domenica 14 giugno 2020

Burocrazia: Il vero problema non è la cosiddetta paura della firma, bensì la paura delle conseguenze per la mancata firma

Da giorni si assiste al per molti versi incredibile dibattito sulla cosiddetta “amministrazione difensiva” o “paura della firma”, volto ad eliminare la responsabilità contabile per colpa grave e a sostanzialmente ridurre a mera ipotesi astratta il reato d’abuso d’ufficio.
Non è evidentemente chiaro ai fautori di questa, che viene a torto considerata una misura di “semplificazione” della burocrazia (è evidente che non semplifica nulla, ma crea solo spazi di impunità), che oltre al problema dell’amministrazione difensiva, che esiste ma in misura molto minore di quanto non venga rappresentato, esiste il ben più grave problema della paura di non firmare, pena conseguenze sull’incarico rivestito.

Quella che viene fatta semplicisticamente passare come “paura della firma” nella maggior parte dei casi è un fenomeno completamente diverso. Si tratta di situazioni nelle quali l’organo politico o di indirizzo preme per soluzioni amministrative urgenti e spesso, eufemisticamente “azzardate”, mentre l’organo tecnico competente ad adottare il provvedimento evidenzia le situazioni di illegittimità e di connesse responsabilità (dalla penale all’amministrativo contabile) connesse all’adesione di simili scelte “azzardate”.
Chi preme per quelle scelte non accetta le indicazioni normative che ingiungono al dirigente o al funzionario di adottare soluzioni legittime e diverse; quel dirigente o funzionario viene, quindi, tacciato di avere “paura della firma” o di trincerarsi dietro la “amministrazione difensiva”.
Ma, chiediamoci: in cosa consiste la “colpa grave”? La risposta ce la fornisce, tra le altre, la sentenza 3 ottobre 2018, n. 502 della Sezione giurisdizionale per il Lazio della Corte dei conti: “la colpa grave va intesa come trascuratezza dei propri doveri istituzionali da parte del dipendente pubblico sostanziantesi in condotte negligenti, imperite, imprudenti, superficiali o noncuranti, in relazione all’applicazione di discipline normative. Essa va rapportata anche all’assetto funzionale organizzativo della amministrazione ove l’agente abbia commesso il fatto fonte di danno pubblico. La gravità della colpa va parametrata, poi, a plurimi fattori dovendosi tener conto della conoscibilità, prevedibilità ed evitabilità dell’evento lesivo.
Le SS.RR. della Corte dei conti hanno, infatti, identificato l'elemento soggettivo della colpa grave con l'“intensa negligenza”, la “sprezzante trascuratezza dei propri doveri”, l'“atteggiamento di grave disinteresse nell'espletamento delle proprie funzioni”, la “macroscopica violazione delle norme”, il “comportamento che denoti dispregio delle comuni regole di prudenza”.
Ora, è possibile realisticamente ipotizzare che all’ordinamento davvero sia concesso di accettare che l’operato di propri dipendenti sia negligente, imperito, imprudente, senza alcuna conseguenza? Ma, non sono queste condizioni chiara ed evidente fonte di responsabilità non solo erariale, ma anche civile e disciplinare[1]? E come è ammissibile l’esonero da responsabilità contabile se l’azione imperita e negligente (di per sé meritevole di conseguenze sul piano disciplinare e civile) abbia portato ad un danno all’erario?
E chiediamoci, in cosa si sostanzia il reato d’abuso d’ufficio: nell’intento, da parte del dipendente pubblico, di acquisire per sé un vantaggio patrimoniale, o di arrecare ad altri un danno ingiusto, in violazione di una specifica norma di legge o regolamento. Siamo davvero convinti che possa considerarsi accettabile in un ordinamento che l’operato in violazione delle norme che comporti illeciti vantaggi patrimoniali o lesioni delle posizioni giuridiche di terzi possa o debba restare impunito? Si ribadisce: un operato in violazione delle norme poste proprio per indicare alla PA i binari della corretta gestione, necessari per garantire che la gestione sia e resti rispettosa del principio di legalità.
Se molte, troppe volte, si assiste a fatti corruttivi, a gestioni fallimentari, a buchi di bilancio, ad appalti trascurati, a contributi assegnati senza alcuna utilità, ad incarichi di consulenze ingiustificabili, ad incarichi dirigenziali oltre i presupposti, i limiti numerici e persino a chi non abbia i requisiti soggettivi minimi (e l’elenco potrebbe continuare), è proprio perché molto diffusa è non certo la “paura della firma”, bensì all’opposto la “paura per la mancata firma” su atti platealmente illegittimi.
La mancanza della paura della firma di atti illegittimi è spessissimo indotta dallo scriteriato spoil system all’italiana, mercè il quale tantissimi dirigenti, funzionari e segretari comunali sono facilmente esposti alla pressione, se non al ricatto, di chi ha assegnato loro l’incarico, sicchè la sottoscrizione di atti che non dovrebbero mai essere adottati, costituisce troppo spesso atto di soggezione e vassallaggio considerato dovuto, per la paura di perdere il beneficio dell’incarico ottenuto.
Da qui un’altra serie di conseguenze deleterie: la valutazione dei vertici decisionali e gestionali è spessissimo del tutto avulsa dalla considerazione delle capacità, dell’efficienza, della corrispondenza di risultati concreti ad obiettivi misurabili. E’ un coacervo fumoso e disordinato, utile per premiare un po’ tutti, ma soprattutto chi, con sprezzo del principio di legalità e sulla base di una buona assicurazione, lungi dall’avere “paura della firma”, sottoscrive qualsiasi atto illegittimo, per la “paura della mancata firma”.
Non sembra affatto che il riassetto dell’organizzazione amministrativa, pur necessario, possa fondarsi sull’eliminazione delle responsabilità connesse ai ruoli di vertice. Il rischio, evidentissimo, è di giustificare ed estendere ancor più la “paura della mancata firma”, col risultato di un’amministrazione non più intenta a rispettare il principio di legalità e l’interesse generale, ma intenta a perseguire interessi particolari nella convinzione che la violazione delle norme resti per lo più impunito sul piano delle responsabilità penali ed erariali, trasformandosi ancor più in un titolo di merito per il mantenimento degli incarichi. Una conseguenza esiziale sull’efficienza della PA e per i principi di parità di trattamento, trasparenza, concorrenza, imparzialità.



