domenica 26 aprile 2020

Caravaggio: di pennello, cappa e spada


Un delitto a Milano?
Nella sua biografia tratta da “Le Vite de' pittori, scultori et architetti moderni”, Giovan Pietro Bellori cita una brevissima notizia, secondo la quale Caravaggio sarebbe fuggito da Milano, non si capisce per quale concreto motivo. Scrive il Bellori: “essendo egli d’ingegno torbido e contenzioso, per alcune discordie fuggitosene da Milano giunse in Venezia”.
Le Vite di Bellori sono pubblicate in prima edizione nel 1672; sono passati 62 anni dalla morte di Caravaggio. Le fonti sono già piuttosto frammentarie e delle “discordie” di cui parla non può dirsi molto di più.

Giulio Mancini, nel suo volume “Considerazioni sulla pittura”, la cui prima edizione è tra il 1617-1619, è un biografo contemporaneo del Merisi, conservato nella biblioteca Marciana di Venezia ha trascritto di suo pugno appunti (da Caravaggio, vita sacra e profana, di Andrew Graham-Dixon, pag. 63) di questo tenore: “Fecer delitto. Puttana scherro e gentilhuomo. Volevan sapere che i compagni… Fu prigion un anno e lo volse veder vender il suo. In prigion non confessa vien a Roma né volse…”.
Parole non chiarissime e comunque non riportate nella versione “ufficiale” della biografia. Che alimentano, tuttavia, la possibilità che Caravaggio sia fuggito da Milano, ove stava muovendo i suoi primi passi da pittore, per qualche fatto spiacevolmente connesso alla commissione di qualche delitto: un probabile primo incontro tra il pittore e il diritto, soprattutto penale.
La prima rissa? La testimonianza del garzone di barbiere.
Il 9 luglio del 1597 un garzone di barbiere, tale Pietro Paolo, viene ferito a seguito di un’aggressione o di un vero e proprio duello, avvenuto in via della Scrofa: esattamente in Campo Marzio, la zona nella quale ha sempre vissuto e lavorato Caravaggio a Roma.
Informata dei fatti, la polizia pontificia chiede al Pietro Paolo di rivelare l’identità dell’aggressore. Ma, il garzone si rfiuta. Così viene arrestato.
Tra l’11 e il 12 luglio il tribunale del governatore di Roma interroga, allora, il suo datore di lavoro, il barbiere Luca, e il garzone stesso, per farlo uscire dalla sua reticenza.
Il tutto gira attorno ad un mantello nero, un “ferraiuolo” che qualcuno aveva lasciato nella bottega del barbiere, consegnandolo appunto a Pietro Paolo. Quel “qualcuno” era un “pittore”. Ma, chi? Luca, il barbiere, rispondendo alle domande degli inquirenti ricorda che Pietro Paolo gli consegnò il mantello, dicendogli appunto che a portarlo era stato quel tal pittore; ma, Luca afferma di non ricordare il nome che gli aveva riferito Pietro Paolo. Quando gli inquirenti chiedono a Luca se comunque conoscesse l’artista, risponde: “è venuto una volta ad acconciarsi alla bottegha mia, et un’altra volta si venne a medicare una forchatura”, cioè una ferita a forma di ferro di cavallo, dovuta ad una lite con un palafreniere a servizio di “Giustiniano, o Pinello”.
Abbiamo una prima conferma che Caravaggio non le mandasse certamente a dire: si recava dal barbiere, che all’epoca era anche “chirurgo”, per farsi curare ferite dovute a risse ed alterchi. Questo, evidentemente, la polizia lo sapeva. E cerca per tale ragione di farsi confermare che fosse stato proprio Caravaggio a ferire Pietro paolo.
All’incalzare delle domande, Luca il barbiere, pur confermando di non ricordare il nome del pittore, si produce in una sua descrizione che appare l’esatta fotografia proprio di Caravaggio: “Questo pittore è un giovanaccio grande di vinti o vinticinque anni con poco di barba negra, grassotto con ciglia grosse et occhio negro, che va vestito di negro non troppo bene in ordine, che portava un paro di calzette negre un poco stracciate, che porta li capelli grandi, longhi dinanzi”.
Segue la testimonianza di Costantino Spata, venditore di quadri, molto importante per la vita di Caravaggio, perché proprio lui espose alcune delle pere del pittore.
Lo Spata viene invitato a riferire di quanto era accaduto due giorni prima, la sera della rissa. E racconta che proprio mentre stava per chiudere bottega, aveva visto passare dalle sue parti (molto vicino a S. Luigi dei Francesi, forse appunto in via della Scrofa), due pittori di sua conoscenza: “uno e m.(esser) Michelangelo da Caravaggio che è pittore del Card.le del Monte et habita in casa de detto Cardinale, et un altro pure pittore chiamato Prospero [si tratta di Prospero Orsi, amico e compagno di scorribande di Caravaggio] …quali me dissero se io avevo cenato, et io resposi de sì, ma loro dicevano non havere cenato et volere andare a cena all’hostaria della Lupa, dove andessemo tutti e tre in compagnia, et io me fermai lì con loro mentre cenorno”. Poi, il racconto scagiona Caravaggio. Lo Spata rammenta cosa avviene finita la cena, usciti dall’osteria “mentre venevamo così assieme sentessimo venire uno dalla piazza del San Luigi per la strada verso di noi gridando dicendo ahi, ahi”.
Il racconto si chiude con un altro particolare: subito dopo l’avvenuto lo Spata si diresse verso casa e sulla strada incrociò qualcuno vestito di nero che correva e non poteva descrivere.
Il processo prosegue con la testimonianza di Prospero Orsi, che conferma la versione di Spata, aggiungendo che mentre con Caravaggio si stavano recando in direzione del Pantheon, videro per terra appunto il mantello nero, aggiungendo che il Merisi lo raccolse per portarlo al garzone Pietro Paolo.
I poliziotti non sono convinti. Perché mai Caravaggio ha portato il mantello a Pietro Paolo? Sapeva che era del garzone? E chiedono a Orsi se qualcuno tra lui, Spata e Caravaggio quella sera portasse una spada. Orsi risponde che lui e Spata ne erano privi, ma di Caravaggio dice: “è solito portar la spada ch’è servitore del Card.le del Monte, et gli ho vista portare assai volte. Anzi prima la portava di giorno et adesso non la porta se non quando va qualche volta fuori la notte”.
