La gestione dei buoni spesa richiede
ai comuni non solo un imponente sforzo organizzativo, ma anche l’onere di fare
fronte alle frequentissime richieste dei consiglieri di accedere agli elenchi
dei beneficiari degli aiuti.
E’ un caso molto complesso di palese contrasto di diritti. Da un lato, il vastissimo di diritto di accesso del consigliere, fondato dall’articolo 43, comma 2, del d.lgs 267/2000: “I consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all'espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge”. Dall’altro lato, le moltissime norme a tutela della riservatezza e, in particolare il d.lgs 196/2003 e il Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016.
E’ molto evidente che l’accesso
ai nominativi dei beneficiari impatti con le regole sulla tutela dei dati
personali.
L’articolo 4, comma 1, del Regolamento
2016/679 considera come dato personale “qualsiasi informazione riguardante
una persona fisica identificata o identificabile («interessato»); si considera
identificabile la persona fisica che può essere identificata, direttamente o
indirettamente, con particolare riferimento a un identificativo come il nome,
un numero di identificazione, dati relativi all'ubicazione, un identificativo
online o a uno o più elementi caratteristici della sua identità fisica,
fisiologica, genetica, psichica, economica, culturale o sociale”.
Rientrare nel novero dei
soggetti destinatari dei buoni spesa rivela senza alcun dubbio dati sull’identità,
lo stato economico e lo stato sociale.
Il conflitto, dunque, tra il
diritto del consigliere all’accesso e il diritto del beneficiario alla
riservatezza è inevitabile. Ma va risolto.
In apparenza, tra i due diritti
in gioco la prevalenza è da assegnare al diritto dei consiglieri, in ragione,
soprattutto, della sua amplissima estensione ed assolutezza, accertate in
maniera uniforme dalla giurisprudenza.
Talmente ampio ed assoluto è il
diritto di accesso dei consiglieri, che molte amministrazioni comunali mettono
a disposizione senza alcun dubbio gli elenchi dei beneficiari dei buoni spesa.
A supporto, non solo il già
ricordato articolo 43, comma 2, del Tuel e la giurisprudenza, ma anche alcune
norme della disciplina a tutela della riservatezza.
Il d.lgs 196/2003 dedica l’articolo
2-sexies alla disciplina del trattamento di categorie particolari di dati
personali necessari per motivi di interesse pubblico rilevante ed al comma 2
individua ipotesi di ammissibilità del trattamento, pertinenti alla questione
qui trattata:
-
lettera h): “svolgimento delle funzioni di
controllo, indirizzo politico, inchiesta parlamentare o sindacato ispettivo e
l’accesso a documenti riconosciuto dalla legge e dai regolamenti degli organi
interessati per esclusive finalità direttamente connesse all’espletamento di un
mandato elettivo”;
-
lettera m) “concessione, liquidazione,
modifica e revoca di benefici economici, agevolazioni, elargizioni, altri emolumenti
e abilitazioni”.
Si potrebbe affermare che poiché
i buoni spesa rientrano nei procedimenti di concessione di benefici economici
ed elargizioni e visto che su dette elargizioni è legittimo un esercizio di
controlli, a maggior ragione il diritto di accesso del consigliere comunale
vada tutelato e garantito.
Tuttavia, questa conclusione non
appare cogliere nel segno ed è da rigettare. A meglio guardare, il diritto del
consigliere di accedere ai dati personali dei beneficiari dei buoni spesa
appare molto meno chiaro e netto.
Innanzitutto, occorre sgombrare
il campo da un possibile equivoco sulla pubblicità delle erogazioni in
argomento. Qualcuno potrebbe essere portato a ritenere il problema risolto nel
senso della piena pubblicità, e quindi conoscibilità a maggior ragione da parte
dei consiglieri, sulla base degli articoli 36 e 27 del d.lgs 33/2013. Ma,
questi articoli occorre leggerli fino in fondo. Non solo obbligano le
amministrazioni a pubblicare gli atti relativi alla concessione di contributi e
benefici se di importi superiori ai 1.000 euro (cosa molto difficile per i
singoli buoni spesa), ma soprattutto l’articolo 26, comma 4, del d.lgs 33/2013 stabilisce
che “è esclusa la pubblicazione dei dati identificativi delle persone
fisiche destinatarie dei provvedimenti di cui al presente articolo,
qualora da tali dati sia possibile ricavare informazioni relative allo
stato di salute ovvero alla situazione di disagio economico-sociale degli
interessati”.
Come si nota, nessuna pubblicità
è, quindi, legittima e possibile per gli atti di assegnazione dei buoni spesa.
