lunedì 30 marzo 2020

La dispensa dal servizio del dipendente pubblico nel periodo di emergenza epidemiologica da COVID-19: presupposti, rischi e responsabilità.



di Vito Antonio Bonanno, Segretario Generale del comune di Alcamo


Il probabile prolungarsi dei termini di efficacia delle misure di contrasto alla diffusione dei contagi da coronavirus e le difficoltà, strutturali e culturali, nell’organizzazione del lavoro pubblico in modalità agile, come prevede l’art. 87, comma 1, del decreto-legge 17 marzo 2020, n.18, aumentano l’interesse e i dubbi verso la misura residuale prevista dal legislatore “qualora non sia possibile ricorrere al lavoro agile, anche nella forma semplificata” e risultino utilizzate tutte le ferie pregresse, i congedi, la banca delle ore, la rotazione e gli altri istituti contrattali: in tal caso, l’amministrazione pubblica può “motivatamente esentare il personale dipendente dal servizio”.

Fermo restando che la decisione costituisce un tipico atto di gestione del rapporto di lavoro e, quindi, rientra nella competenza datoriale che appartiene al dirigente ai sensi dell’art. 107 Tuel, il quale la esercita con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro ai sensi dell’art. 89, comma 6, del medesimo testo normativo, sono stati sollevati alcuni dubbi applicativi sia sul contenuto della motivazione, sia anche su eventuali profili di responsabilità in capo al dirigente che dispone l’esenzione, alla luce della previsione normativa a mente della quale “il periodo di esenzione dal servizio costituisce servizio prestato a tutti gli effetti di legge e l’amministrazione non corrisponde l’indennità sostitutiva di mensa”.
Per inquadrare le questioni qui sunteggiate ed in particolare quella afferente la sussistenza dei presupposti della fattispecie di responsabilità amministrativo-contabile per l’esborso della retribuzione ai dipendenti esentati dall’obbligo di prestare l’attività lavorativa, occorre inquadrare il particolare contesto normativo in cui ci troviamo ad operare e la disciplina civilistica della sospensione della prestazione lavorativa per cause di forza maggiore.
L’analisi deve prendere le mosse dal decreto-legge 23.2.2020, n. 6, convertito dalla legge n. 13/2020, oggi abrogato dall’art.5, comma 1, lett. a), del decreto-legge 25.3.2020, n. 19, che ha riscritto il catalogo delle misure che l’autorità amministrativa può applicare per contrastare la diffusione dei contagi rendendole tassative, il cui art. 1, inter alios, alla lett. k) prevedeva la possibilità di disporre con decreto del Presidente dei Consiglio dei Ministri “la chiusura o limitazione dell’attività degli uffici pubblici”. A fronte di tale previsione, l’art. 19, comma 3, del decreto-legge 2.3.2020, n.9, tuttora vigente, dispone che “i periodi di assenza dal servizio dei dipendenti delle amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, imposti dai provvedimenti di contenimento del fenomeno epidemiologico da COVID-19 , adottati ai sensi dell’art. 3, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio 2020, n.6, costituiscono servizio prestato a tutti gli effetti di legge”.
