Norma peggiore dell'articolo 3, comma 7, del d.l. 80/2021 è difficile scorgerla. Si tratta della sciagurata eliminazione del "previo assenso dell'amministrazione di appartenenza" ai fini della mobilità o "passaggio diretto".
Abbiamo da subito rilevato i gravissimi problemi scatenati da questa scelta legislativa esiziale, qui e qui. Ma, a ben vedere, le questioni interpretative ed applicative sono ulteriori e diverse ed è necessario affrontarle.
Leggiamo, allo scopo, il testo dell'articolo 30, comma 1, del d.lgs 165/2001, come purtroppo novellato dal d.l. 80/2021:
"Le amministrazioni possono ricoprire posti vacanti in organico
mediante cessione del contratto di lavoro di dipendenti di cui
all'articolo 2, comma 2, appartenenti a una qualifica corrispondente
e in servizio presso altre amministrazioni, che facciano domanda di
trasferimento, previo assenso dell'amministrazione di
appartenenza. E’ richiesto il previo assenso
dell'amministrazione di appartenenza nel caso in cui si tratti di
posizioni motivatamente infungibili, di personale assunto da meno di
tre anni o qualora la suddetta amministrazione di appartenenza abbia
una carenza di organico superiore al 20 per cento nella qualifica
corrispondente a quella del richiedente. E' fatta salva la
possibilità di differire, per motivate esigenze
organizzative, il passaggio diretto del dipendente fino ad un massimo
di sessanta giorni dalla ricezione dell'istanza di
passaggio diretto ad altra amministrazione. Le
disposizioni di cui ai periodi secondo e terzo non si applicano al
personale delle aziende e degli enti del servizio sanitario
nazionale, per i quali è comunque
richiesto il previo assenso dell'amministrazione di appartenenza. Al
personale della scuola continuano ad applicarsi le disposizioni
vigenti in materia. Le amministrazioni, fissando
preventivamente i requisiti e le competenze professionali richieste,
pubblicano sul proprio sito istituzionale, per un periodo pari almeno
a trenta giorni, un bando in cui sono indicati i posti che intendono
ricoprire attraverso passaggio diretto di personale di altre
amministrazioni, con indicazione dei requisiti da possedere. In via
sperimentale e fino all'introduzione di nuove procedure per la
determinazione dei fabbisogni standard di personale delle
amministrazioni pubbliche, per il trasferimento tra le sedi centrali
di differenti ministeri, agenzie ed enti pubblici non economici
nazionali non è richiesto l'assenso dell'amministrazione di
appartenenza, la quale dispone il trasferimento entro due mesi dalla
richiesta dell'amministrazione di destinazione, fatti salvi i termini
per il preavviso e a condizione che l'amministrazione di destinazione
abbia una percentuale di posti vacanti superiore all'amministrazione
di appartenenza. Per agevolare le procedure di mobilità la
Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della funzione
pubblica istituisce un portale finalizzato all'incontro tra la
domanda e l'offerta di mobilità".
Le questioni che questa novella, frettolosa e mal congegnata, pone sono moltissime e rilevanti, sostanzialmente prive di soluzioni utili.
In via di premessa, è necessario evidenziare quale sia la controprova di quanto perversa sia questa norma: l'esplicita esclusione dalla cancellazione del nulla osta dei comparti sanità e istruzione. Se la "liberalizzazione" della mobilità non determinasse problemi tremendi per l'organizzazione e l'efficienza, non sarebbe evidentemente stata inserita una norma che lascia fuori dalla riforma quasi la metà del personale pubblico (600.000 circa sono i dipendenti della sanità, 1.000.000 circa quelli della scuola). Una mobilità senza nulla osta spopolerebbe dall'oggi a domani gli organici dei docenti delle scuole del Nord, tanti sono quelli che provengono dal Sud; pericolo simile si determinerebbe anche nella sanità.