Torniamo alla richiesta di
accesso dei consiglieri e guardiamo innanzitutto alla possibilità di fondarla
combinando i due canoni di legittimità del trattamento visti sopra e disposti
dall’articolo 2-sexies, comma 2, lettere h) e m), del d.lgs 196/2003, alla luce
dei quali l’accesso ai provvedimenti di concessione dei benefici può essere
visto come esercizio della funzione di controllo connesse all’espletamento del
mandato politico, in piena coerenza con le previsioni dell’articolo 43, comma
2, del Tuel.
Eppure, questa apparentemente
solida interpretazione si presta ad essere privata di sostegno, analizzando a
fondo gli elementi sui quali si fonda.
Partiamo dalla funzione di
controllo connessa all’esercizio del mandato. Uno spunto molto diffuso per
fondare il diritto di accesso dei consiglieri è permetterne lo svolgimento del
controllo sull’attività dell’ente.
E’, tuttavia, una visione
erronea, nella misura in cui si connette il controllo del consigliere ai
singoli atti gestionali.
Già moltissimi (ormai) anni fa,
agli albori della riforma della legge 142/1990 che poi sarebbe sfociata nel d.lgs
267/2000 chi scrive ebbe modo di evidenziare
che il controllo del consiglio e dei consiglieri è un controllo ovviamente
politico, che riguarda i risultati della gestione e non può essere inteso come controllo
amministrativo sui singoli specifici atti.
Il quadro da allora non solo non
è cambiato, ma l’assetto del d.lgs 267/2000, dopo le riforme del 2012 conferma
e rafforza la convinzione che i consiglieri non dispongano – come dovrebbe
essere ovvio – di alcun potere e sindacato di controllo sui singoli atti.
Infatti, il controllo su di essi
è disciplinato in via esclusiva dagli articoli 147 e 147-bis del Tuel, con
specifico riferimento ai controlli di regolarità amministrativa e contabile. La
legge attribuisce la competenza per questi controlli esclusivamente ai dirigenti
stessi, al segretario comunale, al responsabile del settore finanziario, agli organismi
di revisione ed agli organismi di valutazione.
Il consiglio comunale è citato dall’articolo
147-bis, comma 3, esclusivamente come destinatario delle risultanze complessive
del controllo svolto dal segretario comunale, non come soggetto attivo del
controllo di regolarità amministrativa.
Dunque, la conclusione è obbligata:
come il consiglio comunale non dispone del potere di controllare i singoli
atti, disponendo invece della potestà di controllare l’andamento complessivo
della gestione in rapporto al programma di mandato, allo stesso modo i
consiglieri, quali componenti del collegio e quindi dotati di potestà di eguale
e non maggiore tenore, non possono accedere a singoli atti e provvedimenti a
fini di controllo gestionale.
Pertanto, le previsioni dell’articolo
2-sexies del d.lgs 196/2003 non fondano affatto il diritto di accesso del
consigliere agli elenchi dei beneficiari dei buoni spesa, visto che il
consigliere non dispone di un potere di controllo, né gli elenchi sono da
pubblicare.
Quindi, l’eventuale fonte a
sostegno dell’accesso del consigliere si circoscrive al solo dettato dell’articolo
43, comma 2, del Tuel; norma, tuttavia, dal contenuto abbastanza ampio da poter
in ogni caso lasciar pensare di poter sorreggere un ampio diritto di accesso.
Tale chiave di lettura, semplice
e chiara, viene però complicata
dall’angolo di visuale dell’Autorità garante della privacy. Nella Relazione
2008 - 2 luglio 2009, Parte II, il Garante si sofferma proprio sul tema del
diritto di accesso del consigliere comunale “a notizie e informazioni in
possesso dell´amministrazione contenenti dati personali di terzi”. In
particolare, il Garante richiama proprie note relative ad un’istanza di accesso
di un assessore avente anche il ruolo di consigliere.
Nell’esporre il proprio punto di
vista, il Garante distingue abbastanza chiaramente le prerogative dell’assessore
rispetto a quelle del consigliere, alla luce in particolare del diverso ruolo svolto
dalle due figure nell’ambito dell’amministrazione. Mentre l’assessore deve
disporre dei dati per esprimere le proprie direttive operative ai fini della gestione
anche di dettaglio, il consigliere apprende i dati ai fini delle proprie prerogative,
connesse non alla gestione diretta (se non nei casi degli atti di competenza
consiliare), bensì alla verifica dell’andamento complessivo in rapporto alla
programmazione generale.
Il Garante, dunque, evidenzia
che nei propri atti “È stato precisato, da un lato, che la legge riconosce
ai consiglieri il diritto di ottenere dal comune tutte le notizie e le
informazioni in suo possesso, utili all´espletamento del proprio mandato (art.