Nonostante autorevoli opinioni contrarie, si ritiene che tale disposizione sia tuttora vigente e non risulti abrogata, nemmeno per continenza, dal comma 3 dell’art. 87 del decreto legge n. 18/2020, in quanto la prima disposizione ha un raggio applicativo differente dalla più recente previsione normativa. Quella norma, infatti, fuori dai casi in cui l’assenza del dipendente era legata allo stato di malattia o di quarantena con sorveglianza attiva a domicilio, equiparato al ricovero ospedaliero dal comma 1 del citato art. 19, mirava a non imputare al lavoratore l’assenza dal luogo di lavoro – da cui, come vedremo, discende la sospensione dell’erogazione della retribuzione - allorquando risulta conseguente ai provvedimenti emessi ai sensi dell’art. 3, comma 1, del d.l. 6/2020 per contenere la diffusione dei contagi. La norma mira a tutelare tutti coloro che prestano servizio in uffici pubblici la cui attività risulta sospesa dai Dpcm (servizi educativi dell’infanzia, scuole, università, musei, biblioteche e altri luoghi della cultura) e la cui prestazione lavorativa è, dunque, inesigibile non per impedimento soggettivo del lavoratore né per volontà del datore di lavoro; ha affermato convincentemente la Corte dei Conti, nella memoria trasmessa al Senato il 10 marzo 2020 sul disegno di legge di conversione del decreto-legge 9/2020 (AS 1746), che la norma in esame “interviene per acclarare che laddove le autorità dovessero adottare provvedimenti di chiusura degli uffici, le assenze dovranno essere considerate come servizio effettivamente reso”; si tratta, dunque, di situazioni di assenza dal servizio in conseguenza di provvedimenti autoritativi emessi per arginare la diffusione del contagio virale e che incidono sul rapporto sinallagmatico che caratterizza il lavoro subordinato alle dipendenze di pubbliche amministrazioni. Tuttavia, le Sezioni Riunite della Corte osservano che “l’eventuale dispensa del dipendente dal rendere la propria prestazione andrebbe valutata tenendo conto delle concrete possibilità di avvalersi di modalità alternative di lavoro a distanza”. Ancora più netto il dossier dell’Ufficio Studi del Senato (pubblicato il 6 marzo 2020) il quale, nel sottolineare che la tutela in questione consegue all’adozione dei DPCM e non di atti di altra autorità, afferma che la fattispecie riguarda “casi di impossibilità derivanti dall’adozione di divieti di accesso o di allontanamento ovvero da misure di chiusura di uffici pubblici”. La rapida evoluzione del contagio virale ha comportato, come noto, l’adozione di molteplici provvedimenti sia da parte dell’autorità statale che delle autorità regionali e locali che, per quanto riguarda il tema di indagine, hanno trovato un approdo (sicuramente non definitivo) nell’art. 87 del d.l. 18/2020 e nell’art. 1, lett. s), del d.l. 19/2020. Quest’ultima norma, abrogando la prima misura che prevedeva anche la “chiusura” degli uffici pubblici, dispone che con DPCM può essere disposta “la limitazione della presenza fisica dei dipendenti negli uffici delle amministrazioni pubbliche, fatte comunque salve le attività indifferibili e l’erogazione dei servizi essenziali prioritariamente mediante il ricorso a modalità di lavoro agile”. In buona sostanza, in luogo della generalizzata previsione di poter addivenire anche alla chiusura degli uffici pubblici, il legislatore –pur contemplando la sospensione dell’attività dei musei e degli altri luoghi di cultura oltre che delle attività di istruzione di ogni tipo e di quelle afferenti il servizio giustizia- ha capovolto la prospettiva originaria introducendo la misura della “limitazione della presenza fisica dei dipendenti negli uffici pubblici” da attuare “prioritariamente mediante il ricorso a modalità di lavoro agile”. In sostanza, la logica che sorregge la strategia di tutela della salute dei dipendenti pubblici e di contenimento del contagio è quella di svuotare gli uffici senza interrompere le attività lavorative che debbono ordinariamente essere svolte in modalità agile semplificata, ai sensi dell’art. 87, commi 1 e 2 del d.l. 18/2020, cioè da casa, al netto delle attività indifferibili che richiedono la presenza in ufficio e di quelle connesse alla gestione dell’emergenza (sul punto, sia consentito il rinvio ad un mio precedente scritto in materia di organizzazione del lavoro pubblico a seguito dell’emergenza epidemiologica, pubblicato qui).
Ne discende, pertanto, che la dispensa dal servizio di cui al terzo comma dell’art. 87 del d.l. 18/2020 non consegue a provvedimenti autoritativi dell’autorità statale di chiusura di uffici pubblici o di sospensione di attività svolte in uffici o strutture pubbliche, bensì ad un provvedimento datoriale del dirigente che, a valle del processo di riorganizzazione della struttura di riferimento e applicati tutti gli istituti contrattuali che disciplinano congedi, permessi, recuperi e rotazione, non è in grado di consentire la prestazione dell’attività lavorativa del dipendente in modalità agile semplificata (home working) né le prestazioni ordinariamente disimpegnate dallo stesso  afferiscono ad attività ritenute indifferibili e da prestare obbligatoriamente in ufficio, avuto riguardo anche alle attività di emergenza.