Per quanto riguarda gli altri comparti, il Legislatore ha evidentemente sottovalutato il fenomeno, che pure durante il lock down era emerso con tutta la sua forza, tanto che si era parlato si southworking. La presenza di moltissimo personale proveniente dal Sud che lavora presso le PA del Nord e che non vede l'ora di tornare nelle terre natie è molto ampia.
In ogni caso, il comparto degli enti locali è particolarmente esposto ad una gravissima crisi organizzativa: moltissimi dei quasi 350.000 dipendenti dei comuni lavora in sedi piccole, non poche volte disagiate, non di rado anche dissestate, desiderosi di passare al più presto a lavorare presso enti di maggiori dimensioni e dalla logistica meno difficoltosa. Non solo: nelle amministrazioni di maggiori dimensioni e di comparti differenti, le opportunità di carriera risultano anche migliori.
Non è difficile immaginare che i comuni di dimensioni medio piccole (praticamente l'80% del totale degli 8.000 circa comuni) fornirà un bacino di pescaggio per gli enti di maggiori dimensioni, di ogni altro comparto.
Del resto, acquisire personale mediante mobilità è conveniente. Non si sottostà ai costi e alle problematiche gestionali di un concorso, si acquisisce personale già formato e con la forte intenzione di andar via dall'ente di provenienza, si può, nonostante la norma imponga una procedura pubblica, alla fine scegliere senza i vincoli di una graduatoria concorsuale: alla fine, una mobilità libera rende anche libera la politica di ingerirsi in questi processi, per gestirli alla luce della ricerca del consenso e della fedeltà ad una tessera.
La premessa, che qui si chiude, si riferisce a problemi prettamente metagiuridici, ma che di fatto finiranno presto per presentare il conto.
Andiamo alle questioni più tecnico-giuridiche. Alla luce della novella, occorre porsi il problema di come definire tecnicamente il "passaggio diretto" tra amministrazioni.
La scadente tecnica normativa lascia sopravvivere nel testo del comma 1 dell'articolo 30 del d.lgs 165/2001 la previsione che detto passaggio diretto (il trasferimento da un ente all'altro, in parole semplici) avvenga "mediante cessione del contratto di lavoro".
Chi scrive, sostiene da sempre che la mobilità o passaggio diretto sia un istituto di diritto pubblico autonomo e peculiare, non coincidente col negozio giuridico privatistico della cessione del contratto di lavoro (qui e qui). Adesso, con la novella del 2021 insistere per la tesi secondo la quale il passaggio diretto è appunto una cessione del contratto di lavoro, per quanto ovviamente possibile, risulta ancor più privo di fondamento di quanto non lo fosse in passato.
Nei confronti delle amministrazioni pubbliche per le quali viene meno il "previo assenso" al passaggio diretto, salta totalmente ogni possibile richiamo anche solo analogico all'istituto della cessione del contratto, regolato dall'articolo 1406 del codice civile: “ciascuna parte può sostituire a sé un terzo nei rapporti derivanti da un contratto con prestazioni corrispettive, se queste non sono state ancora eseguite, purché l'altra parte vi consenta”.
La cessione del contratto è un negozio giuridico necessariamente trilaterale, al quale concorre la volontà di tre parti: il cedente (colui che cede il contratto), il cessionario (colui che subentra al cedente), il ceduto, il contraente che vede la modificazione soggettiva della controparte, che cambia dal cedente al cessionario.
Perchè la cessione del contratto, concordata tra cedente e cessionario, abbia efficacia, ai sensi del codice civile occorre necessariamente che il ceduto lo consenta. Occorre, quindi, l'assenso del ceduto. Che deve essere previo (com'era nella disciplina della mobilità ante riforma e come rimane per istruzione e sanità), ma non alla negoziazione tra cedente e cessionario, bensì alla formazione definitiva della fattispecie. In sostanza, l'assenso del ceduto deve essere prestato prima che divenga efficace la cessione pattuita tra cedente e cessionario, che in via generale va notificata al ceduto, affinchè appunto questo si pronunci espressamente.