Apprendiamo che il Merisi era abituato a portare con sé la spada. Ma, per farlo occorreva una licenza, un porto d’armi. Del quale, come si vedrà di seguito, Caravaggio era privo. Tuttavia, si sentiva egualmente autorizzato a portare la spada, grazie alla sua conoscenza diretta del Cardinal del Monte, del quale si sentiva protetto, come in effetti era.
Il diritto, anche penale, all’epoca non era uguale per tutti. Una protezione giusta poteva fermare inchieste e tribunali: anche perché all’epoca non c’era separazione dei poteri.
Sta di fatto che sebbene fosse fortissimo il sospetto che a ferire Pietro Paolo, nella rissa, fosse stato proprio Caravaggio, le coperture degli amici e soprattutto del Cardinal del Monte, quell’indagine e quel processo finirono con un nulla di fatto.
Con la spada, senza licenza.
L’abitudine di Caravaggio di portare la spada, senza autorizzazione gli costò un’altra disavventura giudiziaria, ancora una volta finita bene.
Il 4 maggio 1598 viene colto, tra piazza Navona e piazza Madama da un tenente del bargello (la polizia giudiziaria) in possesso appunto della spada, in luogo pubblico, senza la licentia. L’ufficiale, un certo Bartolomeo, riferisce: “incontrai Michelangelo da Caravaggio che portava la spada senza la licentia, et un paro de compassi, et così lo presi et menai prigione in Tor di Nona”. Non sarà l’ultima volta che Caravaggio conoscerà direttamente le celle di quel carcere. Interrogato l’indomani, il Merisi afferma: “io fui preso hier sera circa dui hore de notte tra piazza Madama, et piazza Navona perché portavo la spada quale porto per esser Pictore [nel verbale è scritto in maiuscolo] del Cardinale del Monte che io ho la parte del Cardinale per me et per il servitore et halloggio in casa. Io so scritto al rolo”. Una dichiarazione degna del Marchese del Grillo… Ancora una volta, Caravaggio si fa scudo del protettore, il Cardinal del Monte, per giustificare il porto d’armi, pur privo di licenza.
Lite con un mercenario
Non è precisata la data di un altro duello alla spada con un soldato mercenario, nel quale Caravaggio prevale; il soldato, Flavio Canonico, viene ferito alla mano, a dimostrazione della notevole abilità di schermidore del pittore lombardo.
Il racconto è di Sandro Corradini nel suo volume “Caravaggio, materiali per un processo”, Alma Roma 1993, documento n. 21.
Anche in questo caso il governatore di Roma non emette una condanna al carcere per Caravaggio, che nonostante avesse inferto una cicatrice permanente al Canonico, se la cavò con un “accordo di conciliazione”: Caravaggio pagò una somma in denaro e così venne ordinata la cassazione e l’annullamento del procedimento penale contro il pittore, con l’ordine a suo carico di non molestare mai più il Canonico.
Come si nota, all’epoca, per lesioni grave e dolose, era possibile cavarsela con un risarcimento dei danni. Ovviamente, sempre a due condizioni: di avere una forte protezione e di disporre di risorse di denaro anche ingenti.
Caravaggio poteva contare sempre sulla protezione del Cardinal del Monte e, anche, del banchiere Vincenzo Giustiniani. Inoltre, ormai nel 1600 il pittore era già affermato e poteva certamente godere di un non piccolo patrimonio, che certamente non investiva in vestiario, né in lussi, ma nelle osterie, tra le prostitute e per risarcire i danni delle sue bravate. Non è da escludere che spendesse soldi per scommesse.
Caravaggio giocava alla pallacorda e non è difficile immaginare che non lo facesse solo per sport, ma appunto per lucrare sulle scommesse.
Karel van Mander nella sua biografia del 1604 (“Het Schilderboek”): così lo descrisse: “C'è un tale Michelangelo da Caravaggio che a Roma fa cose notevoli [...] costui s'è conquistato con le sue opere fama, onore e rinomanza. [...] egli è uno che non tiene in gran conto le opere di alcun maestro, senza d'altronde lodare apertamente le proprie. [...] Ora egli è un misto di grano e di pula; infatti non si consacra di continuo allo studio, ma quando ha lavorato un paio di settimane, se ne va a spasso per un mese o due con lo spadone al fianco e un servo di dietro, e gira da un gioco di palla all'altro, molto incline a duellare e a far baruffe, cosicché è raro che lo si possa frequentare”.
Pallacorda e duelli: gli costeranno la fuga da Roma per l’omicidio di Ranuccio Tomassoni.
Rissa con Ranuccio Tomassoni
Ben prima dell’omicidio del Tomassoni, avvenuto nel 1606, Caravaggio ebbe modo di confrontarsi con lui e la sua banda a colpi di cappa e spada.
Verso la fine di ottobre, gli atti dei tribunali riportano un interrogatorio di Onorio Longhi, un architetto e sonettista, facente parte della combriccola di Caravaggio e, forse, il più spericolato e rissoso tra tutti.
L’occasione per menare le mani e fendenti di spada fu un alterco, conseguente a pesanti insulti gridati dalla combriccola rivale del Caravaggio, guidata proprio da Ranuccio Tomassoni.
Ovviamente, il gruppo “caravaggesco” non si fece pregare e reagì, come al solito, in maniera violenta. Racconta il Longhi: “ci attaccammo a pugni, et fummo partiti, et io me ne andai per il fatto mio, perché dopo li pugni costui prese li sassi per tirare, ma non tirò perché fummo partiti”.
Ma, l’inquirente voleva arrivare a Caravaggio, ormai noto per le sue intemperanze e probabilmente poco “simpatico” a poliziotti e giudici per le sue protezioni in alto loco. E nel corso dell’interrogatorio chiede al Longhi chi altri fosse presente alla rissa. Longhi risponde: “con lui, cioè quello che fece a pugni con me, era un certo Marco Tullio pittore, et meco m. Michelangelo Merisio pittore, il quale partì” (cioè si allontanò).
