Di
Luigi Oliveri e Vito Antonio Bonanno
Il decreto tradisce le intenzioni enunciate da mesi di aprire la PA ai giovani ed introduce riforme deboli, foriere di stabilizzazioni a sanatoria, contenziosi e le solite scorciatoie procedurali, semplificando poco, ma creando ampi problemi
Il decreto assunzioni approvato
venerdì 4 giugno dal Governo conferma tutte le preoccupazioni espresse in
questi mesi dagli esperti, per esempio i professori Boeri e Perotti, circa un
sistema di reclutamento che appare altamente disfunzionale e per nulla in grado
di aprire davvero la strada ai giovani nella PA.
Stando al testo circolato fino al 6 giugno, la norma-simbolo del decreto è, infatti, l’abolizione del limite di un anno agli incarichi di funzioni dirigenziali e direttive ai pensionati.
Detta norma abroga il quarto
periodo dell’articolo 5, comma 9, del decreto-legge 95/2012, convertito, con
modificazioni, dalla legge 135/2012. Lo riportiamo di seguito evidenziando l’abrogazione:
E’ fatto divieto alle
pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto
legislativo n. 165 del 2011 (leggasi "n. 165 del 2001" - n.d.r.),
nonché alle pubbliche amministrazioni inserite nel conto economico consolidato
della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di
statistica (ISTAT) ai sensi dell’articolo 1, comma 2, della legge 31 dicembre
2009, n. 196 nonché delle autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione
nazionale per le società e la borsa (Consob) di attribuire incarichi di studio
e di consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in
quiescenza. Alle suddette amministrazioni è, altresì, fatto divieto di
conferire ai medesimi soggetti incarichi dirigenziali o direttivi o cariche in
organi di governo delle amministrazioni di cui al primo periodo e degli enti e
società da esse controllati, ad eccezione dei componenti delle giunte degli
enti territoriali e dei componenti o titolari degli organi elettivi degli enti
di cui all’articolo 2, comma 2-bis, del decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101,
convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125. Gli
incarichi, le cariche e le collaborazioni di cui ai periodi precedenti sono
comunque consentiti a titolo gratuito. Per i soli incarichi dirigenziali
e direttivi, ferma restando la gratuità, la durata non può essere superiore a
un anno, non prorogabile né rinnovabile, presso ciascuna amministrazione.
Devono essere rendicontati eventuali rimborsi di spese, corrisposti nei limiti
fissati dall’organo competente dell’amministrazione interessata. Gli organi
costituzionali si adeguano alle disposizioni del presente comma nell’ambito
della propria autonomia.
Prima dell’abrogazione, dunque,
si consentiva alle pubbliche amministrazione di assegnare incarichi dirigenziali
e direttivi ai pensionati solo gratuitamente e solo per la durata massima di un
anno. Ciò allo scopo di limitare la pessima e diffusissima abitudine delle PA
di coprire posti resisi vacanti continuando ad avvalersi di personale in quiescenza,
creando quindi ulteriori impedimenti alle assunzioni di nuovo personale, già limitate
dai vari tetti e vincoli per nulla
allentati dalla riforma del 2019, attuata con il DM 17 marzo 2020.
Il decreto “reclutamento”,
eliminando la durata massima di un anno agli incarichi dirigenziali e direttivi
per i pensionati, sortisce l’effetto di permettere che gli incarichi
dirigenziali e di funzioni direttive a pensionati possano avere una durata
molto estesa col solo limite della gratuità.
Si tratta oggettivamente di una
decisione assurda e paradossale. Soprattutto perché nei mesi scorsi si è
insistito nel dipingere la riforma dei concorsi come uno strumento per garantire
l’ingresso nella PA soprattutto di giovani preparati e meritevoli, allo scopo
non solo di impinguare il numero dei dipendenti pubblici ridotto sotto la
soglia della sufficienza dopo anni di tetti al turn over, ma soprattutto di
abbassare l’età media e iniziare ad arricchire i ranghi con persone native
digitali.
L’abrogazione della durata degli
incarichi ai pensionati va incredibilmente nella direzione totalmente opposta.
Occorre sottolineare che
questa previsione del decreto “reclutamento” è stata da subito oggetto di fortissime
critiche anche all’interno della maggioranza. Nella serata del 5 giugno sono
iniziate ad affiorare voci secondo le quali essa verrebbe eliminata dal testo
finale (purtroppo, il Governo Draghi conferma la pessima abitudine, portata ad
archetipo dal Governo Monti, di Consigli dei Ministri che approvano decreti
legge senza un testo definito, con l’ipocrita clausola “salvo intese”, che si
spera primo o poi qualche giudice censuri).
