La regolamentite è una grave malattia che affligge da sempre gli enti locali. E’ la compulsione a produrre continuamente regolamenti su qualsiasi argomento dello scibile umano, a prescindere dal legittimo esercizio della competenza per materia, ma soprattutto, dalla concreta utilità.
Moltissimi comuni regolamentano
davvero quasi solo per regolamentare, un’attività fine a se stessa, spesso
mossa dalla convinzione di molti segretari e funzionari che determinate disposizioni
normative:
a)
possano produrre effetti solo in quanto “recepite”
con un regolamento;
b)
possano, comunque, essere oggetto di una diversa
disciplina, in omaggio alla equiordinazione degli enti locali nell’ambito degli
enti che compongono la Repubblica.
Si tratta di due conclusioni
false ed erronee. Nessuna legge dell’ordinamento italiano ha bisogno di alcun
atto di recepimento per essere applicata all’ordinamento interno, con la sola
eccezione dei casi degli statuti speciali delle regioni, laddove attribuiscano
alla potestà legislativa esclusiva di queste determinate materie.
Il “recepimento” è attività
propria di ordinamenti “indipendenti”, i quali, per propria autonoma
determinazione, stabiliscono liberamente di recepire, acquisire, quindi nel
proprio ordinamento, atti normativi di altri ordinamenti. Il recepimento
avviene, generalmente, per effetto di adesione a trattati internazionali, che
costruiscono la cornice nell’ambito della quale l’organismo internazionale
produce atti, soggetti a successivo recepimento, affinchè siano produttivi di
effetti negli specifici ordinamenti degli Stati aderenti ai trattati. E’ esattamente
il meccanismo fissato dalle regole del Trattato UE, sia pure con le sfumature
particolari che prevedono un recepimento vero e proprio per i regolamenti, ed
un recepimento “forzato” nel caso delle Direttive, che spesso sono autoapplicative
decorso un determinato lasso di tempo per il recepimento.
Ora, la legge italiana trova
efficacia ed ingresso nell’operatività anche dell’ordinamento locale immediatamente
(sia nel senso di “subito”, sia nel senso di assenza di mediazione). Non
occorre, quindi alcun atto di recepimento.
Allo stesso modo, i regolamenti
locali non dispongono di alcun potere di modificare le previsioni sostanziali
delle norme.
La riforma del Titolo V della
Costituzione ha spinto, in questi anni, molta parte della dottrina ad
enfatizzare oltre ogni misura la previsione espressa della potestà
regolamentare contenuta nell’articolo 117, comma 6, della Costituzione stessa.
Si è parlato dell’attivazione di
una potestà regolamentare propria, rispetto alla quale le previsioni normative
sarebbero da considerare “cedevoli”. Una ricostruzione mai accolta dalla
giurisprudenza[1],
secondo la quale i regolamenti locali sono rimasti subordinati alle leggi ed
agli statuti, potendo dipanare il proprio potere normativo solo entro i limiti
consentiti dalla normativa.
In effetti, la dottrina incline
a ritenere che i regolamenti locali possano aver ricevuto dalla sciaguratissima
riforma del Titolo V una potestà normativa di fatto concorrente e riservata, esagera
vistosamente i contenuti del citato comma 6 dell’articolo 117 della
Costituzione. Leggiamone il testo: “La potestà regolamentare spetta allo
Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni. La
potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia. I Comuni, le
Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla
disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro
attribuite”.
Come si nota, la disposizione
non autorizza in alcun modo a ritenere che gli enti locali dispongano di una
propria potestà regolamentare riservata e capace di far retrocedere la legge,
nella disciplina sostanziale. I regolamenti restano, come inevitabile, soggetti
al principio di legalità. Lo spazio che la Costituzione riconosce loro è solo
quello organizzativo: i regolamenti non possono né modificare i contenuti delle
norme o derogarli (a meno che non siano le leggi a consentirlo in via esplicita),
né integrarne i contenuti sostanziali; possono esclusivamente occuparsi di come
calare nell’organizzazione le attività necessarie ad attuare le previsioni
normativi. La Costituzione si è preoccupata di consentire alla variegatissima
organizzazione, anche solo dimensionale, degli enti locali di specificare come
attivare al proprio interno le strutture organizzative necessarie per attuare
le norme. Non di fissare contenuti ulteriori, alternativi o derogatori alle
leggi.
Preso atto di questo, risulta
assai evidente che la “regolamentite”, l’eccesso regolamentare costituisce un
appesantimento normativo ed organizzativo, lungi dall’essere un corretto
strumento d’esercizio delle funzioni.
Per altro, moltissime volte l’adozione
dei regolamenti si riduce alla ripetizione dei contenuti delle norme;
ripetizione che, però, non è pedissequa. Qui e là gli enti introducono proprio
quelle superfetazioni o deroghe, inammissibili, che poi espongono la concreta
gestione a una serie di problemi di legittimità. La norma regolamentare
difforme dalla legge andrebbe disapplicata, ma è chiaro che chi abbia interesse
all’applicazione del regolamento in quanto contenga una previsione a sé favorevole
potrebbe impugnare il provvedimento che lo disapplica.
La “regolamentite” è un non
senso giuridico, una fonte di complicazione e di contenzioso senza pari, senza
che, purtroppo, vi possa essere un freno esterno alla produzione di regolamenti
inutili e dannosi, a causa della sventurata abolizione dei controlli preventivi
esterni di legittimità.