43, comma 2, del d.lg. 18 agosto 2000, n. 267)”. E ricorda che “L´esercizio
di tale diritto nei confronti di documenti contenenti dati sensibili è
consentito se strettamente necessario allo svolgimento della funzione di controllo,
di indirizzo politico, di sindacato ispettivo e di altre forme di accesso a
documenti riconosciute dalla legge e dai regolamenti degli organi interessati
per l´espletamento di un mandato elettivo (art. 65, comma 4, lett. b), del
Codice; v. scheda n. 33 dello schema tipo Anci cit.)”. Per quanto riguarda
invece gli assessori, il Garante evidenzia che “la normativa di settore
stabilisce unicamente che questi ultimi, per gli specifici settori ad essi
delegati, sovrintendano al funzionamento degli uffici e dei servizi non con
atti di diretta gestione, bensì con direttive generali cui pure i dirigenti
degli uffici sono tenuti a conformarsi (artt. 50 e 109, d.lg. n. 267/2000 cit.)”.
Le conclusioni tratte dal
garante sono distinte. Riconosce agli assessori un diritto di accesso ai dati
personali più esteso per gli assessori e di minor momento per i consiglieri: “Pertanto,
nel solo caso in cui la richiesta di dati personali, anche di natura
sensibile, sia indispensabile all´assessore per espletare la funzione di
controllo politico-amministrativo sull´andamento dell´ufficio e, più in
particolare, per esercitare una verifica dell´osservanza delle direttive
impartite al dirigente responsabile del servizio, l´acquisizione di tali dati
potrebbe non apparire contraria alle disposizioni in materia di protezione dei
dati personali (art. 67, comma 1, lett. a) e b), del Codice; v. scheda n. 33
dello schema tipo Anci già cit. e il Parere del 7 dicembre 2006 cit.) (Nota 27
giugno 2008).
Sulla base dei predetti
princìpi, è stato chiarito ad un comune che spetta all´amministrazione
destinataria della richiesta accertare il fondamento della pretesa
all´informazione ratione officii del consigliere comunale, con valutazione
eventualmente sindacabile dal giudice amministrativo. Resta ferma la
necessità che i dati personali così acquisiti dagli aventi diritto siano
utilizzati effettivamente per le sole finalità realmente pertinenti al mandato,
rispettando il dovere di segreto nei casi specificamente determinati dalla
legge, nonché i divieti di divulgazione dei dati personali (v. art. 22, comma
8, del Codice, che vieta la diffusione dei dati idonei a rivelare lo stato di
salute) (Nota 12 gennaio 2009)”.
Come si nota, il Garante ritiene
che nel caso della richiesta di accesso del consigliere a dati personali di
cittadini non può essere condivisa in modo supino e acritico la giurisprudenza
secondo la quale i comuni non dispongono di alcun potere di sindacato di merito
sull’istanza del consigliere.
Al contrario, nel caso di specie,
vista la fortissima potenziale lesione del diritto alla riservatezza di
fondamentali dati relativi allo stato economico e sociale, il comune non può
non porsi il problema dell’effettiva connessione della richiesta del
consigliere con l’esercizio del proprio mandato.
Allora, da questo punto di vista
pare che non vi sia ovviamente alcun problema a fornire al consigliere dati
anonimizzati ed aggregati, con i quali indicare quanti sono i beneficiari, se
siano residenti o domiciliati nell’ente, i valori dei buoni, medio e pro
capite, quanti controlli siano stati effettuati, quanti casi di revoca si siano
resi necessari.
Questi elementi sono ovviamente
utili, se non indispensabili, per una valutazione generale sull’andamento di
questa attività gestionale.
I dati aggregati forniscono al
consigliere elementi specifici e connessi all’esercizio del proprio specifico
mandato, che presuppone un indirizzo e controllo generale e, come tale, non
puntuale, sull’andamento. Il consigliere non potrebbe esprimersi sulla
specifica destinazione del beneficio a questo piuttosto che a quell’altro
cittadino, ma deve valutare l’efficienza della spesa, della gestione, dell’apparato
dei controlli.
Ecco perché, nel caso di specie,
l’accesso ai nominativi appare viziato per eccedenza rispetto alle prerogative
del consigliere e, quindi, da denegare.
Il Garante nella Relazione citata lascia ai singoli enti il compito di ponderare, volta per volta, il diritto di accesso del consigliere con quello alla riservatezza dei destinatari di contributi e sovvenzioni e, molto correttamente, avverte che la scelta dell’amministrazione è esposta al sindacato del giudice amministrativo. Al quale il consigliere potrà comunque rivolgersi, laddove dimostri che un diniego all’accesso sia illegittimo. E’ quel che è accaduto nel giudizio avviato avanti al Tar Basilicata, Sezione 1, che con la sentenza 25 settembre 2020, n. 574 ha accolto il ricorso presentato da un consigliere, al quale il comune aveva opposto diniego parziale all’accesso proprio ai nominativi dei cittadini che avevano presentato istanza per i buoni spesa.