Il provvedimento datoriale deve essere adeguatamente motivato, in coerenza con l’eccezionalità della previsione normativa, dalla cui applicazione non debbono derivare effetti negativi sull’attività che l’amministrazione nel suo complesso è chiamata ad espletare: da qui discende la necessità di interpretare l’istituto della “rotazione” come misura trasversale all’intera organizzazione, da applicare nel solo rispetto del principio di esigibilità della mansioni di cui all’art. 52 del d.lgs. 165/2001 e smi, non potendo il prestatore contestare nemmeno eventuali modifiche al profilo o alle attività in concreto disimpegnate, risultando pienamente esigibili nel pubblico impiego tutte le mansioni ascrivibili alla categoria contrattuale di inquadramento.
L’attività di micro-organizzazione del dirigente, dunque, necessita di una previa analisi di contesto, sia organizzativo che tecnologico, la quale deve essere condivisa con analoghe analisi degli altri dirigenti, e con una necessaria ed ineludibile sintesi dei fabbisogni dell’intero ente che chiama in causa il segretario comunale titolare di funzioni di sovrintendenza e coordinamento dell’attività dei dirigenti.
Inutile negare che tale istruttoria e le correlate decisioni datoriali scontano il ritardo, invero comune alla maggior parte delle pubbliche amministrazioni, nel processo di digitalizzazione. Stando ai dati di Banca d’Italia (memoria presentata al Senato il 25 marzo 2020 nell’ambito dell’esame del ddl 1766 di conversione del decreto legge 18/2020), “secondo l’indicatore DESI della Commissione, il nostro Paese si trova al di sotto della media europea per quanto riguarda la fornitura di servizi pubblici digitali. Nostre elaborazioni dei dati della Rilevazione sulle forze lavoro mostrano che, nel 2019, nella PA meno dell’1 per cento dei lavoratori ha lavorato da casa almeno una volta nel mese di riferimento. I dipendenti pubblici che hanno usato lo smart working sono in media significativamente più giovani e più istruiti (i laureati sono più della metà, contro il 27% tra quelli che non lo hanno usato) e sono occupati in professioni più qualificate, mentre è poco diffuso tra le persone occupate in mansioni di ufficio più operative”.
Tuttavia, occorre sottolineare che il legislatore dell’emergenza mostra di essere consapevole di tale diffuso contesto organizzativo e strutturale, da un lato, semplificando la disciplina dello smart working e le informazioni e comunicazioni da effettuare in caso di sua attivazione, dall’altro, consentendo ai pubblici dipendenti di servizi di strumentazioni informatiche e di rete propri, ed introducendo una norma (art. 75) tesa per il futuro ad accelerare le procedure per l’acquisto degli strumenti informatici a supporto del lavoro agile che si aggiunge ad un’altra (art. 18 del d.l. 9/2020) che autorizza l’aumento del 50% delle quantità massime di forniture di computer portatili e tablet attive presso CONSIP (secondo i dati della Corte dei conti allo stato sono attive 3 convenzioni che scadono a ottobre e novembre prossimi e che riguardano 22.500 portatili e 10.000 tablet; altre 3 gare pubblicate a dicembre 2019 debbono essere ancora aggiudicate: cfr.memoria del 10 marzo 2020 su AS 1746).