La novella prevista dall'articolo 3, comma 7, del d.l. 80/2021, come è facile comprendere, elimina il "previo assenso". Dunque, rende il rapporto giuridico connesso all'istituto del "passaggio diretto" non più trilaterale, ma esclusivamente bilaterale. Il passaggio diretto, in sostanza, viene in essere per esclusiva prestazione di consenso tra cedente e cessionario, mentre il ceduto non può avere voce in capitolo.
Pertanto, a ben vedere, il "passaggio diretto" senza previo assenso non è e non può essere considerato in alcun modo una cessione del contratto di lavoro. E' un istituto di diritto pubblico del tutto autonomo e diverso, tale che il richiamo ancora esistente alla cessione (per altro, solo analogico e non volto a determinare coincidenza tra i due istituti) non può valere per gli enti appartenenti ai comparti nei confronti dei quali il "previo assenso" o "nulla osta" è stato soppresso.
E' bene chiarire una volta di più, a critica della dottrina sul punto maggioritaria ma erronea, che nel passaggio diretto:
- parte cedente è il dipendente, non l'ente di appartenenza;
- parte ceduta è l'ente di appartenenza, non il dipendente;
- parte cessionaria è l'ente di destinazione.
Infatti, il negozio giuridico del passaggio diretto si realizza tra ente di destinazione e dipendente cedente. L'ente cessionario attiva l'iter pubblicando l'avviso pubblico; il dipendente cedente risponde all'avviso e, se selezionato, è il dipendente cedente a prestare consenso con l'ente cessionario per il passaggio diretto. Dunque, l'ente dal quale proviene il dipendente cedente è esattamente il soggetto che avrebbe dovuto prestare quel previo assenso oggi soppresso (ma non per istruzione e sanità): per queste ragioni è l'ente di provenienza il ceduto e non il cedente.
D'altra parte, la soppressione del previo assenso dimostra appunto che la ricostruzione corretta è quella proposta sopra. Il previo assenso può essere soppresso proprio perchè esso spetta(va) all'ente di provenienza coincidente col contraente ceduto. Se fosse il dipendente la parte ceduta, si dovrebbe ammettere che a rispondere all'avviso pubblico di iniziativa dell'ente cessionario sarebbe l'ente di provenienza del dipendente, che in nome e per conto di questo negozierebbe col cessionario per cedere il contratto del dipendente, il quale quindi avrebbe dovuto, nel precedente sistema, esprime il previo assenso. Ricostruzione, questa, totalmente priva di ogni base giuridica e senso.
Precisato quanto sopra, allora c'è da ricostruire l'iter del passaggio diretto, che appare sostanzialmente diverso dal passato:
- la prima fase è quella dell'iniziativa dell'ente cessionario, che pubblica l'avviso pubblico finalizzato a selezionare dipendenti pubblici interessati alla mobilità;
- la seconda è la presentazione da parte dei dipendenti interessati della domanda, sollecitata dall'avviso pubblico;
- la terza è la selezione, tra i vari dipendenti che abbiano presentato domanda, di quello che l'ente cessionario intende assumere;
- la quarta è la presentazione, da parte del dipendente all'ente di appartenenza, di una "istanza di passaggio diretto ad altra amministrazione";
- la quinta è la risposta dell'amministrazione di appartenenza, rivolta direttamente al dipendente (unico soggetto col quale ha una relazione giuridica diretta), che sarà:
- vincolata nel contenuto, se non si rientri nelle tre possibili casistiche al ricorrere delle quali potrebbe tornare la necessità del nulla osta: cioè di accoglimento obbligatorio, salvo il "differimento" motivato per non oltre 60 giorni;
- di ricognizione della sussistenza di una delle possibili tre cause di riaffioramento del previo assenso e, dunque, di espressione o meno del previo assenso.
