domenica 4 aprile 2021

Allungare la durata dei contratti a termine e il numero dei rinnovi non aiuta alla stabilizzazione dei rapporti di lavoro


Sul mercato del lavoro si insiste su l’andi-rivieni di idee finalizzate al rilancio che non avviene mai, perpetuando l’errore della prospettiva secondo la quale sarebbero i contratti a condizionare le assunzioni, invece delle condizioni economiche complessive del Paese.

Sui quotidiani da qualche giorno si rilancia l’idea di tornare indietro sul “decreto dignità” e, in sostanza, tornare alla possibilità di 5 rinnovi di contratti a termine entro un arco di tempo di 36 mesi. Il tutto, sul presupposto che ciò favorirebbe:

1.        la conservazione dell’occupazione

2.        la sua stabilizzazione, poiché il contratto a termine sarebbe la “porta di ingresso” verso il contratto a tempo indeterminato.

Entrambe le affermazioni, tuttavia, non appaiono suffragate dai numeri, proprio perché condizionate dal presupposto erroneo che le disposizioni giuridiche sui contratti siano una leva per l’incremento dell’occupazione.

In quanto alla circostanza che allungando la durata massima del contratto a termine a 36 mesi ed aumentando i possibili rinnovi da 4 a 5, non risulta per nulla dimostrabile che ciò consentirebbe al lavoratore a termine di mantenere un po’ più a lungo il lavoro (comunque destinato a terminare).

La premessa maggiore, falsa, dalla quale si parte è che la crisi pandemica ha colpito prevalentemente il contratto di lavoro a tempo determinato. Infatti, il contratto di lavoro a tempo indeterminato è rimasto protetto dal blocco dei licenziamenti, il contratto a termine è rimasto esposto allo spirare appunto del termine e questo avrebbe favorito la perdita dei posti di lavoro, specie in assenza della quinta possibilità di rinnovo.

Si tratta, però, come detto, di una visione falsata. Anche se fosse stato possibile per le aziende rinnovare i contratti a termine 10 o 100 volte, in presenza di una crisi che rendeva insostenibile la sopportazione dei costi del personale, comunque i contratti a termine non sarebbero stati rinnovati, a meno che la prestazione lavorativa così regolata non risultasse assolutamente indispensabile. Il problema non è certo la quantità di rinnovi possibili, ma appunto la fissazione di un termine: è agevole comprendere che se il termine del contratto scada nel corso di una crisi, difficilmente quel contratto può essere rinnovato, né, tanto meno trasformato in contratto a tempo indeterminato.

Poi, pensare che l’allungamento del periodo entro il quale sono possibili una serie di rinnovi favorisca la stabilizzazione è un’idea del tutto smentita dalla realtà cruda dei numeri. Si aveva già avuto modo di evidenziarlo qui, con riferimento a dati parziali del 2018.

Le cose non sono cambiate di molto con l’andar del tempo. Il numero delle assunzioni a tempo indeterminato dovute a trasformazioni di contratti a tempo determinato è sempre non oltre un quarto del totale delle assunzioni a tempo indeterminato dell’anno di riferimento (i dati sono ovviamente disomogenei: le trasformazioni si riferiscono a contratti a termine attivati mesi prima delle assunzioni a termine dell’anno considerato):

Assunzioni a t.d.

2018

2019

2020

3.462.698

3.223.833

2.216.412

trasformazioni

535.700

712.892

553.193

Trasformazioni/assunzioni a t.d.

15,47%

22,11%

24,96%

Dunque, l’affermazione che il contratto a termine rappresenti davvero il sistema generalizzato per la stabilizzazione successiva del rapporto di lavoro appare sicuramente forzata.

Per altro, appare necessaria un’altra considerazione. La convinzione che il rapporto di lavoro debba passare necessariamente per una fase prima “flessibile” e poi “stabile” travisa di molto la funzione del rapporto di lavoro a tempo determinato. Esso, in effetti, viene visto ed utilizzato molto di frequente come una “prova lunga” (talvolta allungata ulteriormente da precedenti tirocini e somministrazioni). Il che travisa del tutto la funzione dell’apposizione del termine ed evidenzia le vere difficoltà sottese al dibattito sulle “causali”, le cause giustificatrici dell’apposizione del termine.