Alla luce di quanto fin qui evidenziato, risulta evidente che l’esenzione (o dispensa) dal servizio di cui all’art. 87, comma 3 del d.l. 18/2020 differisce da quella prevista dall’art. 19, comma 3 del d.l. 9/2020, risultando quest’ultima una decisione necessitata dall’adozione da parte dell’Autorità statale di misure di chiusura di uffici pubblici (per quanto, prima di esonerare dal servizio il dipendente addetto all’ufficio chiuso con DPCM, il dirigente debba motivare un possibile impiego dello stesso in altro ufficio ad equivalenza di mansioni nonché disporre il congedo d’ufficio per smaltire eventuali periodi di ferie pregresse); di contro, l’esenzione di cui alla più recente previsione normativa costituisce una decisione datoriale che potrà, comunque, sempre essere riguardata sotto il profilo della coerenza e rispondenza ai principi di efficacia, efficienza ed economicità e, in ultimo, al buon andamento di cui all’art. 97 della Costituzione che, secondo la giurisprudenza ordinaria e contabile, conforma anche l’attività di diritto privato della pubblica amministrazione, essendo i poteri privatistici della pubblica amministrazione comunque funzionalizzati all’attuazione dei richiamati principi di matrice costituzionale. E, nella più recente ricostruzione dell’erario come funzione, la violazione di tali canoni ove accompagnata alla spendita di risorse pubbliche costituisce danno erariale, sub specie di danno da disservizio, che mira a reintegrare il patrimonio pubblico della minore produttività dell’apparato pubblico (si vedano, ex multis, Corte Conti, Lazio, 30.1.2019, n.43). Secondo la norma richiamata, infatti, il dipendente dispensato dal servizio dal dirigente continua a percepire la retribuzione (l’intera retribuzione, ad eccezione dell’indennità sostitutiva della mensa, che per altro nell’ordinamento locale non esiste) pur non prestando l’attività lavorativa.
Superando antiche e consolidate ricostruzioni di impostazione romanistica, dottrina e giurisprudenza riconducono il lavoro subordinato di cui all’art. 2094 c.c. alla categoria dei contratti sinallagmatici, basati sulla reciprocità delle attribuzioni. Come noto, per tale categoria di contratti allorquando per circostanze sopravvenute il programma contrattuale non è più attuabile il legislatore prevede il rimedio della risoluzione (1453 c.c.) che elimina gli effetti del contratto in funzione di riequilibrio della posizione economico-patrimoniale dei dipendenti.
Tuttavia, va precisato che il contratto di lavoro subordinato, che è un contratto di durata e si connota per la particolare valenza costituzionale dell’oggetto contrattuale, i rimedi applicabili nelle ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione si conformano in modo del tutto particolare. Ogni impedimento all’attuazione del programma negoziale imputabile al lavoratore, di regola, è di natura temporanea e, pertanto, dovrebbe sospendere ma non estinguere le prestazioni; tuttavia, come esprime efficacemente il brocardo latino operae preteritae sunt peritae, il trascorrere del giorno rende impossibile recuperare tardivamente quella parte di prestazione che si sarebbe dovuta eseguire, generando dunque gli effetti della impossibilità assoluta; nel lavoro subordinato, cioè, l’assenza della prestazione determina la definitiva perdita di quella parte di essa che è rimasta ineseguita e che è irrecuperabile.
In disparte gli approdi della dottrina sui rimedi applicabili nell’ipotesi di inadempimento che comunque escludono la risoluzione del rapporto sulla base dell’art. 1256, comma 2  c.c. (l’inadempimento sarebbe parziale ratione temporis, nel senso che risultano impossibili alcune prestazioni ma lo saranno quelle future), ciò che rileva è il fatto che –esclusi i casi di tutela del lavoratore ( malattia, ferie, permessi, ecc…) espressamente previsti dalla legge e dai Ccnl- allorquando la prestazione lavorativa è impossibile e, quindi, viene sospesa per causa di forza maggiore viene anche sospeso l’obbligo del datore di lavoro di corrispondere la retribuzione. La giurisprudenza, sul punto, afferma in modo costante il seguente principio di diritto: “in base agli artt. 1218 e 1256 c.c., la sospensione unilaterale del rapporto da parte del datore di lavoro è giustificata, ed esonera il medesimo datore dall'obbligazione retributiva, soltanto quando non sia imputabile a fatto dello stesso, non sia prevedibile ed evitabile e non sia riferibile a carenze di programmazione o di organizzazione aziendale ovvero a contingenti difficoltà di mercato. La legittimità della sospensione va verificata in riferimento all'allegata situazione di temporanea impossibilità della prestazione lavorativa: solo ricorrendo il duplice profilo dell'impossibilità della prestazione lavorativa svolta dal lavoratore e dell'impossibilità di ogni altra prestazione lavorativa ( Cass. sez. lav. 27.5.2019, n. 14419).