Un esempio di regolamento inutile
e controproducente, ma larghissimamente presente ed utilizzato, è quello posto
a disciplinare i procedimenti disciplinari.
Si tratta di uno sforzo
normativo totalmente privo di senso ed utilità, buono solo a creare spunti per
il contenzioso.
Gli enti locali sono
convintissimi dell’opportunità di una disciplina interna per le sanzioni
disciplinari.
Ma, producendo l’inutile
regolamento non si rendono conto di dare vita ad una norma che risulta del
tutto illegittima per totale carenza di potere.
Un regolamento locale per la disciplina
del procedimento disciplinare, infatti, va in frontale rotta di collisione con l’articolo
40, comma 1, secondo periodo, del d.lgs 165/2001, ai sensi del quale “Nelle
materie relative alle sanzioni disciplinari, alla valutazione delle
prestazioni ai fini della corresponsione del trattamento accessorio, della
mobilità, la contrattazione collettiva è consentita nei limiti previsti
dalle norme di legge”.
Tale norma pone contestualmente
due distinte riserve:
1.
una di legge: la disposizione evidenzia che le
materie elencate sono attribuite in via principale alla competenza normativa
dello Stato, poiché si tratta della disciplina del rapporto di lavoro, sorretta
dal codice civile;
2.
l’altra, di contratto nazionale collettivo: la
norma, cioè, consente alla legge di disporre di se stessa ed autolimitarsi, per
concedere spazi di normazione ad altra fonte, cioè i contratti collettivi
nazionali di lavoro.
Come è facile notare, la
disciplina non contempla nel modo più radicale i regolamenti quali fonti del
procedimento disciplinare.
E, d’altra parte, l’articolo 55,
comma 1, del medesimo d.lgs 165/2001 stabilisce che “Le disposizioni del
presente articolo e di quelli seguenti, fino all'articolo 55-octies,
costituiscono norme imperative, ai sensi e per gli effetti degli articoli
1339 e 1419, secondo comma, del codice civile”. Si tratta di norme
inderogabili da parte dei contratti e, a maggior ragione, dai regolamenti, per
nulla considerati fonti di produzione e regolazione del procedimento disciplinare.
Del resto, questo assetto è
coerente con le previsioni dell’articolo 2, comma 2, sempre del d.lgs 165/2001,
posto a dettare in generale le regole sulle fonti in merito al rapporto di
lavoro pubblico: “I rapporti di lavoro dei dipendenti delle
amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I,
titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro
subordinato nell'impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel
presente decreto, che costituiscono disposizioni a carattere imperativo.
Eventuali disposizioni di legge, regolamento o statuto, che introducano o che
abbiano introdotto discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia
limitata ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche, o a categorie di essi,
possono essere derogate nelle materie affidate alla contrattazione collettiva
ai sensi dell’articolo 40, comma 1, e nel rispetto dei principi stabiliti dal
presente decreto, da successivi contratti o accordi collettivi nazionali e, per
la parte derogata, non sono ulteriormente applicabili”.
Non solo la norma qui sopra citata
individua le fonti del rapporto di lavoro esclusivamente in codice civile,
leggi sul rapporto di lavoro nell’impresa, il tutto, in quanto compatibile con
le norme di diritto speciale contenute nel d.lgs 165/2001 stesso; espressamente
indica che statuti e regolamenti non hanno alcuna potestà e competenza ad
ingerirsi nella materia.
L’unico limitatissimo spazio
occupabile dai regolamenti locali riguarda la costituzione ed organizzazione
dell’ufficio per i procedimenti disciplinari. Infatti, l’articolo 55-bis, comma
2, del d.lgs 165/2001 dispone che “Ciascuna amministrazione, secondo il
proprio ordinamento e nell'ambito della propria organizzazione, individua
l'ufficio per i procedimenti disciplinari competente per le infrazioni punibili
con sanzione superiore al rimprovero verbale e ne attribuisce la titolarità e
responsabilità”.
In applicazione, quindi, della
potestà regolamentare prevista dall’articolo 117, comma 6, della Costituzione,
gli enti locali possono adottare non un regolamento sui procedimenti
disciplinari, la cui disciplina è integralmente esaurita dalla legge e dai
contratti collettivi nazionali di lavoro, bensì un regolamento che abbia ad
oggetto costituzione e funzionamento dell’ufficio per i procedimenti
disciplinari e nulla più. Il successivo comma 3 del citato articolo 55-bis
permette, inoltre, agli enti di convenzionarsi per gestire in via unificata l’ufficio,
senza maggiori oneri per la finanza pubblica. Il che dimostra che la diffusa
abitudine da parte degli enti “capofila” di uffici per i procedimenti disciplinari
convenzionati di chiedere agli altri enti aderenti un fee per i
procedimenti gestiti è illegittima e fonte di responsabilità amministrative
quando non anche penali.
[1]
Per un approfondimento sul tema: “LE FONTI DEGLI ENTI LOCALI TRA DOTTRINA E
GIURISPRUDENZA (A QUASI UN DECENNIO DALLA RIFORMA DEL TITOLO V), di Cesare
Mainardis, in http://www.forumcostituzionale.it/wordpress/images/stories/pdf/documenti_forum/paper/0243_mainardis.pdf.
Il problema vero è che "quasi" nessuno conosce i principi della gerarchia delle fonti normative e tanto meno la differenza tra regolamenti attuativi e regolamenti esecutivi...
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