In ogni caso, l’eliminazione di
questo clamoroso svarione non cambierebbe di molto la valutazione complessiva
della riforma. Infatti, il decreto presenta tutta una serie di ostacoli
formidabili all’ingresso dei giovani nella PA, portando necessariamente al
fallimento dell’idea di ringiovanire i ranghi.
Come paventato da molti, il decreto
reclutamento non solo si rivolge in generale a persone dotate di un’esperienza
e titoli pregressi talmente ampi da escludere in partenza i giovani neo diplomati
o neo laureati, ma pur prevedendo che le assunzioni siano effettuate a tempo
determinato (24.000 circa in totale nello Stato) di fatto concretizza le
condizioni perché tale personale consolidi definitivamente la propria posizione
lavorativa nella PA una volta concluso il percorso di attuazione del PNRR, così
chiudendo ancora una volta ogni chance di reclutamento con concorso
pubblico realmente aperto a tutti, come prevede la via maestra indicata dall’art.
97 della Costituzione.
Infatti, si prevede che le
amministrazioni che abbiano attivato le assunzioni finalizzate all’attuazione
del Pnrr, prevedano, nei futuri bandi di concorso per il reclutamento di
personale a tempo indeterminato, una riserva di posti non superiore al quaranta
(o cinquanta: i testi sono ancora ballerini) per cento, destinata al predetto
personale che, alla data di pubblicazione del bando, abbia svolto servizio per
almeno trentasei mesi.
Dunque, una percentuale
estremamente elevata dei futuri concorsi è già sottratta, fra tre anni, ai più giovani,
a vantaggio degli insiders. Si apre, dunque, una nuova stagione di precariato e
di soggetti aspiranti alla stabilizzazione. Non è difficile prevedere che,
anche a ragione della deroga introdotta dal decreto-legge al tetto dei
trentasei mesi alla durata massima dei contratti a termine in contrasto con la
direttiva europea 77/1999/CE, si aprirà una stagione di rivendicazioni anche in
sede giudiziaria con l’esposizione delle amministrazioni al risarcimento del
danno da violazione del termine europeo secondo la cristallina e granitica
giurisprudenza della Corte di cassazione, preludio ad una nuova stagione di “reclutamento
in deroga” o stabilizzazione di precari, con buona pace delle aspettative
di assunzione di coloro che sono esterni al sistema.
Non solo. Si conferma anche la
preoccupazione che il nuovo sistema di reclutamento consista in una deroga
eccessivamente ampia all’articolo 97 della Costituzione.
Le assunzioni finalizzate all’attuazione
del Pnrr avverranno con modalità selettive estremamente semplificate,
sostanzialmente con l’annullamento dei concorsi, ridotti di fatto alla
valutazione dei titoli e ad una sola prova scritta. In particolare, per l’iscrizione
nell’elenco istituito presso il Dipartimento della Funzione pubblica e
finalizzato alle assunzioni a tempo determinato di personale in possesso di
alta specializzazione la norma prevede lo svolgimento di procedure idoneative,
basate esclusivamente su una prova scritta. Non si comprende come possa
essere accertata l’alta specializzazione pure richiesta dalla norma attraverso lo
svolgimento di una sola prova scritta.
In molti hanno osservato che
questi reclutamenti estremamente semplificati si giustifichino per il fatto che
sono finalizzati ad assunzioni a tempo determinato. A parte la circostanza che
l’articolo 97 della Costituzione richiede i concorsi per qualsiasi accesso agli
impieghi, sia a tempo indeterminato, sia a tempo indeterminato, l’elevatissima
percentuale di successiva riserva dei posti nei concorsi vista prima evidenzia
come, nella realtà, le assunzioni del Pnrr siano in buona parte solo formalmente
a termine, ma destinate a creare una truppa di persone che potranno contare in
futuro su concorsi riservati: una vera e propria stabilizzazione. E si è
facilissimi profeti, qui ed oggi, ad immaginare che nel futuro, per le ragioni
già chiarite, interverranno norme finalizzate ad allargare la platea degli
assunti con queste norme straordinarie del Pnrr che saranno stabilizzati.
Guardiamo meglio, ora, nel
dettaglio perché il decreto è una rilevante esclusione dei giovani dalla
possibilità reale e concreta di inserimento nella PA.