Come si nota le “bande armate” erano composte da veri e propri “bravi”, come il Tomassoni, o da artisti. La rivalità tra artisti a Roma era fortissima: la città era in grande fermento, cantieri aperti erano ovunque, la corte cardinalizia puntava al mecenatismo, ma occorreva spingere molto per ottenere le commesse più prestigiose e remunerate.
L’inquirente prosegue e chiede al Longhi se Caravaggio, già preso in castagna in precedenza, fosse armato. Ecco quanto racconta l’architetto Longhi: “Allhora detto m. Michelangelo era convalescente, et però si faceva portare la spada da un suo putto, il quale putto era con esso lui con la spada quando successe la detta rissa, ma detto messer Michelangelo non la cacciò mai dal fodero”.
Il giudice, però, sapeva che nel corso della rissa avevano riluccicato le lame. E insiste nel chiedere al Longhi chi abbia preso mano alle spade. Longhi risponde: “Nel partire che fece detto m. Michelangelo quel tale mio adversario retirò il fodero della spada a sé, et non so poi che se ne facesse o se lo buttasse contra di me o no”. Una cosa un po’ poco credibile: il pittore che aveva aggredito Longhi a pugni avrebbe tirato fuori la spada dal fodero, per non usarla, la lanciare il fodero contro gli avversari. Infatti il giudice dimostra di non credere a nulla e chiede perché appunto il fodero fosse stato tirato e, soprattutto, se Caravaggio avesse a sua volta sfoderato l’arma. Longhi è un po’ evasivo, ma difende l’amico: “questo io non lo so, perché appena detto m. Michelangelo se poteva reggere in più per la malatia, ma quando si vedde la spada senza fodero, andò per li fatti suoi”.
Insomma, Merisi ancora una volta non viene condannato, ben coperto dall’amico. Il cui racconto ci parla di un Caravaggio malato e convalescente, non in forze per poter sostenere una rissa con la spada, dalla quale, tuttavia, comunque non si separa, tanto da farla portare da un “putto”, un garzone.
L’interrogatorio termina con altre domande rivolte al Longhi circa alterchi o risse con Ranuccio Tomassoni. Il Longhi taglia corto dicendo che il Tomassoni era un amico. Ma, è evidente che le cose stavano in modo assai diverso. L’inquirente aveva cercato invano di ottenere le prove di una feroce rivalità tra bande, per poter eventualmente arrestare qualcuno dei componenti.
Le regole di un “codice d’onore” tutto particolare, però, volevano che i conti tra i rivali si regolassero non ricorrendo alla giustizia dello stato, ma con i pugni o la spada.
Aggressione con bastone e spada.
Il 19 novembre del 1600 un tale Girolamo Spampa o Stampa, studente d’arte a Roma per formarsi sulle splendide opere ivi conservate, querela il Caravaggio per averlo aggredito a bastonate e con la spada.
Il motivo non è chiaro. Ma, è molto probabile che possa derivare da qualche giudizio negativo espresso troppo apertamente dallo studente nei confronti delle opere di Caravaggio. Quali? Siamo alla fine del 1600: non può trattarsi che dei laterali della Cappella Contarelli a S. Luigi dei Francesi, le prime opere pubbliche del pittore lombardo.
L’affissione alle pareti della cappella della Vocazione di S. Matteo e del Martirio di S. Matteo furono immediatamente percepite come rivoluzionarie, una rottura chiara e forte col manierismo e i dettami dell’accademia.
Tanto che un ascoltato accademico della pittura, come Federico Zuccari, stimato pittore a Roma, principe dell’Accademia di S. Luca, si espresse con critiche pubbliche ed esplicite nei confronti dei laterali della Contarelli: “che rumore è questo? Io non ci vedo altro che il pensiero di Giorgione”. Lo Zuccari, in realtà De Zucharellis, nella sostanza espresse il suo giudizio affermando che in fondo Caravaggio non aveva inventato nulla di nuovo, limitandosi a reinterpretare la pittura “alla veneta”, tonale e senza disegno preparatorio, accentuando gli scuri, come si riscontra in effetti in alcune opere di Giorgione. Un giudizio, dunque, dispregiativo.
Se qualcosa faceva andare davvero su tutte le furie Caravaggio (e non ci voleva molto) era ricevere critiche da lui ritenute infondate alla propria arte, come dimostrerà nel processo per diffamazione intentatogli dal rivale e biografo Giovanni Baglione.
Chissà che il giovane studente Girolamo Spampa o Stampa, ovviamente ligio ai dettami dell’accademia, non abbia espresso esplicitamente giudizi negativi sulle opere della Contarelli, in presenza di chi abbia poi riferito al Caravaggio o, peggio, al suo stesso cospetto.
Il racconto dello studente, rilevabile dai verbali è quello di un vero e proprio agguato premeditato: “dovete sapere come venerdì a sera prossima passata alle tre hore di notte venendo dall’Accademia da studiare, quando fui alla Scrofa e ci era meco il Signor Horatio Bianchi, mentre bussava dal candelottaro per avere candele venne il querelato e con un bastone e’ mi cominciiò a dare delle bastonate e me ne dette parecchie. Io mi difesi come potevo gridando: . Vennero certi macellai con lumi et allora Michelangelo trasse la spada e mi tirò una stoccata che mi parai col ferraiolo, in cui fece uno squarcio come potete vedere, e poi se ne fuggì. Allora lo conobbi, mentre prima non aveva potuto conoscerlo”. (Tratto da Caravaggio, vita sacra e profana, cit. pag. 200).
Anche in questo caso, pare che Caravaggio se fosse cavata con poco. Il procedimento penale, infatti, non ebbe seguito, non si sa se ancora una volta per un intervento diretto o indiretto del Cardinal del Monte.
Minacce con spada
Il 2 ottobre 1601 Caravaggio minaccia il pittore Tommaso Salini, detto Mao, della cerchia di Giovanni Baglione. Il Merisi apprezza pochissimo tanto Baglione, quanto Salini, anche perché si tratta di rivali capaci di sottrargli lucrose commissioni.
