Sul mercato del lavoro si
insiste su l’andi-rivieni di idee finalizzate al rilancio che non avviene mai, perpetuando
l’errore della prospettiva secondo la quale sarebbero i contratti a
condizionare le assunzioni, invece delle condizioni economiche complessive del
Paese.
Sui quotidiani da qualche giorno
si rilancia l’idea di tornare indietro sul “decreto dignità” e, in sostanza,
tornare alla possibilità di 5 rinnovi di contratti a termine entro un arco di
tempo di 36 mesi. Il tutto, sul presupposto che ciò favorirebbe:
1.
la conservazione dell’occupazione
2.
la sua stabilizzazione, poiché il contratto a
termine sarebbe la “porta di ingresso” verso il contratto a tempo
indeterminato.
Entrambe le affermazioni, tuttavia, non appaiono suffragate dai numeri, proprio perché condizionate dal presupposto erroneo che le disposizioni giuridiche sui contratti siano una leva per l’incremento dell’occupazione.
In quanto alla circostanza che allungando
la durata massima del contratto a termine a 36 mesi ed aumentando i possibili
rinnovi da 4 a 5, non risulta per nulla dimostrabile che ciò consentirebbe al lavoratore
a termine di mantenere un po’ più a lungo il lavoro (comunque destinato a terminare).
La premessa maggiore, falsa,
dalla quale si parte è che la crisi pandemica ha colpito prevalentemente il
contratto di lavoro a tempo determinato. Infatti, il contratto di lavoro a
tempo indeterminato è rimasto protetto dal blocco dei licenziamenti, il
contratto a termine è rimasto esposto allo spirare appunto del termine e questo
avrebbe favorito la perdita dei posti di lavoro, specie in assenza della quinta
possibilità di rinnovo.
Si tratta, però, come detto, di
una visione falsata. Anche se fosse stato possibile per le aziende rinnovare i
contratti a termine 10 o 100 volte, in presenza di una crisi che rendeva
insostenibile la sopportazione dei costi del personale, comunque i contratti a
termine non sarebbero stati rinnovati, a meno che la prestazione lavorativa
così regolata non risultasse assolutamente indispensabile. Il problema non è
certo la quantità di rinnovi possibili, ma appunto la fissazione di un termine:
è agevole comprendere che se il termine del contratto scada nel corso di una
crisi, difficilmente quel contratto può essere rinnovato, né, tanto meno
trasformato in contratto a tempo indeterminato.
Poi, pensare che l’allungamento
del periodo entro il quale sono possibili una serie di rinnovi favorisca la
stabilizzazione è un’idea del tutto smentita dalla realtà cruda dei numeri. Si
aveva già avuto modo di evidenziarlo qui,
con riferimento a dati parziali del 2018.
Le cose non sono cambiate di
molto con l’andar del tempo. Il numero delle assunzioni a tempo indeterminato
dovute a trasformazioni di contratti a tempo determinato è sempre non oltre un
quarto del totale delle assunzioni a tempo indeterminato dell’anno di
riferimento (i dati sono ovviamente disomogenei: le trasformazioni si
riferiscono a contratti a termine attivati mesi prima delle assunzioni a
termine dell’anno considerato):
Assunzioni a t.d. |
||
2018 |
2019 |
2020 |
3.462.698 |
3.223.833 |
2.216.412 |
trasformazioni |
||
535.700 |
712.892 |
553.193 |
Trasformazioni/assunzioni a t.d. |
||
15,47% |
22,11% |
24,96% |
Dunque, l’affermazione che il
contratto a termine rappresenti davvero il sistema generalizzato per la
stabilizzazione successiva del rapporto di lavoro appare sicuramente forzata.
Per altro, appare necessaria un’altra
considerazione. La convinzione che il rapporto di lavoro debba passare
necessariamente per una fase prima “flessibile” e poi “stabile” travisa di
molto la funzione del rapporto di lavoro a tempo determinato. Esso, in effetti,
viene visto ed utilizzato molto di frequente come una “prova lunga” (talvolta
allungata ulteriormente da precedenti tirocini e somministrazioni). Il che
travisa del tutto la funzione dell’apposizione del termine ed evidenzia le vere
difficoltà sottese al dibattito sulle “causali”, le cause giustificatrici dell’apposizione
del termine.
Il tempo determinato dovrebbe
servire per far fronte ad esigenze oggettive dell’azienda (picchi di lavoro, avviamenti
di attività, commesse a loro volta a tempo determinato, eccetera) e non ad incidere
soggettivamente sul lavoratore. Non dovrebbe accadere che un fabbisogno
oggettivamente stabile venga soddisfatto con contratti, invece, flessibili,
allo scopo di allungare e di molto il percorso di ingresso nei ruoli aziendali.