- come obbligatoria: non c'è, come si nota, alcuna sanzione nel caso di mancata presentazione dell'istanza;
- come vincolante: la presentazione dell'istanza non pare costituisca vincolo alcuno alla costituzione del rapporto di lavoro del dipendente con l'amministrazione di destinazione;
- come condizione d'efficacia: la norma non subordina in alcun modo la valida costituzione del rapporto di lavoro tra dipendente cedente ed ente di destinazione alla risposta all'istanza.
- il dipendente presenta l'istanza di passaggio diretto e l'ente ritenga sussistere una delle tre cause nelle quali torni a disporre del potere di previo assenso e si esprima in senso negativo;
- il dipendente contesti la mancata espressione del previo assenso e prenda comunque servizio presso l'ente di destinazione;
- il dipendente non presenti nemmeno l'istanza di passaggio diretto e prenda direttamente servizio presso l'ente di destinazione.
- di posizioni motivatamente infungibili,
- di personale assunto da meno di tre anni,
- del caso in cui l'amministrazione abbia una carenza di organico superiore al 20 per cento nella qualifica corrispondente a quella del richiedente.
- il rapporto di lavoro costituitosi tra dipendente ed ente di destinazione è per caso nullo o annullabile? Diremmo proprio di no. Non è certamente nullo, perchè la presentazione dell'istanza non appare imperativa, nè paiono rilevabili nullità della causa, mancanza di accordo e forma, illiceità dei motivi e mancanza di oggetto del contratto di lavoro stipulato tra dipendente ed ente di destinazione. Non appare nemmeno annullabile, anche perchè l'azione di annullamento - sul piano civilistico - può essere chiesta solo da una delle parti del contratto. Nel caso di specie, solo l'ente di provenienza potrebbe essere interessato all'annullamento, ma non potrebbe chiederlo al giudice civile. E se chiedesse l'annullamento al Tar, quest'ultimo dovrebbe accertare la propria mancanza di giurisdizione, poichè non trattandosi di assunzioni per concorso, la giurisdizione spetta al giudice del lavoro;
- l'ente (nemmeno più) di appartenenza può presentare ricorso al Tar? Come visto sopra, no;
- l'ente (nemmeno più) di appartenenza può disporre la destituzione del dipendente passato, senza il proprio consenso, presso l'altra PA? Non sembra e, comunque, poichè tra il dipendente e l'altro ente si è costituito un nuovo rapporto di lavoro, l'ente (non più) di appartenenza non avrebbe alcun potere concreto di destituire nessuno che non sia più alle proprie dipendenze.
- non ha una rete di protezione, legata al "trasferimento": deve dimettersi dal datore di lavoro precedente, per essere assunto da quello successivo;
- deve fare i conti con eventuali clausole di esclusiva e risarcimenti connessi;
- quando si dimette, deve sottoporsi a tutte le connesse pratiche amministrative, necessarie per altro perchè l'assunzione presso il nuovo datore difficilmente può essere contestuale (e dunque, comunicazioni obbligatorie, modulo on line per le dimissioni volontarie, comunicazioni all'Inps e alle casse previdenziali);
- rischia del proprio, perchè l'interruzione del rapporto di lavoro implica il pagamento di ferie arretrate e soprattutto del Tfr: non si pensi che sia così facile ottenere dalle aziende tale liquidità;
- passa, oggi come oggi, se si tratti di lavoratore con una certa anzianità, da un regime di tutela più elevato, che comprende l'applicazione dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ad un regime meno tutelato, che a partire dalle assunzioni disposte dal 2015 in poi non prevede più l'applicazione dello Statuto.
Una novella becera frutto dell'idiosincrasia nei confronti del lavoro pubblico...non è bastata neanche una pandemia per provare a illuminare le menti...