L’alterco tra i due avvenne in via della Scrofa, questa la testimonianza del servo di Baglione, che quel giorno accompagnava il Salini: “quando ce furno avicinati veddi che de dietro il detto Michel Agnelo tirò un colpo con la spada verso la testa del detto Tomasso quale revoltatose lo reparò con un braccio, et il detto Michel Agnelo tiratose in dietro et messo mano alla spada tirò molti altri colpi verso detto Thomasso quale se defese con la spada che haveva, et sentii anche che detto Michel Agnelo li disse “becco fottuto” o “becco cornuto” che non intesi bene”.
Le coperture in alto loco del Caravaggio evitarono il carcere.
Ancora con la spada senza licenza.
L’11 ottobre del 1601 Caravaggio è ancora una volta colto con l’arma in pubblico. Viene sorpreso nel Campo Marzio da un poliziotto, che gli chiede la licenza, che il pittore non ha e non può esibire.
Questa volta, però, il Merisi finisce nelle prigioni di Tor di Nona.
Si legge nel verbale redatto dal “birro” che Caravaggio ancora una volta si giustificava asserendo di essere al servizio del Cardinal del Monte, ma “perché lui non aveva licentia, et io non sapevo se fosse vero lo mandai prigione a Tor di Nona”.
Caravaggio, quindi, conosce direttamente la carcerazione e resta per qualche giorno, ma presto viene rilasciato, sempre grazie al Cardinale che lo protegge.
E’ evidente, ormai, che il pittore è sotto stretta osservazione. Le sue intemperanze sono conosciute e piacciono sempre meno tra la polizia, che non si fa scrupolo di mandarlo in carcere, facendo finta di non sapere ciò che ormai era noto: Caravaggio era un pittore celeberrimo ed era perfettamente notoria la protezione del Cardinal del Monte.
La querela di Baglione
Passano due anni nel corso dei quali non risultano guai giudiziari a carico del Caravaggio, che però tra la primavera e l’estate del 1603 si inguaia molto.
La scintilla scatta ancora una volta per una rivalità acerrima tra pittori. In particolare tra Caravaggio e la sua cerchia e Giovanni Baglione, pittore di una certa notorietà a Roma, appartenente alla scuola classica ed “accademica”.
Tuttavia, il Baglione, nonostante la sua provenienza manierista classicheggiante era attento al mercato e alle mode. Per tale ragione, constatando il successo ottenuto dal nuovo modo di dipingere del Caravaggio, iniziò a dipingere alla sua maniera. Pur essendo un rivale acerrimo del Merisi (rivalità che non riuscirà a nascondere nella biografia del lombardo che scriverà anni più tardi ne “Le vite de' pittori, scultori et architetti dal pontificato di Gregorio XIII del 1572 in fino a' tempi di Papa Urbano Ottavo nel 1642”), dunque, Baglione è il primo o tra i primi “caravaggeschi”.
Il che non fece per nulla piacere al Caravaggio, che evidentemente si sentì leso nella sua primigenitura dello stile in chiaroscuro così realistico ed innovativo dal tentativo di imitazione, per di più perpetrato da un pittore accademico.
Accadde che nel 1603 il marchese Vincenzo Giustiniani, importante banchiere e altro mecenate e protettore del Caravaggio (che per un lasso di tempo, lasciato palazzo Madama ove aveva avuto alloggio dal Cardinal del Monte, andò a vivere alloggiato poco lontano, a Palazzo Giustiniani) mise in gara i due pittori, Baglione e Caravaggio. La sfida consisteva nella pittura di una tela avente ispirata al verso di Virgilio amor vincit omnia.


Caravaggio, amor vincit omnia, 1602-1603, olio su tela Gemäldegalerie, Staatliche Museen, Berlino

Giovanni Baglione, Amor sacro e Amor profano", 1602, Olio su tela, Gemäldegalerie, Staatliche Museen, Berlino

Per quanto il quadro del Baglione sia ancora per molti versi classicheggiante nella posa dell’angelo e nei contorni del suo volto, lo stile è con ogni evidenza caravaggesco.
Quello che da Caravaggio è stato sicuramente vissuto come un “oltraggio” è l’esito della disfida: il marchese Giustiniani aggiudicò la vittoria al Baglione, dandogli in premio una collana d’oro. Se il Baglione potè appenderla al collo, Caravaggio se lo legò al dito.
L’occasione per lavare l’onta giunse presto, la Pasqua del 1603, quando venne appesa una Risurrezione del Baglione alla chiesa del Gesù a Roma.
L’opera è andata perduta, ma in ogni caso non piacque per nulla al Caravaggio ed alla sua cerchia e pare non ebbe particolare apprezzamento in generale.
Il limitato successo dell’opera del Baglione scatenò Caravaggio e gli amici, che si lanciarono in un pesantissimo scherno, producendo due sonetti molto volgari ed ingiuriosi contro il Baglione, presto diffusi in tutta Roma (si vedano i sonetti dagli atti dell’archivio di Stato).
Il 28 agosto 1603 Giovanni Baglione rompe gli indugi e querela Caravaggio, Onorio Longhi, Orazio Gentileschi e Filippo Trisegni, quali autori e diffusori dei sonetti diffamatori.
La diffamazione era un reato, all’epoca, ancor più grave e più gravemente sanzionato di quanto non lo sia oggi e poteva pregiudicare molto la vita dei condannati.
