Da giorni si assiste al per
molti versi incredibile dibattito sulla cosiddetta “amministrazione difensiva”
o “paura della firma”, volto ad eliminare la responsabilità contabile per colpa
grave e a sostanzialmente ridurre a mera ipotesi astratta il reato d’abuso d’ufficio.
Non è evidentemente chiaro ai
fautori di questa, che viene a torto considerata una misura di “semplificazione”
della burocrazia (è evidente che non semplifica nulla, ma crea solo spazi di
impunità), che oltre al problema dell’amministrazione difensiva, che esiste ma
in misura molto minore di quanto non venga rappresentato, esiste il ben più
grave problema della paura di non firmare, pena conseguenze sull’incarico rivestito.
Quella che viene fatta
semplicisticamente passare come “paura della firma” nella maggior parte dei
casi è un fenomeno completamente diverso. Si tratta di situazioni nelle quali l’organo
politico o di indirizzo preme per soluzioni amministrative urgenti e spesso, eufemisticamente
“azzardate”, mentre l’organo tecnico competente ad adottare il provvedimento
evidenzia le situazioni di illegittimità e di connesse responsabilità (dalla
penale all’amministrativo contabile) connesse all’adesione di simili scelte “azzardate”.
Chi preme per quelle scelte non
accetta le indicazioni normative che ingiungono al dirigente o al funzionario
di adottare soluzioni legittime e diverse; quel dirigente o funzionario viene,
quindi, tacciato di avere “paura della firma” o di trincerarsi dietro la “amministrazione
difensiva”.
Ma, chiediamoci: in cosa consiste
la “colpa grave”? La risposta ce la fornisce, tra le altre, la sentenza 3 ottobre
2018, n. 502 della Sezione giurisdizionale per il Lazio della Corte dei conti: “la
colpa grave va intesa come trascuratezza dei propri doveri istituzionali da
parte del dipendente pubblico sostanziantesi in condotte negligenti, imperite,
imprudenti, superficiali o noncuranti, in relazione all’applicazione di
discipline normative. Essa va rapportata anche all’assetto funzionale
organizzativo della amministrazione ove l’agente abbia commesso il fatto fonte
di danno pubblico. La gravità della colpa va parametrata, poi, a plurimi
fattori dovendosi tener conto della conoscibilità, prevedibilità ed evitabilità
dell’evento lesivo.
Le SS.RR. della Corte dei
conti hanno, infatti, identificato l'elemento soggettivo della colpa grave con
l'“intensa negligenza”, la “sprezzante trascuratezza dei propri doveri”,
l'“atteggiamento di grave disinteresse nell'espletamento delle proprie
funzioni”, la “macroscopica violazione delle norme”, il “comportamento che
denoti dispregio delle comuni regole di prudenza”.
Ora, è possibile realisticamente ipotizzare che all’ordinamento davvero sia concesso di accettare che l’operato
di propri dipendenti sia negligente, imperito, imprudente, senza alcuna
conseguenza? Ma, non sono queste condizioni chiara ed evidente fonte di
responsabilità non solo erariale, ma anche civile e disciplinare[1]? E come
è ammissibile l’esonero da responsabilità contabile se l’azione imperita e
negligente (di per sé meritevole di conseguenze sul piano disciplinare e civile)
abbia portato ad un danno all’erario?
E chiediamoci, in cosa si
sostanzia il reato d’abuso d’ufficio: nell’intento, da parte del dipendente pubblico,
di acquisire per sé un vantaggio patrimoniale, o di arrecare ad altri un danno
ingiusto, in violazione di una specifica norma di legge o regolamento. Siamo
davvero convinti che possa considerarsi accettabile in un ordinamento che l’operato
in violazione delle norme che comporti illeciti vantaggi patrimoniali o lesioni
delle posizioni giuridiche di terzi possa o debba restare impunito? Si
ribadisce: un operato in violazione delle norme poste proprio per indicare alla
PA i binari della corretta gestione, necessari per garantire che la gestione
sia e resti rispettosa del principio di legalità.