RispondiEliminaLa visione apocalittica e maltusiana prospettata non corrisponde alla realtà! Il paventato esodo biblico dove “folle” di dipendenti pubblici migrano da un’amministrazione all’altra è del tutto infondato: in primis, come ricordato, la metà dei pubblica amministrazione ( scuola e sanità) non risulta destinataria della modifica dell’art. 30 del Dlgs 165/2001 ad opera dell’art. 3 comma 7 del D.L. 80/2021, ovvero dell’abolizione del nulla osta preventivo al passaggio diretto tra amministrazioni tramite l’istituto della mobilità. L’aspetto tecnico trattato in cui si stigmatizza l’adozione di una norma che non consentirebbe una corretta programmazione dei fabbisogni di personale gettando conseguentemente nel caos gli Enti è evidentemente basato su una visione statica ormai superata secondo la moderna visione prospettica e dinamica del lavoro pubblico ad opera dalla riforma Madia. Ancora rimanendo in tema di incontrollati passaggi, si dimenticano i paletti inseriti nella novella dell’art. 30: bisogna che un’amministrazione pubblichi dei bandi di mobilità per specifiche professionalità e che si venga selezionati, non è un automatismo; bisogna essere assunti da più di tre anni, escludendo dunque tutti i neoassunti ( vincitori di concorsi, non è possibile equiparare la mobilità perché trattasi di una cessione di contratto, in continuità); non bisogna ricoprire posizioni infugibili (si pensi agli apicali nei piccoli comuni, non potranno mai trasferirsi senza il nulla osta preventivo dell’Ente di appartenenza); non deve sussistere una carenza di organico superiore al 20% (è facilmente immaginabile dopo oltre 10 anni di mancata ricostituzione del turn over in quali condizioni si trovino quasi tutti gli Enti). Fatte queste considerazioni, è palese che le paure espresse non trovano riscontro nella realtà! Infine, non certo per ordine di importanza, traspare che sia quasi un “peccato” quello di voler migliorare professionalmente ed economicamente, cercando di creare una sana concorrenza nel “mercato” del lavoro pubblico finalizzata a mettere alla prova le competenze acquisite, valorizzando il capitale umano sempre più spesso mortificato dall’impossibilità di poter scegliere liberamente dove poter meglio contribuire per accrescere la performance del PAESE, quindi è stato un atto coraggioso quello di inserire una norma che possa dare dignità e voce ai dipendenti pubblici, secondo me anche fin troppo timido, ma è sicuramente apprezzabile lo sforzo politico profuso, mi auguro che possa essere migliorato nella conversione in legge, altrimenti chi realizzerà i progetti del PNRR?
RispondiEliminaQuelle espresse nell'articolo non sono paure, ma osservazioni di fatto, sulle certe distorsioni. Ci si può illudere, come anche incappare nell'errore clamoroso di ascrivere alla riforma Madia, che esalta la programmazione, l'inutilità della stessa, condendoil tutto con aggettivi, che non intaccani la realtà. A proposito: altro errore grave. La mobilità non ha nessuna continuità del rapporto e l'ente che acquisiace attiva un rapporto di lavoro. Cioé assume. Continuare a crogiolarsi con slogan fumo e errornee ricostruzioni giuridiche é la condanna del Paese, che purtroppo ha molti tifosi di ciò
RispondiEliminaChi negli Enti non ci lavora non può capire!
RispondiEliminaA tale proposito, mi permetto di citare un GRANDE: “Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io. Vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate. Vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io.”
Luigi Pirandello
Argomentazioni nemmeno paragiuridiche, ma totalmente estranee all'esame delle norme valgono ovviamente zero. Sono utili solo per guardare al proprio ombelico e far emergere sempre il volto del dipendente pubblico che pensa che ogni possibilità (la mobilità è sempre stata possibile e non è mai stata vietata, così come la partecipazione a concorsi per chi intendesse "evolvere") si debba trasformare in diritto. Come non bastassero già tutele e diritti. Infine, produrre citazioni perfettamente reperibili oggi in interne, per poi argomentare in senso opposto è, come dire, ulteriore aspetto di un sistema di ragionamento solo sofistico. Chi afferma che per conoscere gli enti occorre averci lavorato, dovrebbe essere certo che chi ne parla non vi abbia lavorato o non vi lavori. Solo per il gusto di non scrivere cose esclusisivamente un po' per celia, un po' per non morire-
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