Particolarmente interessanti sono gli atti che riportano l’interrogatorio con Caravaggio, per l’ennesima volta alla sbarra: “Di fronte all’illustre ed eccellente Alfonso Tomassino sostituto inquirente e al sottoscritto ecc. compare di persona sotto giuramento Michelangelo Merisi da Caravaggio […]. Alla domanda su come, in che occasione e per quale causa sia stato incarcerato. Ha risposto: ‘Io fui preso l’altro giorno in Piazza Navona, ma la causa et occasione perché sia io non la so’. Alla domanda su quale sia la sua occupazione e professione. Ha risposto: ‘L’esercitio mio è di pittore. Alla domanda se abbia conosciuto e conosca altri pittori a Roma e quali. Ha risposto: ‘Io credo di cognoscere quasi tutti li pittori di Roma et cominciando dalli valent’huomini io cognosco Gioseffe, il Caraccio, il Zucchero, il Pomarancio, Prospero, Giovanni Andrea, Giovanni Baglione, Gismondo et Giorgio Todesco, il Tempesta et altri’. Alla domanda se tutti i predetti siano suoi amici e tutti siano (come comunemente si dice) valent’huomini. Ha risposto: ‘Quasi tutti li pittori che io ho nominati di sopra sono miei amici, ma non sono tutti valent’huomini’. Alla domanda su che cosa intenda con la parola valent’huomo. Ha risposto: ‘Quella parola, valent’huomo, appresso di me vuol dire che sappi far bene, cioè sappi far bene dell’arte sua, così un pittore valent’huomo, che sappi depinger bene et imitar bene le cose naturali’. Alla domanda su quali siano suoi amici e quali nemici. Ha risposto: ‘De quelli che ho nominati di sopra non sono miei amici né Gioseffe né Giovanni Baglione, né il Gentileschi né Giorgio Todesco, perché non me parlano, gli altri tutti mi parlano et conversano con me’. Alla domanda su quali dei predetti consideri e reputi (come comunemente si dice) valent’huomini e quali no. Ha risposto: ‘Delli pictori che ho nominati per buoni pittori Gioseffe, il Zuccaro, il Pomarancio, et Annibale Caraccio, et gl’altri non li tengo per valent’huomini’. Alla domanda se sappia se i predetti siano reputati rispettivamente buoni o cattivi da altri pittori come egli li considera e reputa. Ha risposto: ‘Li valent’huomini sono quelli che si intendono della pittura et giudicaranno buoni pittori quelli che ho giudicato io buoni et cattivi; ma quelli che sono cattivi pittori et ignoranti giudicaranno per buoni pittori gl’ignoranti come sono loro’. Alla domanda se sappia di qualcuno o qualche pittore che lodi, consideri e reputi come buon pittore e virtuoso uno dei predetti pittori che egli giudica non buoni. Ha risposto: ‘Io non so che nessun pittore lodi et habbi per buon pittore nessuno de quelli pittori che io non tengho per buoni pittori. M’è ben scordato de dirvi che Antonio Tempesta ancora quello è valent’huomo’. Alla domanda se in particolare sappia se il detto pittore Giovanni Baglione sia stato e sia lodato da qualche altro pittore e da chi. Ha risposto: ‘Io non so niente che ce sia nessun pittore che lodi per buon pittore Giovanni Baglione’. Alla domanda se abbia visto qualche opera del detto Giovanni Baglione e quali. Ha risposto: ‘L'opere di Giovanni Baglione l'ho viste quasi tutte, cioè alla Madonna dell'orto la cappella grande, a San Giovanni Laterano un quadro, et ultimamente al Giesù la resurettione di Christo’. Alla domanda su che cosa egli pensi di detto dipinto della risurrezione, e se sappia se esso sia stato lodato o biasimato da altri pittori. Ha risposto:’ Quella pittura della resurettione lì al Giesù a me non piace perché è goffa e l'ho per la peggio che habbia fatta et detta pittura io non l'ho intesa lodare da nessun pittore et con, quanti pittori io ho parlato a nessuno ha piaciuto’”.
Caravaggio soggiornò per quasi tutto il mese di settembre in prigione, quando il 25 settembre venne messo in libertà sotto la garanzia dell’ambasciatore francese. Probabilmente, ancora una volta l’intervento del Cardinal del Monte fu decisivo: il cardinale che aveva spinto per assegnare a Caravaggio i laterali della cappella Contarelli nella chiesa che a Roma era destinata ai sudditi di Francia, S. Luigi dei Francesi, aveva ottimi rapporti, infatti con la Francia.
Il processo finì con una conciliazione, a seguito di una lettera di scuse profonde di Caravaggio e Orazio Gentileschi a Giovanni Baglione.
I verbali del processo sono molto interessanti perché rivelano la “poetica” pittorica del Caravaggio: il naturalismo, che supera la pittura troppo intellettualistica, ripetitiva ed astratta del manierismo.
Carciofi
Caravaggio, oltre a non essere particolarmente interessato al bel vestiario ed ai lussi (come dimostra l’inventario dei beni della sua abitazione) era anche abituato a mangiare in modo frugale nelle osterie.
Ma, orgoglioso del suo status di egregius in urbe pictor, come definito nel contratto sottoscritto con Tiberio Cerasi per i magnifici laterali della Cappella Cerasi a S. Maria del Popolo, e sentendosi in qualche modo parte della nobiltà che lo proteggeva, si infuocava se nelle osterie o bettole che frequentava qualcuno gli avesse mancato di rispetto.
Il 24 aprile 1604 fece le spese dell’alterigia di Caravaggio Pietro da Fusaccia, cameriere che lavorava nell’Osteria del Moro.
Nel solito verbale di polizia, il racconto del malcapitato: “Circa le 17 hore [che corrispondevano alle 12,30 del nostro orologi] stando detto querelato assieme a doi altri a magnare nell’hosteria del Moro, alla Maddalena, dove io sto per garzone et havendoli portato otto carcioffi cotti cioè quattro ne1 buturo e quattro con olio, detto querelato mi ha dimandato quali erano quelli al buturo et quelli all'olio. Io li ho risposto: che li odorasse, che facilmente haverebbe conosciuto quali erano cotti nel buturo et quelli che erano all'olio. Lui allora è montato in collera e senza dirmi altro ha preso un piatto di terra et me l'ha tirato alla volta del mostaccio, che me ha colto in questa guancia manca dove sono restato un poco ferito. Et poi si è dirizzato et ha dato di mano alla spada di un suo compagno che stava su la tavola con animo forse di darmi con ella, ma io me gli sono levato dinanzi et sono venuto qua all'officio a darne querela”.
Il racconto di un testimone alla gazzarra, tale Pietro Antonio del Madii coglie ancor meglio l’iracondia di Caravaggio: “Era a pranzo all’hostaria del Moro ove da altra banda ci era Michelangelo da Caravaggio pittore. Intesi dimandare da lui se i carcioffi erano all’olio o al burro, essendo tutti in un piatto. Il garzone disse: Non lo so; et ne pigliò uno et se lo mise al naso. Il che havendo hauto a male Michelangelo si levò in piedi in collera et gli disse: ‘Se ben mi pare, becco fottuto, ti credi di servire qualche barone [che nel gergo popolare era il contrario del titolo nobiliare: persona, cioè, che vuol sentirsi nobile, mentre è poco più di uno straccione]. Et prese quel piatto con dentro i carciofori e lo tirò al garzone nel viso. Non vidi Michelangiolo cacciar mano alla spasa contro lo stesso”.