Il Tar ha ritenuto che al
consigliere non “sono opponibili limitazioni connesse all’esigenza di
assicurare la riservatezza dei dati e il diritto alla privacy dei terzi (pur
tenuto conto delle innovazione recate dal Regolamento UE 2016/679), atteso che,
con riferimento all'esercizio del diritto in esame, tale esigenza è
efficacemente salvaguardata dalla disposizione di cui al co. 2 dell’art. 43
cit., che impone al consigliere comunale il segreto ove la pretesa
ostensiva abbia ad oggetto atti che incidono sulla sfera giuridica e soggettiva
di terzi (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 11/12/2013, n. 5931). In tali casi,
ogni contraria prescrizione regolamentare va disapplicata o, qualora oggetto di
impugnazione, annullata (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 9/10/2007, n. 5264)”.
Tale sentenza non appare corretta
e persuasiva. Come la pronuncia evidenzia nelle premesse, “il Comune, pur
fornendo al consigliere dati relativi all’entità delle provvidenze distribuite,
ha omesso, conformemente al parere del responsabile della protezione dei
dati …, “(…) oltre al nome ed al cognome dei richiedenti le misure di
sostegno, tutti i dati sensibili riguardanti gli stessi soggetti (condizioni
di disagio economico e sociale ovvero particolari situazioni personali), ai
sensi dell’art 43 TUEL, del Regolamento UE 2016/679 e del D.lgs. 679/2016 così
come novellato dal D.lgs. 101 del 2018”. Ciò, tenuto anche conto dell’art. 2,
co. 3, del Regolamento per la disciplina del Diritto di accesso dei Consiglieri
Comunali, approvato con Delibera del Consiglio comunale di Ruoti n. 52 del
28/11/2009, che sottrae al diritto di accesso dei consiglieri comunali “(…)
documenti ed atti contenenti dati riservati e sensibili”.
Il Tar si è limitato alla consolidata
giurisprudenza che valorizza l’insindacabilità del diritto del consigliere,
senza minimamente esaminare il problema, in questo caso particolarmente
rilevante, dell’utilità del dato rispetto all’espletamento del mandato.
Le informazioni fornite dal comune
sono da considerare certamente valide pienamente ai fini dell’espletamento del
mandato del consigliere, visto che la sua diretta conoscenza dei nominativi dei
richiedenti non determina alcun elemento di arricchimento delle proprie
funzioni e competenze, né può far scattare nessun’azione di controllo
gestionale, per le ragioni evidenziate sopra.
Per quanto il Tar enfatizzi l’obbligo
del consigliere di rispettare il segreto, disposto dall’articolo 43, comma 2,
del d.lgs 267/2000, in ogni caso la diffusione del dato personale oggetto della
presente analisi implica un trattamento che si rivela eccessivo ed illecito,
proprio perché l’apprensione dei singoli nominativi dei richiedenti non ha
alcuna specifica e diretta utilità per l’esercizio del mandato del consigliere.
Certo, l’arresto giurisprudenziale,
per quanto supinamente appiattito su una giurisprudenza radicata, che però non
ha mai avuto, prima, occasione di confrontarsi sol tema nuovo della gestione
dei buoni spesa, fornisce motivo e modo alle amministrazioni comunali per
permettere diffusamente l’accesso ai dati personali dei beneficiari dei buoni
spesa da parte dei consiglieri. E il Garante stesso ovviamente non nasconde che
il Tar abbia ogni possibilità di non condividere la sottrazione all’accesso
richiesto dal consigliere.
Tuttavia, la posizione del Tar
Basilicata appare fondamentalmente erronea e non condivisibile, perché non ha
assolutamente affrontato, come dovuto, il rapporto tra esercizio del mandato
consiliare ed i poteri del consigliere, e la gravissima menomazione del diritto
alla riservatezza di persone in gran parte dei casi costrette ad una richiesta
di sussidi da una grave ed imprevista contingenza pandemica, esposti così ad un’ulteriore
estensione della conoscenza di uno status economico e sociale che certo non è
meritevole di così larga diffusione. Anche perché, come è noto, non vi è modo
alcun o di verificare il pieno rispetto da parte dei consiglieri dell’obbligo
del segreto d’ufficio.
Non è, comunque, da dimenticare
che un sindacato giurisdizionale spetta anche ai cittadini: ed è di maggiore
delicatezza, visto che essi possono ricorrere al giudice civile per il risarcimento
del danno, nonché al giudice penale per la violazione delle regole sulla divulgazione
dei dati.
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