La legge di conversione del d.l.
18/2020 introduce una riforma dei concorsi pubblici della quale non si sentiva
nessun bisogno. Anche perché sarebbe l’ennesima (la terza o quarta) dalla legge
di bilancio del 2018.
Si tratta, nella sostanza, do
una pseudo privatizzazione dei concorsi, che desta molti interrogativi sulla
compatibilità con norme in materia di anticorruzione ed efficienza.
Il disegno di legge di conversione
del d.l. 18/2020 introduce nell’articolo 74 un nuovo comma 7-ter, enunciato
come strumento per velocizzare i concorsi, ma con contenuti potenzialmente
molto dannosi per il reclutamento nel lavoro pubblico.
Eccone il contenuto: “A
seguito delle misure di sospensione delle procedure concorsuali adottate per il
contrasto al fenomeno epidemiologico da COVID-19, in via sperimentale e
comunque con effetto fino al 31 dicembre 2020, allo scopo di corrispondere
all'esigenza del ricambio generazionale nelle pubbliche amministrazioni, di semplificare
le modalità di svolgimento delle procedure concorsuali e di ridurre i tempi
di accesso al pubblico impiego, con regolamento da adottare entro il 31 luglio
2020 ai sensi dell'articolo 17, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su
proposta del Ministro per la pubblica amministrazione, si provvede ad
aggiornare la disciplina regolamentare vigente in materia di reclutamento e di
accesso alla qualifica dirigenziale e agli impieghi nelle pubbliche
amministrazioni. Le procedure concorsuali sono volte a valorizzare e verificare
anche il possesso di requisiti specifici e di competenze trasversali tecniche e
attitudinali, ivi incluse quelle manageriali per le qualifiche dirigenziali,
coerenti con il profilo professionale da reclutare. Le predette procedure
sono svolte, ove possibile, con l'ausilio di strumentazione informatica e con
l'eventuale supporto di società e professionalità specializzate in materia di
reclutamento e di selezione delle risorse umane”.
Premesso che il rinvio al
regolamento potrebbe comportare un’introduzione molto ritardata di questa
disciplina, si tratta dell’ennesimo tentativo di introdurre nell’ordinamento
cascami della fallita riforma-Madia.
L’intero disegno di riforma del
lavoro pubblico ed in particolare della dirigenza, come si ricorderà, era
fondato sulla creazione, nella sostanza, di un sistema “abilitante”. Il
superamento di concorsi avrebbe determinato l’individuazione di un “dipendente
della Repubblica”, poi da incardinare negli uffici sulla base di un complesso
sistema di incarichi, con scelta da specifici albi, nel caso della dirigenza.
Da ciò, la ricerca di lavoratori
non tanto per coprire esigenze lavorative delle singole amministrazioni, ma per
profili generali e trasversali, utilizzabili in teoria in ogni amministrazione,
che avrebbe attinto ad un albo o ad una “graduatoria unica”. Questa filosofia è
alla base del “concorso unico nazionale”, previsto dalla riforma Bongiorno (ma,
prima ancora, dalla riforma D’Alia: le riforme “epocali” della PA sono sempre
le stesse, mal riuscite e ripetitive), che (fortunatamente) non è ancora
partito.
Tale filosofia, espressa anche nella
legge 56/2019 esprime l’attenzione alle “competenze trasversali e manageriali”.
Sul merito, l’intenzione del
legislatore non può che considerarsi corretta. E’ il metodo al quale si allude
che desta non poche perplessità.
Intanto, non appare per nulla
chiaro come si possa ottenere l’obiettivo della semplificazione e dell’abbreviamento
dei tempi dei concorsi. Ovviamente, per capirlo occorre aspettare il testo del
regolamento (sostitutivo dell’ormai ampiamente obsoleto dPR 487/1994?).
Tutto dipende dal peso che si
vorrà dare al “supporto di società e professionalità specializzate in
materia di reclutamento e di selezione delle risorse umane”.
Se, infatti, questo “supporto” risultasse
preponderante e “sussidiario” (per meglio capirsi: sostitutivo) delle modalità
classiche concorsuali, effettivamente si potrebbe fare molto presto: una
preselezione informatica volta a tagliare carne e ossa, somministrabile anche da
remoto, per giungere a non più di una cinquantina di candidati, da far poi
sottoporre a “colloquio” con le società di reclutamento. Ci sarebbe da capire
se, poi, questo colloquio sia ulteriormente selettivo di una rosa (short list)
di candidati da valutare, poi, ulteriormente con prove selettive. O se, invece,
si avveri il “sogno” di ogni organo di governo: scegliere chi meglio gli pare
dalla “rosa”. Sogno che la riforma Madia aveva cercato di realizzare in
particolare per la disciplina dell’accesso alla dirigenza e per l’assegnazione
degli incarichi dirigenziali.
Non è, però, chi non veda gli
enormi rischi di questa impostazione. La ricerca di competenze spesso
impalpabili o molto discrezionali, come la “managerialità” può facilmente favorire
quello che il Piano Nazionale Anticorruzione considera come un rischio
specifico in una procedura, quella di reclutamento, considerata dall’articolo
1, comma 16, della legge 190/2012, a particolare rischio di corruzione: la predefinizione
di caratteristiche selettive tali da favorire certi candidati.