[1] Basti pensare alle disposizioni previste in merito dal d.lgs 165/2001:
“Art. 55-sexies. Responsabilità disciplinare per condotte pregiudizievoli per l'amministrazione e limitazione della responsabilità per l'esercizio dell'azione disciplinare
1. La violazione di obblighi concernenti la prestazione lavorativa, che abbia determinato la condanna dell'amministrazione al risarcimento del danno, comporta comunque, nei confronti del dipendente responsabile, l'applicazione della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da un minimo di tre giorni fino ad un massimo di tre mesi, in proporzione all'entità del risarcimento, salvo che ricorrano i presupposti per l'applicazione di una più grave sanzione disciplinare.
2. Fuori dei casi previsti nel comma 1, il lavoratore, quando cagiona grave danno al normale funzionamento dell'ufficio di appartenenza, per inefficienza o incompetenza professionale accertate dall'amministrazione ai sensi delle disposizioni legislative e contrattuali concernenti la valutazione del personale delle amministrazioni pubbliche, è collocato in disponibilità, all'esito del procedimento disciplinare che accerta tale responsabilità, e si applicano nei suoi confronti le disposizioni di cui all'articolo 33, comma 8, e all'articolo 34, commi 1, 2, 3 e 4. Il provvedimento che definisce il giudizio disciplinare stabilisce le mansioni e la qualifica per le quali può avvenire l'eventuale ricollocamento. Durante il periodo nel quale è collocato in disponibilità, il lavoratore non ha diritto di percepire aumenti retributivi sopravvenuti”.

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