C’è, poi, l’elemento importantissimo
della durata effettiva del rapporto di lavoro, per capire quante chance dia
effettivamente il tempo determinato per ottenere una stabilizzazione.
Riportiamo la seguente tabella,
tratta dal Rapporto
annuale sulle Comunicazioni Obbligatorie 2019 del Ministero del lavoro, che
evidenzia la durata effettiva dei rapporti di lavoro e concentriamo l’attenzione
sul 2018:
Tabella
4.4 – Rapporti di lavoro cessati per durata effettiva del rapporto di lavoro
(valori assoluti, composizioni |
|
||||||||||||||||
percentuali
e variazioni percentuali). Anni 2016, 2017 e 2018 |
|||||||||||||||||
DURATA EFFETTIVA DEL RAPPORTO DI |
Valori assoluti |
Composizione percentuale |
|
||||||||||||||
LAVORO (GIORNI) |
2016 |
2017 |
2018 |
2016 |
2017 |
2018 |
|
||||||||||
Fino a 30 |
3.051.778 |
3.533.403 |
3.808.686 |
33,5 |
34,6 |
34,6 |
|
||||||||||
1 |
1.128.634 |
1.293.503 |
1.408.937 |
12,4 |
12,7 |
12,8 |
|
||||||||||
2-3 |
429.120 |
539.320 |
594.541 |
4,7 |
5,3 |
5,4 |
|
||||||||||
4-30 |
1.494.024 |
1.700.580 |
1.805.208 |
16,4 |
16,6 |
16,4 |
|
||||||||||
31-90 |
1.639.142 |
1.882.167 |
1.953.501 |
18,0 |
18,4 |
17,7 |
|
||||||||||
91-365 |
2.785.786 |
3.090.615 |
3.375.084 |
30,5 |
30,2 |
30,7 |
|
||||||||||
366 e
oltre |
1.642.820 |
1.719.132 |
1.870.639 |
18,0 |
16,8 |
17,0 |
|
||||||||||
Totale |
9.119.526
10.225.317 |
11.007.910 |
100,0 |
100,0 |
100,0 |
|
|||||||||||
Fonte:
Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali - Sistema Informativo
Statistico delle Comunicazioni Obbligatorie. |
|
||||||||||||||||
Come si nota, ben il 34% dei
rapporti di lavoro attivati dura solo 1 mese (e di questi, il 12,8% dura solo 1
giorno); il 52,3% non supera il 3 mesi, l’80% si ferma ad un anno.
Sempre il medesimo Rapporto,
però, evidenzia che le maggiori possibilità di trasformazione si anno per i
contratti a termine di durata superiore ai tre mesi.
FASCE
DURATA PRIMA DELLA TRASFORMAZIONE |
Valori assoluti |
Composizione percentuale |
|||||
(GIORNI) |
2016 |
2017 |
2018 |
|
2016 |
2017 |
2018 |
Fino a 30 |
22.590 |
24.630 |
27.474 |
|
6,8 |
8,1 |
4,9 |
31-90 |
41.781 |
38.622 |
52.981 |
12,7 |
12,8 |
9,4 |
|
91-365 |
195.169 |
162.012 |
280.669 |
59,1 |
53,5 |
49,7 |
|
366 e
oltre |
70.706 |
77.488 |
203.284 |
21,4 |
25,6 |
36,0 |
|
Totale |
330.246 |
302.752 |
564.408 |
|
100,0 |
100,0 |
100,0 |
Fonte:
Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali - Sistema Informativo Statistico
delle Comunicazioni Obbligatorie.
Contratti che, costituiscono come
visto sopra, il 47% e poco più del totale. Ma, come si è visto, tendenzialmente
le trasformazioni interessano non oltre un quarto dei contratti a termine
attivati: dunque le chance di ingresso definitivo e stabile in un’azienda
tramite il lavoro a tempo determinato non risultano, come si dimostra, per nulla
ampie.
Non pare, quindi, che l’allungamento del periodo entro il quale è possibile effettuare i rinnovi dei contratti a tempo determinato, né, tanto meno, l’aumento dei rinnovi costituisca un metodo efficace di stabilizzazione del lavoro, specie in periodi di crisi: è da ricordare che la pandemia ha accentuato, infatti, una crisi dell’occupazione di durata molto maggiore negli anni.
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