Ancora una volta, il processo finì con un nulla di fatto. La rete di protezione del Caravaggio era tornata a funzionare.
Sassate alla polizia.
Verbali di Polizia documentano l’arresto nel carcere di Tor di Nona, per aver Caravaggio preso a sassate dei poliziotti in via dei Greci.
Caravaggio racconta all’inquirente: “me presero perché dicevano che era stato tirato un sasso, che io lo sentii tirare et volevano che io dicesse che l’haveva tirato et io non lo sapevo”. I verbali dimostrano che ormai tra Caravaggio e la polizia pontificia si è giunti ai ferri corti. Infatti, i “birri” che lo portano a Tor di Nona sono quasi sempre gli stessi, come se gliel’avessero giurata. Caravaggio ce l’ha in particolare col caporale Malanno, da cui viene accusato di essersi rivolto contro le guardie in modo offensivo (cosa, ovviamente, tutt’altro che improbabile): “sempre quando me trova me fa di queste sue insolentie”, negando di avergli detto “che l’havevo in culo né che leccava la lume”.
Ancora in carcere a causa della spada e per insulti ai poliziotti.
Il 18 novembre del 1604 Michelangelo Merisi torna in carcere. Viene colto l’ennesima volta in luogo pubblico armato di spada (e anche pugnale) questa volta con licentia, ma insulta volgarmente gli sbirri. Il poliziotto che lo arrestò racconta: “Alle cinque hore de notte alla chiavica del Bufalo fu fermato dalli miei homini Michelangelo da Caravaggio che portava spada et pugnale, et domandatoli se haveva licenza disse de sì et la mostrò, et così li fu resa et dissi che lo lasciassero andare, et così io dissi: ‘Buona notte Signore’, et lui rispose forte ‘Ti ho in culo’, et così io detti a rieto e non volsi comportare questa cosa, et così lo feci pigliare et dopoi che fu ligato disse: ‘Ho in culo te e quanti par tui si trovano’, et così lo mandai in prigione a Tor di Nona”.
Insomma, che pochi giorni prima Caravaggio non avesse insultato nello stesso modo il caporale Malanno, appare davvero poco probabile. La polizia non vedeva l’ora di cogliere il Merisi in fallo e il metodo più semplice era fermarlo per verificare se avesse l’autorizzazione a portare la spada e provocarlo un po’.
Ancora colto con la spada senza licenza
Non era difficile, in effetti, cogliere il pittore con l’arma senza licenza. La cosa accadde regolarmente il 28 maggio 1605, davanti alla chiesa di S. Ambrogio. Questa volta, Caravaggio non finisce a Tor di Nona, ma nel carcere del governatore.
Ecco la testimonianza del capitano Pino, che l’arrestò: “Questa notte sulle sette hore stando io assieme con mie’ sbirri a far l’aspettativa a Santo Ambrosio al Corso venne uno chiamà Micalangelo quale portava spada et pugnale et fermato et adimandato se haveva licentia di portar le  dette armi mi ha detto di no; lo feci pigliare et menar prigione et nr dò relatione conforme al mio debito acciò sia casticato conforme al giusto”.
Questa la deposizione di Caravaggio: “Io son stato preso nella strada del Corso de rincontro alla chiesa di Santo Ambrosio che poteva essere vicino alle otto hore, che era giorno, et son stato preso perch] haveva spada et pugnale. Io non ho licenza nessuna di portar spada et pugnale in scrittis, eccettuato a bocca il signor governatore di Roma haveva ordinato al barigello et suoi caporali che mi lasciassero stare: altra licenza non ho”.
Aggressione a mano armata al notaio
Il 29 luglio del 1605 Caravaggio è denunciato per il ferimento del notaio Mariano Pasqualone, da lui colpito in piazza Navona.
Una vera e propria aggressione a mano armata, finita col ferimento del “notaio”, ma che poteva avere un epilogo ben più luttuoso e grave.
I fatti. Come visti, il 29 luglio 1605 aggredisce il “notaio” (in realtà, un funzionario del tribunale papale, qualcosa di maggiormente simile ad un cancelliere) Mariano Pasqualone, che, con la sua denuncia contro Caravaggio, ci ha lasciato una testimonianza viva dell’irruenza del pittore, raccontando quanto accadutogli mentre passeggiava a piazza Navona: “ io sono qui all’officio perchè son stato assassinato (cioè, ferito) da Michelangelo da Caravaggio pittore nel modo che dirò a vostra signoria. Il signor Galeazzo et me adesso che può essere un’hora di notte incirca (tra le 20 e le 21, nda) passeggiando in Navona avanti il palazzo del signor imbasciator di Spagna, mi sono sentito dare una botta in testa dalla banda di dietro, che io sono subbito cascato a terra et sono restato ferito in testa, che credo sia stato un colpo di spada che come vostra signoria vede io ho una ferita in testa dalla banna manca, et poi se ne è fuggito via Io non ho visto chi sia stato quello che mi ha ferito, ma io non ho da fare con altri che con detto Michelangelo, perché a queste sere passate havessimo parole sul Corso lui et io per causa d'una donna chiamata Lena che sta in piedi a piazza Navona passato il palazzo ovvero il portone del palazzo del signor Sartorio Teofilo,, che è donna di Michelangelo. E di gratia vostra signoria mi spedischi presto acciò me possa medicare”.
La “Lena che sta in piedi” è con ogni probabilità Maddalena Antognetti, “donna di Michelangelo”, che troviamo ritratta ben due volte nelle vesti della Madonna: la Madonna dei pellegrini o di Loreto e la Madonna dei Palafrenieri o della serpe.


Madonna dei pellegrini, S. Agostino, Roma

Madonna della serpe, Galleria Borghese, Roma

Lena era, dunque, una modella del pittore, col quale intratteneva una relazione e, molto probabilmente, una prostituta. Lena “che sta in piedi” pare proprio riferito alla “professione”, sebbene vi è chi ritenga che l’espressione “che sta in piedi a piazza Navona” possa significare “che abita nella parte bassa di piazza Navona.