Rischio che l’eventuale coinvolgimento
di “di società e professionalità specializzate in materia di reclutamento e di
selezione delle risorse umane” non può che accentuare. Senza nulla togliere
alle capacità di queste società, che operano in modo collaudato nel settore
privato, il rischio discende esattamente da questo. Nel privato, il datore si
serve delle società di reclutamento, ma non si astiene di certo dall’orientarne
le scelte selettive, che, per altro, spesso finiscono con l’individuazione di
una rosa di candidati, lasciando al datore la scelta discrezionale finale.
Si dirà: nel privato l’attività
selettiva delle società autorizzate alla ricerca e selezione funziona molto
bene e la loro ricerca basata su esperienze, competenze (per fare fino occorre
dire, però, skills) e propensioni, più che su nozioni, è molto efficace.
Si dimentica un piccolo
dettaglio. Nel privato il reclutamento è assolutamente libero. Quando il datore
di lavoro decide di servirsi dell’operato di queste società, lo fa sia per
autovincolarsi, sia per esternalizzare a terzi la fatica di procedere al
reclutamento. In ogni caso, l’efficacia della selezione non dipende solo dalla
capacità dei cacciatori di teste, ma dalle specificità del sistema privato,
caratterizzato comunque dall’effettuazione di un periodo di prova vero e non
solo formale, come troppo spesso accade nella PA, e da un potere ampiamente
discrezionale di risoluzione del rapporto di lavoro, tale per cui il selezionato
è portato ad agire con efficienza perché continuamente sotto esame, al di là
dell’ “esame” svolto in fase selettiva.
Nella pubblica amministrazione
queste condizioni di fatto sono inesistenti. Un sistema di reclutamento come
quello descritto appare del tutto
antitetico a quello dei concorsi pubblici, che postulano la formazione di una
graduatoria di merito, con vincolo assoluto di attingere secondo il suo ordine.
Il coinvolgimento di società
private nasconde oggettivamente il rischio che le prove selettive possano
essere orientate in un modo predefinito: non lo si può negare. Un privato può
esercitare legittimamente un potere di orientamento dell’attività della società
selezionatrice. La PA, in applicazione dell’articolo 97 della Costituzione non
può e non deve. Tuttavia, la tentazione per l’organo di governo, che è
partitico e di parte, di cercare mediante sistemi di reclutamento che si aprono
alla possibilità di orientarne il risultato, è forte e non mancherebbe di
manifestarsi (basti pensare a quel che accade per le nomine dei manager nelle
società pubbliche o dei direttori generali nelle usl: la competenza, certo, è richiesta,
ma prima ancora l’appartenenza politica è il requisito fondamentale).
Il legislatore appare sempre all’inseguimento
di metodi privatistici di reclutamento, che però sono di difficilissima
conciliazione con l’articolo 97 della Costituzione e le obbligatorie cautele
anticorruttive. In questo inseguimento, il legislatore dimentica che un sistema
per valutare le competenze e, anzi, garantire che esse siano acquisite e
raffinate col lavoro (non basta un’esperienza nel settore privato per una facile
immissione nel pubblico), esiste: è il contratto di apprendistato.
Nella pubblica amministrazione è
possibile il contratto di apprendistato professionalizzante o di alta
formazione e ricerca, ma è al palo perché dal 2011 (dall’epoca del d.lgs 167/2011,
poi abolito e sostituito dal d.lgs 81/2015, articoli da 41 a 46) che si aspetta
un decreto per regolamentare tale contratto nel pubblico impiego. Un metodo meno
avventuroso per assicurare assunzioni di qualità.
L’apprendistato, infatti, è un
contratto a tempo indeterminato, però a libera recedibilità per le parti. La PA
potrebbe disporre di un tempo molto lungo ed ampio di osservazione e contestuale
formazione del reclutato; contestualmente, l’applicazione delle regole sull’eventuale
iniziale sotto qualificazione potrebbe assicurare risparmi ed incentivare gli
apprendisti ad una forte crescita professionale ed operativa sul campo, anche
per, da un lato, guadagnarsi la “conferma” da parte del datore pubblico al termine
del periodo di apprendistato, o per poter guardarsi intorno e scegliere
eventualmente altre strade.
Mentre l’apprendistato nella PA
rimane ancora inspiegabilmente al palo, comunque esistono già e da tempo
modalità per selezionare “sul campo” nuovi assunti, con livelli di efficacia
non dissimili da quelli in uso nel privato, tali però da eliminarne i rischi.
Il più semplice è il contratto
di formazione e lavoro: tanto utile, quanto reietto e dimenticato. L’altro è il
corso-concorso, abbastanza collaudato ormai per l’accesso alla dirigenza e, con
forme molto diverse ma rispondenti a quella filosofia, per il reclutamento e
soprattutto la progressione di carriera dei segretari comunali.
Invece di pensare a salti nel buio
e riferirsi sempre all’irrealizzabile identificazine della PA con un’azienda,
tara che ha condizionato negativamente un trentennio di riforme della PA
stessa, tutte fallimentari, sarebbe il caso di prendere atto delle inevitabili
peculiarità imposte dal rapporto di lavoro pubblico, che richiede impiegati all’esclusivo
servizio della Nazione e non schiere di appartenenti politici. Molto meglio,
quindi, valorizzare esperienze già utilmente svolte, come i corsi-concorso, o
lanciare o rilanciare contratti dalla causa mista, lavorativa e formativa, come
i contratti di formazione e lavoro e, soprattutto, l’apprendistato.
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