I canali di reclutamento
previsti per il rafforzamento delle dotazioni degli enti coinvolti nell’attuazione
del Pnrr saranno 3.
Il primo è quello dei concorsi “semplificati”
svolti in modalità decentrata dalle singoli amministrazioni. Essi avverranno:
1.
applicando l’articolo 10, comma 1, lettera c),
del d.l. 44/2021, convertito in legge 76/2021, ai sensi del quale “per i
profili qualificati dalle amministrazioni, in sede di bando, ad elevata
specializzazione tecnica, una fase di valutazione dei titoli legalmente riconosciuti
e strettamente correlati alla natura e alle caratteristiche delle posizioni bandite,
ai fini dell'ammissione a successive fasi concorsuali oltre alla valutazione
dei titoli ai sensi del citato articolo 10, lo svolgimento della sola prova
scritta”. Dunque, è obbligatoria la valutazione preliminare dei titoli,
come strumento di scrematura per l’accesso stesso ai concorsi: elemento che,
oggettivamente, impedisce ai giovani neolaureati di concorrere;
2.
con una sola prova scritta: senza la seconda
prova, di solito a carattere tecnico specialistico, senza nemmeno la prova
orale.
Un concorsino solo formale, nel
quale la fanno da padrone i titoli, che non è possibile in alcun modo, tranne
per mero sofisma, considerare davvero aperto ai giovani e a coloro, anche meno
giovani, che non hanno avuto alcuna esperienza nella PA.
Il secondo canale è quello della
chiamata dal primo dei due elenchi che saranno creati sul portale del
reclutamento, previsto dall’articolo 3, comma 7, della legge 56/2019: l’elenco
riservato a “professionisti ed esperti per il conferimento incarichi di
collaborazione con contratto di lavoro autonomo di cui all’articolo 7, comma 6,
del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165”.
La previsione sembra, in
effetti, destare più di qualche perplessità. Non sfuggirà, infatti, che la riforma
Madia ha introdotto un vero e proprio divieto per le pubbliche amministrazioni
di stipulare, a decorrere dal 1 luglio 2019, contratti di collaborazione
coordinata e continuativa “che si concretano in prestazioni di lavoro
esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione siano
organizzate dal committente anche con riferimento ai temi e al luogo di lavoro”
(comma 5.bis dell’art. 7 d.lgs. 165/2001), sanzionando la violazione del
divieto con la nullità del contratto e la previsione di responsabilità
erariale. Ora, immaginare che i contratti in parola non abbiano il requisito
della continuità risulta davvero difficile, stante la durata prevista e la
tipologia di attività di supporto agli uffici che è richiesta. In ogni caso, non
può non constatarsi che un istituto come quello degli incarichi di
collaborazione, considerato dalla Corte dei conti quasi di per sé foriero di
responsabilità erariale e di molto limitato dalla riforma Madia del 2017,
diviene forma ordinaria di reclutamento di professionalità ai fini del Pnrr.
In questo elenco potranno
iscriversi persone con i seguenti requisiti:
“a) almeno cinque anni di
permanenza nel relativo albo, collegio o ordine professionale comunque
denominato;
b) essere iscritto al
rispettivo albo, collegio o ordine professionale comunque denominato;
c) non essere in quiescenza”.
Sembra possibile che un giovane
neo laureato disponga di 5 anni almeno di permanenza di iscrizione? Non è
evidente l’intento di escludere i giovani?
Come avverrà la selezione? Gli
elenchi saranno suddivisi in sezioni corrispondenti alle diverse professioni e
specializzazioni e agli eventuali ambiti territoriali, con l’indicazione, da
parte dell’iscritto, dell’ambito territoriale di disponibilità all’impiego. E
saranno organizzati come vere e proprie graduatorie. Il decreto istitutivo
stabilirà come attribuire ai professionisti iscritti uno specifico punteggio,
valorizzando le documentate esperienze professionali maturate, il possesso di
titoli di specializzazione ulteriori rispetto a quelli abilitanti all’esercizio
della professione, purché a essa strettamente conferenti.
Dunque, le amministrazioni,
sulla base delle professionalità che necessitano acquisire, inviteranno, seguendo
l’ordine della graduatoria, almeno tre professionisti o esperti tra quelli
iscritti nel relativo elenco, per sottoporli ad un colloquio selettivo finalizzato
al conferimento degli incarichi di collaborazione.
Anche i parametri di
determinazione dei punteggi per la definizione delle graduatorie rivelano che non
vi sia spazio alcun per i giovani.