Se molte, troppe volte, si
assiste a fatti corruttivi, a gestioni fallimentari, a buchi di bilancio, ad
appalti trascurati, a contributi assegnati senza alcuna utilità, ad incarichi
di consulenze ingiustificabili, ad incarichi dirigenziali oltre i presupposti,
i limiti numerici e persino a chi non abbia i requisiti soggettivi minimi (e l’elenco
potrebbe continuare), è proprio perché molto diffusa è non certo la “paura
della firma”, bensì all’opposto la “paura per la mancata firma” su atti platealmente
illegittimi.
La mancanza della paura della
firma di atti illegittimi è spessissimo indotta dallo scriteriato spoil
system all’italiana, mercè il quale tantissimi dirigenti, funzionari e
segretari comunali sono facilmente esposti alla pressione, se non al ricatto, di
chi ha assegnato loro l’incarico, sicchè la sottoscrizione di atti che non dovrebbero
mai essere adottati, costituisce troppo spesso atto di soggezione e vassallaggio
considerato dovuto, per la paura di perdere il beneficio dell’incarico
ottenuto.
Da qui un’altra serie di
conseguenze deleterie: la valutazione dei vertici decisionali e gestionali è
spessissimo del tutto avulsa dalla considerazione delle capacità, dell’efficienza,
della corrispondenza di risultati concreti ad obiettivi misurabili. E’ un coacervo
fumoso e disordinato, utile per premiare un po’ tutti, ma soprattutto chi, con
sprezzo del principio di legalità e sulla base di una buona assicurazione,
lungi dall’avere “paura della firma”, sottoscrive qualsiasi atto illegittimo,
per la “paura della mancata firma”.
Non
sembra affatto che il riassetto dell’organizzazione amministrativa, pur
necessario, possa fondarsi sull’eliminazione delle responsabilità connesse ai
ruoli di vertice. Il rischio, evidentissimo, è di giustificare ed estendere
ancor più la “paura della mancata firma”, col risultato di un’amministrazione
non più intenta a rispettare il principio di legalità e l’interesse generale, ma
intenta a perseguire interessi particolari nella convinzione che la violazione
delle norme resti per lo più impunito sul piano delle responsabilità penali ed
erariali, trasformandosi ancor più in un titolo di merito per il mantenimento degli
incarichi. Una conseguenza esiziale sull’efficienza della PA e per i principi
di parità di trattamento, trasparenza, concorrenza, imparzialità.
[1]
Basti pensare alle disposizioni previste in merito dal d.lgs 165/2001:
“Art. 55-sexies. Responsabilità disciplinare per
condotte pregiudizievoli per l'amministrazione e limitazione della
responsabilità per l'esercizio dell'azione disciplinare
1. La violazione di obblighi concernenti la
prestazione lavorativa, che abbia determinato la condanna dell'amministrazione
al risarcimento del danno, comporta comunque, nei confronti del dipendente
responsabile, l'applicazione della sospensione dal servizio con privazione
della retribuzione da un minimo di tre giorni fino ad un massimo di tre mesi,
in proporzione all'entità del risarcimento, salvo che ricorrano i presupposti
per l'applicazione di una più grave sanzione disciplinare.
2. Fuori dei casi previsti nel comma 1, il lavoratore,
quando cagiona grave danno al normale funzionamento dell'ufficio di
appartenenza, per inefficienza o incompetenza professionale accertate
dall'amministrazione ai sensi delle disposizioni legislative e contrattuali
concernenti la valutazione del personale delle amministrazioni pubbliche, è
collocato in disponibilità, all'esito del procedimento disciplinare che accerta
tale responsabilità, e si applicano nei suoi confronti le disposizioni di cui
all'articolo 33, comma 8, e all'articolo 34, commi 1, 2, 3 e 4. Il
provvedimento che definisce il giudizio disciplinare stabilisce le mansioni e
la qualifica per le quali può avvenire l'eventuale ricollocamento. Durante il
periodo nel quale è collocato in disponibilità, il lavoratore non ha diritto di
percepire aumenti retributivi sopravvenuti”.
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