Non si risponde mai alla domanda "domani che fai?" con "lavoro", ma "vado a lavorare". "Andare a lavorare" è un endiadi; si considera che si lavora se si "va" nella specifica sede ove lavorare: la terra da coltivare, la fabbrica, l'ufficio. Spesso è l'azione di "andare" a lavorare che, nel pensare comune, qualifica il lavoro. "Come sono stanco: ho messo un'ora ad andare e un'ora a tornare dal lavoro". Non stanca tanto il lavoro, quanto l'azione di andarci. Questa viene raccontata e vissuta come sacrificio. O come "nobilitazione" dell'azione lavorativa. Sulla base di questa visione, tanto radicata quanto fuori tempo, si pensa che se non si "va" a lavorare, ma semplicemente si lavora, non sia lavoro, sia un privilegio. Per qui, un'avversione che è culturale, anzi, sotto-culturale, allo smart working. Infatti, con il lavoro agile, specie se da casa, non "si va". Non conta quel che si fa, per molti. Conta la fatica per andare a "timbrare". Quel che accade tra una timbratura e l'altra può anche non contare, se si è "andati". Una sub-cultura che, forse, l'emergenza contribuirà a sradicare e a far capire che il lavoro vecchio stile è cambiato ed anche la sua regolamentazione e, soprattutto, concezione devono cambiare.
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