domenica 26 aprile 2020

Concorsi pubblici mediante società private di selezione? Molto meglio corsi-concorso, contratti di formazione e lavoro e l'apprendistato


La legge di conversione del d.l. 18/2020 introduce una riforma dei concorsi pubblici della quale non si sentiva nessun bisogno. Anche perché sarebbe l’ennesima (la terza o quarta) dalla legge di bilancio del 2018.
Si tratta, nella sostanza, do una pseudo privatizzazione dei concorsi, che desta molti interrogativi sulla compatibilità con norme in materia di anticorruzione ed efficienza.

Il disegno di legge di conversione del d.l. 18/2020 introduce nell’articolo 74 un nuovo comma 7-ter, enunciato come strumento per velocizzare i concorsi, ma con contenuti potenzialmente molto dannosi per il reclutamento nel lavoro pubblico.
Eccone il contenuto: “A seguito delle misure di sospensione delle procedure concorsuali adottate per il contrasto al fenomeno epidemiologico da COVID-19, in via sperimentale e comunque con effetto fino al 31 dicembre 2020, allo scopo di corrispondere all'esigenza del ricambio generazionale nelle pubbliche amministrazioni, di semplificare le modalità di svolgimento delle procedure concorsuali e di ridurre i tempi di accesso al pubblico impiego, con regolamento da adottare entro il 31 luglio 2020 ai sensi dell'articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione, si provvede ad aggiornare la disciplina regolamentare vigente in materia di reclutamento e di accesso alla qualifica dirigenziale e agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni. Le procedure concorsuali sono volte a valorizzare e verificare anche il possesso di requisiti specifici e di competenze trasversali tecniche e attitudinali, ivi incluse quelle manageriali per le qualifiche dirigenziali, coerenti con il profilo professionale da reclutare. Le predette procedure sono svolte, ove possibile, con l'ausilio di strumentazione informatica e con l'eventuale supporto di società e professionalità specializzate in materia di reclutamento e di selezione delle risorse umane”.
Premesso che il rinvio al regolamento potrebbe comportare un’introduzione molto ritardata di questa disciplina, si tratta dell’ennesimo tentativo di introdurre nell’ordinamento cascami della fallita riforma-Madia.
L’intero disegno di riforma del lavoro pubblico ed in particolare della dirigenza, come si ricorderà, era fondato sulla creazione, nella sostanza, di un sistema “abilitante”. Il superamento di concorsi avrebbe determinato l’individuazione di un “dipendente della Repubblica”, poi da incardinare negli uffici sulla base di un complesso sistema di incarichi, con scelta da specifici albi, nel caso della dirigenza.
Da ciò, la ricerca di lavoratori non tanto per coprire esigenze lavorative delle singole amministrazioni, ma per profili generali e trasversali, utilizzabili in teoria in ogni amministrazione, che avrebbe attinto ad un albo o ad una “graduatoria unica”. Questa filosofia è alla base del “concorso unico nazionale”, previsto dalla riforma Bongiorno (ma, prima ancora, dalla riforma D’Alia: le riforme “epocali” della PA sono sempre le stesse, mal riuscite e ripetitive), che (fortunatamente) non è ancora partito.
Tale filosofia, espressa anche nella legge 56/2019 esprime l’attenzione alle “competenze trasversali e manageriali”.
Sul merito, l’intenzione del legislatore non può che considerarsi corretta. E’ il metodo al quale si allude che desta non poche perplessità.
Intanto, non appare per nulla chiaro come si possa ottenere l’obiettivo della semplificazione e dell’abbreviamento dei tempi dei concorsi. Ovviamente, per capirlo occorre aspettare il testo del regolamento (sostitutivo dell’ormai ampiamente obsoleto dPR 487/1994?).
Tutto dipende dal peso che si vorrà dare al “supporto di società e professionalità specializzate in materia di reclutamento e di selezione delle risorse umane”.
Se, infatti, questo “supporto” risultasse preponderante e “sussidiario” (per meglio capirsi: sostitutivo) delle modalità classiche concorsuali, effettivamente si potrebbe fare molto presto: una preselezione informatica volta a tagliare carne e ossa, somministrabile anche da remoto, per giungere a non più di una cinquantina di candidati, da far poi sottoporre a “colloquio” con le società di reclutamento. Ci sarebbe da capire se, poi, questo colloquio sia ulteriormente selettivo di una rosa (short list) di candidati da valutare, poi, ulteriormente con prove selettive. O se, invece, si avveri il “sogno” di ogni organo di governo: scegliere chi meglio gli pare dalla “rosa”. Sogno che la riforma Madia aveva cercato di realizzare in particolare per la disciplina dell’accesso alla dirigenza e per l’assegnazione degli incarichi dirigenziali.
Non è, però, chi non veda gli enormi rischi di questa impostazione. La ricerca di competenze spesso impalpabili o molto discrezionali, come la “managerialità” può facilmente favorire quello che il Piano Nazionale Anticorruzione considera come un rischio specifico in una procedura, quella di reclutamento, considerata dall’articolo 1, comma 16, della legge 190/2012, a particolare rischio di corruzione: la predefinizione di caratteristiche selettive tali da favorire certi candidati.