Ma, qual era il ruolo di Mariano Pasqualone nel rapporto con Lena e Caravaggio? Giovan Battista Passeri, altro “critico d’arte del ‘600), nella prima edizione della sua opera “Vite de' Pittori, Scultori ed Architetti che hanno lavorato in Roma, morti dal 1641 fino al 1673” pubblicata a Roma nel 1772, nel diffondersi nella biografia del Guercino racconta che il Pasqualone era un corteggiatore di Lena, la quale posò per Caravaggio dietro una retribuzione molto utile, perché la sua famiglia era dignitosa ma povera. Il Pasqualone vedendo che Lena si recava spesso nell’abitazione di Caravaggio, preso dalla gelosia, secondo il Passeri, sarebbe andato dalla madre (la quale nel racconto pare piuttosto restia ad aver a che fare con i “notai”, i funzionari papali) per dirle apertamente di voler rinunciare al corteggiamento e ad ogni progetto con Lena, visto che come madre aveva impedito che ella potesse avere in sposo una persona del suo livello, per preferire invece che fosse la “concubina” di Caravaggio, “pittoraccio” che con le ne fece “quel che gl’è piaciuto”. Il Passeri racconta anche l’episodio dell’aggressione, pur non citando il verbale della denuncia di Pasqualone.
Dato che, tuttavia, la Antognetti tutto appare, dai comunque confusi dati d’archivio, tranne che una figlia di famiglia povera ma onesta ed ella stessa onesta, molto più probabilmente il feroce agguato di Caravaggio al “notaio” potrebbe avere altre spiegazioni. Il Pasqualone avrebbe potuto essere un funzionario chiamato a diffidare il pittore dal frequentare apertamente una prostituta; oppure, magari (come ipotizza Graham-Dixon, Caravaggio, cit, pag. 284), magari egli stesso un cliente di Lena, che non aveva pagato o aveva arrecato qualche torto alla donna, così suscitando le ire del pittore.
L’aggressione al Pasqualone costò molto cara a Caravaggio. Un’aggressione a mano armata, facilmente qualificabile anche come tentato omicidio, per uno come lui, più volte arrestato e comunque preso di mira per i suoi comportamenti violenti e il vezzo di portare armi senza licentia, era molto rischiosa. Questa volta, le protezioni avrebbero potuto non funzionare, anche perché il “bargello”, la polizia di Roma non vedeva l’ora di regolare i conti. Caravaggio, dunque, si diede alla latitanza, fuggendo a Genova, dove grazie alle presentazioni di Costanza Colonna, di Vincenzo Giustiniani e Ottavio Costa ebbe protezione. Per tutto il mese di agosto 1605 si intrattennero trattative tra Caravaggio, i protettori, il tribunale e lo stesso Pasqualone, per evitare al pittore una durissima condanna.
Il 26 agosto 1605, il Merisi era di nuovo a Roma per firmare una sorta di transazione penale col Pasqualone: “Io Michel Angelo Merisio essendo stato incaricato di parole oltraggiato da messer Mariano notaro del Vicario et non avendo di giorno lui voluto portar spada mi risolsi a darli dove io l’incontrassi et capitandomi avanti una sera con un altro accompagnato et conosciutolo benissimo in viso, li diedi, del che me ne rincresce assai, che se l’havessi da fare non lo farìa, et ne li dimando perdono et la pace e tengo che detto messer Mariano con la spada in mano sia huomo da rispondere a me et a qualsivoglia altra persona. Io Michel Angelo Merisi affermo quanto di sopra. Datum 26 augusti 1605” (da Caravaggio, Graham Dixon, cit. pag 286).
Proprio quello stesso giorno, Prudenzia Bruni, che affittava l’appartamento di Caravaggio, poiché non aveva ricevuto il pagamento della pigione nel mese di fuga, chiese il sequestro dei suoi beni e ne fece redigere un prezioso inventario[1].
Sassate contro la casa di Prudenzia Bruni
Al che Caravaggio reagì il successivo 1 settembre 1605, lanciando pietre (deturpatio) contro l’abitazione della Bruni (che oggi si trova nel Vicolo del Divino Amore) e poi suonando per strada stornelli ingiuriosi contro di lei. Seguì, ovviamente, l’ennesima denuncia contro il Merisi.
Feritosi da solo con la spada.
Nell’ottobre 1605 Caravaggio andò a vivere presso l’abitazione, in piazza Colonna, dell’avocato Andrea Ruffetti, appassionato d’arte e di letteratura.
Questa mutazione logistica non produsse nessun cambiamento allo stile di vita “maledetto” del pittore.
Infatti, il 24 ottobre 1605, proprio nella nuova abitazione viene interrogato per fatti nuovamente connessi ad una qualche rissa o aggressione. Caravaggio riceve gli inquirenti ferito e a letto. Questo il verbale: “Io notaio, su mandato … ho visitato Michelangelo Caravaggio pittore giacente a letto in casa del signor Andrea Ruffetti sita presso piazza Colonna, ferito alla gola e all’orecchio sinistro, ferite che a causa dei medicamenti apposti ho potuto vedere minimamente, ma registro qui. Prestato giuramento di dire la verità e da me interrogato riguardo a dove, da chi, per quale motivo e alla presenza di chi è stato ferito, egli ha risposto: ‘Io me so ferito da me con la mia spada che so cascato per queste scale, et non so dove se sia suto ne c’è stato nessuno’. E benchè sia stato più volte da me esortato a dire la verità, ha risposto: ‘Io non posso dire altro’. E da lui non ho potuto ottenere altra risposta”.
Che il pittore potesse essersi ferito da solo non risulta credibile nemmeno oggi, a oltre 400 anni di distanza, figurarsi agli inquirenti, che erano evidentemente al corrente della rissa o del duello. Ma, i duelli erano duramente puniti. I duellanti dovevano mantenere la più totale omertà sui loro scontri. E Caravaggio, che con la giustizia aveva un pessimo rapporto, rimase reticente.
Alla fine, l’omicidio
Una vita condotta così, non poteva che sfociare nell’omicidio, avvenuto il 28 maggio 1606. A cadere sotto i colpi della spada di Caravaggio, in particolare una ferita all’arteria femorale, è il rivale di sempre nel controllo delle strade di Roma, Ranuccio Tomassoni.
