Una lettura sbagliata del lavoro agile, cagionata anche da una normativa a sua volta sbagliata, ha posto in essere nei mesi scorsi una sorta di inspiegabile campagna contraria in sè, al lavoro agile nella PA.
Una crociata i cui cavalieri rialzano la testa, dopo che il Ministro Brunetta ha affermato quanto di più ovvio non si poteva: che, cioè, lo smart working sarà possibile, superata l'emergenza, solo a condizione che migliori l'efficienza sul lavoro. Niente che non sia, per altro, già previsto dall'articolo 263 del d.l. 34/2020, convertito in legge 77/2020.
Tra questi cavalieri eccelle Giuseppe Colombo, che per l'Huffington Post pubblica l'articolo titolato "Viva la rottamazione dello smart working per quote". Un'analisi, in linea con le indicazioni dell'inquilino di Palazzo Vidoni, che contiene una considerazione giusta, ma una direttrice di fondo sbagliata.
Condivisibile è l'apprezzamento per l'indicazione data dal Ministro Brunetta di chiudere al più presto con la predeterminazione di quote percentuali di personale da collocare in smart working.
Chi scrive ha sempre criticato l'idea del POLA, ennesimo atto di programmazione nelle amministrazioni pubbliche ormai invase da queste attività e anche l'idea che appunto siano da prevedere soglie minime di lavoratori in lavoro agile, cioè il 60% dei dipendenti addetti alle attività compatibili con questa modalità organizzativa.
Però, bisogna raccontare le cose come stanno davvero. Il Colombo risponde all'ex Ministro Dadone, che ha ribattuto all'attuale collega di Governo insediato a Palazzo Vidoni, affermando che le quote non sono obbligatore. Giuseppe Colombo, quindi, osserva: "I bugiardi sarebbero quelli che dicono che lo smart working nella Pa non prevede percentuali del futuro. Basterebbe rileggere la legge 77/2020, quella che ha convertito il decreto Rilancio. Basta scorrere il testo per leggere: “Il Pola individua le modalità attuative del lavoro agile prevedendo, per le attività che possono essere svolte in modalità agile, che almeno il 60 per cento dei dipendenti possa avvalersene”".
Ma, la norma prosegue. Ed afferma che laddove il pola non sia approvato, va in lavoro agile il 30% dei dipendenti che ne fanno richiesta.
Dunque, se da un lato è vero che inopportunamente la norma ha reso meccanico il sistema con la previsione di quote che è meglio eliminare, lasciando a ciascuna PA la valutazione organizzativa interna su quanto personale da collocare in lavoro agile, dall'altro lato il 60% non è per nulla obbligatorio, come non è obbligatorio nemmeno il POLA.
Meglio, comunque, eliminarlo del tutto e, appunto, disporre norme che lascino alla valutazione di ciascun ente determinare se e a che condizioni attivare il lavoro agile.
La prospettiva risulta, tuttavia, del tutto fuori strada se l'esultanza per la controtendenza rispetto al lavoro agile si riconnetta all'altra affermazione del Ministro Brunetta, puntualmente riportata dal Colombo: "E per spiegare lo scenario post emergenza, il ministro fa un esempio: una teleconferenza si può fare anche da casa mentre uno sportello al pubblico non può restare vuoto con appeso sopra il cartello “chiuso per smart working”".
L'errore di impostazione consiste nel ritenere che la PA, che pure si vorrebbe maggiormente moderna e funzionale, debba necessariamente funzionare con "sportelli" aperti al pubblico, magari presidiati da impiegati con le mezze maniche, dotati di carta carbone, penna d'oca e calamaio, intenti a timbrare e a recitare periodicamente "avanti un altro!".
Lo smart working ha una sua chiara utilità dell'organizzazione del lavoro, da un lato, e della vita delle città, dall'altro.
Il lavoro agile dovrebbe essere visto come quel motore che consenta proprio di eliminare per sempre lo "sportello". Lo scopo del lavoro agile non è, ovviamente, far "restare a casa" i dipendenti, ma migliorare l'organizzazione, renderne evidenti i risultati e, soprattutto, semplificare la vita ai cittadini.
Oggi, chi va più allo "sportello" di una banca? Facciamo tutto da remoto con l'home banking. Niente più file, attese, permessi dal lavoro. I benefici sono molto evidenti.
Dovrebbe essere ambizione della PA permettere ai cittadini una home administration, che eviti loro di "andare allo sportello", prendere mezzi pubblici o privati, cercare parcheggio, mendicare permessi dal lavoro, fare file ed attese, nella speranza di essere presto colui che possa giovarsi della chiamata "avanti un altro!".
Lo smart working presuppone la tanto strombazzata "reingegnerizzazione dei processi" e ne sarebbe la conseguenza, con tutti i vantaggi in termini di logistica, consumi per utenze, inquinamento ed organizzazione.
Ambire ad estendere il lavoro agile, significa ambire a rendere servizi più efficienti e diretti per i cittadini.
Lo smart working forzato ha fatto "scoprire" a molte PA riottose quante attività era possibile organizzare da remoto, quante riunioni si potevano gestire in video conferenza con risparmi enormi di tempo e costi di missioni, quanti risultati operativi era possibile monitorare con strumenti digitali, quante carte, timbri e firme era possibile sostituire con la firma digitale e le piattaforme informatiche. Tutte cose previste da anni dal d.lgs 82/2005 e dormienti, risvegliate d'improvviso dal Covid.
Esultare, quindi, per una "svolta" che rischi di fermare le lancette dell'orologio e riportare le PA nel sonno che per anni ha reso il Cad e la modernizzazione delle strutture e dell'organizzazione un sogno di quel sonno, non pare oggettivamente una buona idea.
Nessun commento:
Posta un commento