Rischio che l’eventuale coinvolgimento di “di società e professionalità specializzate in materia di reclutamento e di selezione delle risorse umane” non può che accentuare. Senza nulla togliere alle capacità di queste società, che operano in modo collaudato nel settore privato, il rischio discende esattamente da questo. Nel privato, il datore si serve delle società di reclutamento, ma non si astiene di certo dall’orientarne le scelte selettive, che, per altro, spesso finiscono con l’individuazione di una rosa di candidati, lasciando al datore la scelta discrezionale finale.
Si dirà: nel privato l’attività selettiva delle società autorizzate alla ricerca e selezione funziona molto bene e la loro ricerca basata su esperienze, competenze (per fare fino occorre dire, però, skills) e propensioni, più che su nozioni, è molto efficace.
Si dimentica un piccolo dettaglio. Nel privato il reclutamento è assolutamente libero. Quando il datore di lavoro decide di servirsi dell’operato di queste società, lo fa sia per autovincolarsi, sia per esternalizzare a terzi la fatica di procedere al reclutamento. In ogni caso, l’efficacia della selezione non dipende solo dalla capacità dei cacciatori di teste, ma dalle specificità del sistema privato, caratterizzato comunque dall’effettuazione di un periodo di prova vero e non solo formale, come troppo spesso accade nella PA, e da un potere ampiamente discrezionale di risoluzione del rapporto di lavoro, tale per cui il selezionato è portato ad agire con efficienza perché continuamente sotto esame, al di là dell’ “esame” svolto in fase selettiva.
Nella pubblica amministrazione queste condizioni di fatto sono inesistenti. Un sistema di reclutamento come quello descritto appare  del tutto antitetico a quello dei concorsi pubblici, che postulano la formazione di una graduatoria di merito, con vincolo assoluto di attingere secondo il suo ordine.
Il coinvolgimento di società private nasconde oggettivamente il rischio che le prove selettive possano essere orientate in un modo predefinito: non lo si può negare. Un privato può esercitare legittimamente un potere di orientamento dell’attività della società selezionatrice. La PA, in applicazione dell’articolo 97 della Costituzione non può e non deve. Tuttavia, la tentazione per l’organo di governo, che è partitico e di parte, di cercare mediante sistemi di reclutamento che si aprono alla possibilità di orientarne il risultato, è forte e non mancherebbe di manifestarsi (basti pensare a quel che accade per le nomine dei manager nelle società pubbliche o dei direttori generali nelle usl: la competenza, certo, è richiesta, ma prima ancora l’appartenenza politica è il requisito fondamentale).
Il legislatore appare sempre all’inseguimento di metodi privatistici di reclutamento, che però sono di difficilissima conciliazione con l’articolo 97 della Costituzione e le obbligatorie cautele anticorruttive. In questo inseguimento, il legislatore dimentica che un sistema per valutare le competenze e, anzi, garantire che esse siano acquisite e raffinate col lavoro (non basta un’esperienza nel settore privato per una facile immissione nel pubblico), esiste: è il contratto di apprendistato.
Nella pubblica amministrazione è possibile il contratto di apprendistato professionalizzante o di alta formazione e ricerca, ma è al palo perché dal 2011 (dall’epoca del d.lgs 167/2011, poi abolito e sostituito dal d.lgs 81/2015, articoli da 41 a 46) che si aspetta un decreto per regolamentare tale contratto nel pubblico impiego. Un metodo meno avventuroso per assicurare assunzioni di qualità.
L’apprendistato, infatti, è un contratto a tempo indeterminato, però a libera recedibilità per le parti. La PA potrebbe disporre di un tempo molto lungo ed ampio di osservazione e contestuale formazione del reclutato; contestualmente, l’applicazione delle regole sull’eventuale iniziale sotto qualificazione potrebbe assicurare risparmi ed incentivare gli apprendisti ad una forte crescita professionale ed operativa sul campo, anche per, da un lato, guadagnarsi la “conferma” da parte del datore pubblico al termine del periodo di apprendistato, o per poter guardarsi intorno e scegliere eventualmente altre strade.
Mentre l’apprendistato nella PA rimane ancora inspiegabilmente al palo, comunque esistono già e da tempo modalità per selezionare “sul campo” nuovi assunti, con livelli di efficacia non dissimili da quelli in uso nel privato, tali però da eliminarne i rischi.
Il più semplice è il contratto di formazione e lavoro: tanto utile, quanto reietto e dimenticato. L’altro è il corso-concorso, abbastanza collaudato ormai per l’accesso alla dirigenza e, con forme molto diverse ma rispondenti a quella filosofia, per il reclutamento e soprattutto la progressione di carriera dei segretari comunali.
Invece di pensare a salti nel buio e riferirsi sempre all’irrealizzabile identificazine della PA con un’azienda, tara che ha condizionato negativamente un trentennio di riforme della PA stessa, tutte fallimentari, sarebbe il caso di prendere atto delle inevitabili peculiarità imposte dal rapporto di lavoro pubblico, che richiede impiegati all’esclusivo servizio della Nazione e non schiere di appartenenti politici. Molto meglio, quindi, valorizzare esperienze già utilmente svolte, come i corsi-concorso, o lanciare o rilanciare contratti dalla causa mista, lavorativa e formativa, come i contratti di formazione e lavoro e, soprattutto, l’apprendistato.

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