dell’indennità sostitutiva della mensa, che per
altro nell’ordinamento locale non esiste) pur non prestando l’attività
lavorativa.
Superando
antiche e consolidate ricostruzioni di impostazione romanistica, dottrina e
giurisprudenza riconducono il lavoro subordinato di cui all’art. 2094 c.c. alla
categoria dei contratti sinallagmatici, basati sulla reciprocità delle
attribuzioni. Come noto, per tale categoria di contratti allorquando per
circostanze sopravvenute il programma contrattuale non è più attuabile il
legislatore prevede il rimedio della risoluzione (1453 c.c.) che elimina gli
effetti del contratto in funzione di riequilibrio della posizione
economico-patrimoniale dei dipendenti.
Tuttavia,
va precisato che il contratto di lavoro subordinato, che è un contratto di
durata e si connota per la particolare valenza costituzionale dell’oggetto
contrattuale, i rimedi applicabili nelle ipotesi di impossibilità sopravvenuta
della prestazione si conformano in modo del tutto particolare. Ogni impedimento
all’attuazione del programma negoziale imputabile al lavoratore, di regola, è
di natura temporanea e, pertanto, dovrebbe sospendere ma non estinguere le
prestazioni; tuttavia, come esprime efficacemente il brocardo latino operae preteritae sunt peritae, il
trascorrere del giorno rende impossibile recuperare tardivamente quella parte
di prestazione che si sarebbe dovuta eseguire, generando dunque gli effetti
della impossibilità assoluta; nel lavoro subordinato, cioè, l’assenza della
prestazione determina la definitiva perdita di quella parte di essa che è
rimasta ineseguita e che è irrecuperabile.
In
disparte gli approdi della dottrina sui rimedi applicabili nell’ipotesi di inadempimento
che comunque escludono la risoluzione del rapporto sulla base dell’art. 1256, comma
2 c.c. (l’inadempimento sarebbe parziale
ratione temporis, nel senso che
risultano impossibili alcune prestazioni ma lo saranno quelle future), ciò che
rileva è il fatto che –esclusi i casi di tutela del lavoratore ( malattia,
ferie, permessi, ecc…) espressamente previsti dalla legge e dai Ccnl-
allorquando la prestazione lavorativa è impossibile e, quindi, viene sospesa
per causa di forza maggiore viene anche sospeso l’obbligo del datore di lavoro
di corrispondere la retribuzione. La giurisprudenza, sul punto, afferma in modo
costante il seguente principio di diritto: “in base agli artt. 1218 e
1256 c.c., la sospensione unilaterale del rapporto da parte del datore di lavoro è giustificata, ed esonera il medesimo datore
dall'obbligazione retributiva, soltanto
quando non sia imputabile a fatto dello stesso, non sia prevedibile ed evitabile e non
sia riferibile a carenze di programmazione o di organizzazione aziendale ovvero a contingenti difficoltà di mercato. La legittimità della sospensione va verificata in riferimento all'allegata situazione
di temporanea impossibilità
della prestazione lavorativa: solo ricorrendo il duplice profilo dell'impossibilità della prestazione lavorativa svolta dal lavoratore e dell'impossibilità di ogni altra prestazione lavorativa” ( Cass. sez. lav. 27.5.2019, n. 14419).
Nella situazione data, dunque, la previsione normativa di cui all’art.
19, comma 3 del d.l. 9/2020 costituisce una opportuna deroga al principio della
non erogabilità di alcuna retribuzione in pendenza della sospensione della
prestazione lavorativa non imputabile in quel caso a fatto del datore di lavoro
pubblico ma ad un provvedimento autoritativo adottato dall’Autorità statale per
ragioni di tutela della salute pubblica; in assenza della previsione di legge,
ai lavoratori esonerati per effetto della chiusura di uffici pubblici quale
misura di contrasto al contagio virale in atto non sarebbe spettata la
retribuzione, né la possibilità di accedere ad altri strumenti di tutela
previsti solo per il lavoro privato, come la cassa integrazione in deroga.
Orbene, nell’ipotesi di cui all’art. 87 del d.l. 18/2020, allo scrivente
non pare che la dispensa dal servizio, con pagamento della intera retribuzione,
costituisca una ipotesi pianamente assimilabile alla precedente. Qui,
infatti, l’esenzione non costituisce un automatico effetto delle misure di
contenimento del rischio da contagio adottate dall’autorità statale, quanto
piuttosto una scelta motivata del datore di lavoro pubblico; in quanto
tale essa –in base ai richiamati principi giurisprudenziali- potrebbe esonerare
dall’obbligazione di pagamento della retribuzione il datore di lavoro pubblico
(e qui trovare la propria ratio
derogatoria la norma emergenziale) solo in quanto egli sia in grado di
provare –dandone conto nella motivazione del provvedimento di esonero- che
l’impossibilità di far lavorare il dipendente non deriva da carenze
nell’organizzazione e nella programmazione aziendale e che non risulta
possibile nessun’altra prestazione lavorativa. E’ affermazione generale,
infatti, “che quando il prestatore non
adempia all'obbligazione principale della prestazione lavorativa non per
colpa del datore di lavoro, a questi non può essere fatto carico
dell'adempimento dell'obbligazione di corresponsione della retribuzione, così
come per ogni caso di assenza ingiustificata (o non validamente giustificata)
dal lavoro” ( Cass. sez. lav. 18.4.2019, n. 10853); e, quindi, se il datore
è in colpa la retribuzione è dovuta.
Ne consegue, pertanto, che se non trova applicazione l’art. 87, comma 3,
del d.l. 18/2020 in quanto l’esenzione non è pienamente coerente col
paradigma normativo e riconducibile ad un fatto non imputabile al dirigente, il
pagamento della retribuzione in assenza di controprestazione da parte del
lavoratore costituisce un ingiustificato esborso di danaro rilevante sia sul
piano disciplinare, che dirigenziale sia anche sul piano della responsabilità
amministrativo contabile. In buona sostanza, il dirigente dovrà in primo
luogo organizzare, pur con le semplificazioni introdotte dalla norma
emergenziale, una scrivania virtuale o, più precisamente, una scrivania nel
domicilio del dipendente, con un correlato meccanismo semplificato di
assegnazione di obiettivi e di monitoraggio periodico degli stessi
(coerentemente all’opportunità, aperta dalla generalizzata sospensione dei
termini dei vari procedimenti amministrativi e tributari, di recuperare l’arretrato:
pare utile sottolineare che il rispetto dei termini dei procedimenti
costituisce uno degli obiettivi delle politiche di prevenzione della
corruzione), prima di valutare –esaurite le ferie pregresse, goduti eventuali
permessi o aspettative anche introdotti dalla legislazione emergenziale,
recuperato eventuale credito orario, e goduto il congedo ordinario maturato
senza intaccare le due settimane di cui il dipendente potrà beneficiare tra il
1° giugno e il 30 settembre- di assegnare il dipendente ad altre attività
anche presso altre strutture, prima di disporre l’esonero.
In buona sostanza, nell’emergenza il legislatore chiede ai dirigenti
pubblici di essere manager, cioè di
mettere in capo tutta la capacità organizzativa necessaria a recuperare, con
interpretazioni non formalistiche, le inefficienze accumulate sul piano della
gestione delle risorse umane (mesi e mesi di ferie arretrate) e della
modernizzazione del comune sul piano digitale, dando finalmente attuazione al
codice dell’amministrazione digitale che non solo consentirebbe una
organizzazione smart ma eviterebbe al
cittadino di doversi recare in ufficio anche solo per un certificato. Non si
tratta di una riforma recente, il CAD esiste dal 2005.
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