Nella situazione data, dunque, la previsione normativa di cui all’art. 19, comma 3 del d.l. 9/2020 costituisce una opportuna deroga al principio della non erogabilità di alcuna retribuzione in pendenza della sospensione della prestazione lavorativa non imputabile in quel caso a fatto del datore di lavoro pubblico ma ad un provvedimento autoritativo adottato dall’Autorità statale per ragioni di tutela della salute pubblica; in assenza della previsione di legge, ai lavoratori esonerati per effetto della chiusura di uffici pubblici quale misura di contrasto al contagio virale in atto non sarebbe spettata la retribuzione, né la possibilità di accedere ad altri strumenti di tutela previsti solo per il lavoro privato, come la cassa integrazione in deroga.
Orbene, nell’ipotesi di cui all’art. 87 del d.l. 18/2020, allo scrivente non pare che la dispensa dal servizio, con pagamento della intera retribuzione, costituisca una ipotesi pianamente assimilabile alla precedente. Qui, infatti, l’esenzione non costituisce un automatico effetto delle misure di contenimento del rischio da contagio adottate dall’autorità statale, quanto piuttosto una scelta motivata del datore di lavoro pubblico; in quanto tale essa –in base ai richiamati principi giurisprudenziali- potrebbe esonerare dall’obbligazione di pagamento della retribuzione il datore di lavoro pubblico (e qui trovare la propria ratio derogatoria la norma emergenziale) solo in quanto egli sia in grado di provare –dandone conto nella motivazione del provvedimento di esonero- che l’impossibilità di far lavorare il dipendente non deriva da carenze nell’organizzazione e nella programmazione aziendale e che non risulta possibile nessun’altra prestazione lavorativa. E’ affermazione generale, infatti, “che quando il prestatore non adempia all'obbligazione principale della prestazione lavorativa non per colpa del datore di lavoro, a questi non può essere fatto carico dell'adempimento dell'obbligazione di corresponsione della retribuzione, così come per ogni caso di assenza ingiustificata (o non validamente giustificata) dal lavoro” ( Cass. sez. lav. 18.4.2019, n. 10853); e, quindi, se il datore è in colpa la retribuzione è dovuta.
Ne consegue, pertanto, che se non trova applicazione l’art. 87, comma 3, del d.l. 18/2020 in quanto l’esenzione non è pienamente coerente col paradigma normativo e riconducibile ad un fatto non imputabile al dirigente, il pagamento della retribuzione in assenza di controprestazione da parte del lavoratore costituisce un ingiustificato esborso di danaro rilevante sia sul piano disciplinare, che dirigenziale sia anche sul piano della responsabilità amministrativo contabile. In buona sostanza, il dirigente dovrà in primo luogo organizzare, pur con le semplificazioni introdotte dalla norma emergenziale, una scrivania virtuale o, più precisamente, una scrivania nel domicilio del dipendente, con un correlato meccanismo semplificato di assegnazione di obiettivi e di monitoraggio periodico degli stessi (coerentemente all’opportunità, aperta dalla generalizzata sospensione dei termini dei vari procedimenti amministrativi e tributari, di recuperare l’arretrato: pare utile sottolineare che il rispetto dei termini dei procedimenti costituisce uno degli obiettivi delle politiche di prevenzione della corruzione), prima di valutare –esaurite le ferie pregresse, goduti eventuali permessi o aspettative anche introdotti dalla legislazione emergenziale, recuperato eventuale credito orario, e goduto il congedo ordinario maturato senza intaccare le due settimane di cui il dipendente potrà beneficiare tra il 1° giugno e il 30 settembre- di assegnare il dipendente ad altre attività anche presso altre strutture, prima di disporre l’esonero.
In buona sostanza, nell’emergenza il legislatore chiede ai dirigenti pubblici di essere manager, cioè di mettere in capo tutta la capacità organizzativa necessaria a recuperare, con interpretazioni non formalistiche, le inefficienze accumulate sul piano della gestione delle risorse umane (mesi e mesi di ferie arretrate) e della modernizzazione del comune sul piano digitale, dando finalmente attuazione al codice dell’amministrazione digitale che non solo consentirebbe una organizzazione smart ma eviterebbe al cittadino di doversi recare in ufficio anche solo per un certificato. Non si tratta di una riforma recente, il CAD esiste dal 2005.

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