Il tempo determinato dovrebbe servire per far fronte ad esigenze oggettive dell’azienda (picchi di lavoro, avviamenti di attività, commesse a loro volta a tempo determinato, eccetera) e non ad incidere soggettivamente sul lavoratore. Non dovrebbe accadere che un fabbisogno oggettivamente stabile venga soddisfatto con contratti, invece, flessibili, allo scopo di allungare e di molto il percorso di ingresso nei ruoli aziendali.

C’è, poi, l’elemento importantissimo della durata effettiva del rapporto di lavoro, per capire quante chance dia effettivamente il tempo determinato per ottenere una stabilizzazione.

Riportiamo la seguente tabella, tratta dal Rapporto annuale sulle Comunicazioni Obbligatorie 2019 del Ministero del lavoro, che evidenzia la durata effettiva dei rapporti di lavoro e concentriamo l’attenzione sul 2018:

 

Tabella 4.4 – Rapporti di lavoro cessati per durata effettiva del rapporto di lavoro (valori assoluti, composizioni

 

percentuali e variazioni percentuali). Anni 2016, 2017 e 2018

DURATA EFFETTIVA DEL RAPPORTO DI

Valori assoluti

Composizione percentuale

 

LAVORO (GIORNI)

2016

2017

2018

2016

2017

2018

 

Fino a 30

3.051.778

3.533.403

3.808.686

33,5

34,6

34,6

 

1

1.128.634

1.293.503

1.408.937

12,4

12,7

12,8

 

2-3

429.120

539.320

594.541

4,7

5,3

5,4

 

4-30

1.494.024

1.700.580

1.805.208

16,4

16,6

16,4

 

31-90

1.639.142

1.882.167

1.953.501

18,0

18,4

17,7

 

91-365

2.785.786

3.090.615

3.375.084

30,5

30,2

30,7

 

366 e oltre

1.642.820

1.719.132

1.870.639

18,0

16,8

17,0

 

Totale

9.119.526    10.225.317

11.007.910

100,0

100,0

100,0

 

Fonte: Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali - Sistema Informativo Statistico delle Comunicazioni Obbligatorie.

 

 

Come si nota, ben il 34% dei rapporti di lavoro attivati dura solo 1 mese (e di questi, il 12,8% dura solo 1 giorno); il 52,3% non supera il 3 mesi, l’80% si ferma ad un anno.

Sempre il medesimo Rapporto, però, evidenzia che le maggiori possibilità di trasformazione si anno per i contratti a termine di durata superiore ai tre mesi.

 

FASCE DURATA PRIMA DELLA TRASFORMAZIONE

Valori assoluti

Composizione percentuale

(GIORNI)

2016

2017

2018

 

2016

2017

2018

Fino a 30

22.590

24.630

27.474

 

6,8

8,1

4,9

31-90

 41.781

38.622

52.981

12,7

12,8

9,4

91-365

195.169

162.012

280.669

59,1

53,5

49,7

366 e oltre

 70.706

77.488

203.284

21,4

25,6

36,0

Totale

330.246

302.752

564.408

 

100,0

100,0

100,0

Fonte: Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali - Sistema Informativo Statistico delle Comunicazioni Obbligatorie.

 

Contratti che, costituiscono come visto sopra, il 47% e poco più del totale. Ma, come si è visto, tendenzialmente le trasformazioni interessano non oltre un quarto dei contratti a termine attivati: dunque le chance di ingresso definitivo e stabile in un’azienda tramite il lavoro a tempo determinato non risultano, come si dimostra, per nulla ampie.

Non pare, quindi, che l’allungamento del periodo entro il quale è possibile effettuare i rinnovi dei contratti a tempo determinato, né, tanto meno, l’aumento dei rinnovi costituisca un metodo efficace di stabilizzazione del lavoro, specie in periodi di crisi: è da ricordare che la pandemia ha accentuato, infatti, una crisi dell’occupazione di durata molto maggiore negli anni.

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