La vulgata parla di uno scontro con le spade, a seguito di una partita di pallacorda (una sorta di tennis ante litteram) nel corso della quale scoppiò un violento dissidio.
La documentazione (si veda Graham-Dixon, cit. pagg. 298-306) evidenziano una verità diversa: sullo sterrato nel quale si giocava alla pallacorda (esiste ancora via della Pallacorda nei pressi di via della Scrofa) si dette vita ad un vero e proprio duello, con due combattenti, due secondi, i padrini ed i testimoni. Infatti, l’epilogo non fu solo la morte di Ranuccio Tomassoni: restò ferito anche Caravaggio stesso, alla testa, un militare, Petronio Troppa (della ghenga di Caravaggio).
La sera stessa, Caravaggio fugge da Roma. Sa che questa volta non ci potrà essere alcuna protezione. Infatti viene condannato alla pena capitale. Chiunque, nello Stato Pontificio, può ucciderlo e decapitarlo, per ottenere la taglia.
Rissa a Malta
Nel suo continuo peregrinare dai feudi laziali della famiglia Colonna, a Napoli e poi a Malta, per quasi un anno tra l’estate del 1607 e quella del 1608 Caravaggio ottiene un po’ di pace per se stesso. Ed anche il titolo di Cavaliere “di grazia”, concessogli dal Gran Maestro dell’Ordine di Malta, che si spese moltissimo col Papa Paolo V Borghese, per ottenere la concessione a creare Cavaliere il Merisi.
Il 14 luglio 1608, Caravaggio fu ufficialmente insignito del titolo di Cavaliere di grazia, “fra Michelangelo Merisi” e come tale si firma nel sangue che fiotta dal santo, nel capolavoro San Giovanni Battista, nell’Oratorio della concattedrale di S. Giovanni a La Valletta.
Ma, il carattere turbolento del Merisi prevale ancora una volta.
Solo pochi giorni dopo l’investitura, Caravaggio, probabilmente nell’agosto 1608, partecipa ad una rissa con i Cavalieri dell’Ordine e, in particolare, contro Giovanni Rodomonte Roero, conte della Vezza.
Le rigidissime regole dell’Ordine non ammettevano in alcun modo scontri, risse, duelli tra i cavalieri. Il 6 ottobre, dopo un’inchiesta sull’accaduto, Caravaggio torna nuovamente in carcere, nella “gava”: una tetra cella scavata nella roccia di Castel S. Angelo.
La rete di protezione torna a funzionare. Qualcuno un mese dopo aiuta Caravaggio a fuggire dall’altrimenti inespugnabile prigione, per portarlo sulle coste siciliane, a Siracusa.
Il primo dicembre 1608 si celebrò proprio nell’Oratorio della chiesa di S. Giovanni la cerimonia di spoliazione di Caravaggio, ove venne pronunciata la formula della sua condanna da parte del Wignacourt: “Nell’assemblea pubblica, per mano del reverendo signor presidente, il detto fratello Michael Angelo Marresi del Caravaggio è stato privato dell’abito e allontanato e respinto dal nostro Ordine e dalla nostra società tamquam membrum putridum et foetidum quale membro putrido e fetido”.
L’ultima rissa
Nell’ottobre del 1609 si ha la notizia dell’ultimo scontro, nel quale Caravaggio ha la peggio. Viene aggredito a Napoli, all’uscita dall’osteria del Cerriglio. Forse, da parenti o amici dei Tomassoni, più probabilmente da emissari dei Cavalieri di Malta e in particolare di Giovanni Rodomonte Roero.
Giulio Mancini (Caravaggio nel carteggio familiare di Giulio Mancini, Michele Maccherini, Prospettiva, No. 86 (Aprile 1997), p. 71), in una lettera rivolta al fratello Deifebo, riferisce la notizia: “Michelangelo da Caravaggio si dice che assaltato da 4 in Napoli e temono sia stato sfregiato. Il che se fusse vero sarebbe un peccato e duol[ore] per tutti. Dio faccia che non sia”.
La notizia è confermata nella biografia del Baglione: “Quivi [cioè e a Malta] havendo non so che disparere con un Cavaliere di Giustizia, Michelagnolo gli fece non so che affronto, e però ne fu posto prigione, ma di notte tempo scalò le carceri, e sene fuggì, e arrivato all’Isola di Sicilia operò alcune cose in Palermo; ma per esser perseguitato dal suo nemico, convennegli tornare alla Città di Bapoli; e quivi ultimamente essendo da colui giunto, fu nel viso così fittamente ferito, che per li colpi quasi più non si riconosceva”.







[1] In primis una credenza d’albuccio con tre cantori incorniciata d’ontano con dentro undeci pezzi de vetro, cioè bicchieri, carafe, et fiasche di paglia, un piatto, due saliere, tre cucchiare, un tagliere et una scudella, et sopra detta credenza doi candellieri d’ottone, un altro piatto, due coltelli piccoli et tre vasi de terra. Item una brocca d’acqua. Due scabelli. Item un tavolino roscio con due tiratori. Item un paro de banchetti da letto Un quatro. Item un forzieretto coperto de corame negro con dentro un par de calzoni et un giuppone stracciati Una quitara, una violina Un pugnale, un paro de pendenti, un centurino vecchio et un battente di porta Item un tavolino un poco grande Item due sedie de paglia vecchie et una scopettina Item due spade, et dui pugnali da mano Item un par de calzonacci verdi Item un matarazzo. Item una rotella Item una coperta Item un letto da oprire et servire per servitori Item una lettiera con due colonne Item una cassetta da far servitio Item un scabello Item una cassapanca vecchia Item un catino de maiolica Item un’altra cassa con dodici libn dentro. Item due quadri grandi da depingere Item una cassaccia con certi stracci dentro Item tre scabelli Item un specchio grande Item un scudo a specchio Item tre altri quadri più piccoli Item una banchetta a tre piedi Item tre talari grandi Item un quadro grande de legname Item una cassa d'ebano con un cortello dentro. Item due banchetti da letto Item un trepiedi alto di legno Item una caiioletta con certe carte de colori Item una libarda Item dui altri telari.

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