Il decreto prevede che 1000 unità
inserite in tale elenco vengono reclutate da regioni ed enti locali con
incarico di collaborazione “per il supporto nella gestione delle procedure
complesse”. Tale previsione rafforza il dubbio circa l’ascrivibilità di tali
incarichi tra le collaborazioni autonome (consentite) e quelle a carattere
continuativo (vietate e nulle per legge).
Il terzo canale è l’assunzione
dal secondo degli elenchi da istituire sul portale del reclutamento, riservato
a “personale in possesso di un’alta specializzazione per l’assunzione con
contratto di lavoro subordinato a tempo determinato”.
In questo caso, per i scriversi
gli interessati dovranno svolgere procedure idoneative, con le modalità
digitali e semplificate di cui all’articolo 10 del d.l. 44/2021, convertito in
legge 76/2021, composte dalla sola prova scritta. Il personale idoneo ottiene
solo il diritto all’inserimento negli elenchi, sempre in ordine di graduatoria.
Le amministrazioni assumeranno mediante una chiamata diretta attingendo alla
graduatoria nel suo ordine.
A dimostrazione che anche in
questo caso lo spazio per i giovani è sostanzialmente nullo, il decreto
evidenzia quali sono i requisiti da possedere per essere considerati potenzialmente
persone dotate di “alta specializzazione”, ai fini della quale occorre il
possesso della laurea magistrale o specialistica e di almeno uno dei seguenti
titoli, in settori scientifici o ambiti professionali strettamente correlati
all’attuazione dei progetti:
a) dottorato di ricerca;
b) documentata esperienza
professionale di lavoro subordinato, di durata almeno triennale, maturata
presso enti e organismi internazionali ovvero presso organismi dell’Unione
Europea.
Si può, non senza fondamento,
osservare che ai fini dell’attuazione del Pnrr occorre personale davvero
qualificato e in qualche modo “fatto e finito”, capace, quindi, di essere
operativo da subito, così da giustificare la sostanziale riserva del
reclutamento per persone i cui requisiti professionali e di esperienza sono
certamente tali da poterli individuare non tra i giovani, bensì tra navigati e
talvolta anche attempati professionisti.
Per la verità, rimane irrisolto
un problema: la persuasione che dal “privato” sia possibile davvero attingere
persone competenti che da un giorno all’altro siano in grado di passare con nonchalance
alla PA.
Le cose non stanno così. Le
regole dell’azione pubblica sono totalmente diverse da quelle del privato.
Basti citare solo tre aspetti:
1.
nel privato è normalissimo intrattenere rapporti
con gli appaltatori esterni, configurandoli come vere e proprie partnership:
non ci sono necessariamente gare e una volta che il committente reperisca un
appaltatore di fiducia, si creano legami indissolubili, altro che “principio di
rotazione”; questo apre le porte ad uno strutturale conflitto di interessi che,
o verrà occultato o, se verrà gestito secondo l’attuale disciplina di
prevenzione dei casi di corruzione amministrativa, rallenterà le attività che
si vuole velocizzare;
2.
nel privato la contrattazione collettiva aziendale
ed anche i contratti di lavoro individuali hanno un’estesissima forza derogatrice
rispetto alle regole normative e dei contratti collettivi nazionali o
territoriali. Nel sistema pubblico accade l’esatto opposto. Ed è per questa
ragione che soggetti provenienti dal privato che abbiano inteso nel pubblico
applicare le regole alle quali erano abituati hanno creato solo disastri, come
ben sanno molti enti locali che hanno visto all’opera “direttori generali”
provenienti dal privato o capi degli uffici tecnici appena usciti dai lori
studi professionali;
3.
la contabilità pubblica è parossistica e totalmente
inconciliabile con quella privata, soggetta a controlli e responsabilità, per
prima quella erariale, che chi non conosce non ha nemmeno l’idea di come
affrontare; la Corte dei conti ha recentemente richiamato gli uffici tecnici ad
una maggiore collaborazione con gli uffici finanziari, evidenziando -non a
torto- che il rispetto dei tempi per l’attuazione della spesa di investimento passa
dall’allineamento tra il ciclo tecnico e quello contabile: la contabilità
pubblica non si impara al volo, servono anni ed esperienza.
Un inserimento davvero efficace
di chi proviene dall’esterno richiede tempo e formazione. I reclutamenti veloci
ai quali ha pensato il Governo appaiono davvero poco persuasivi, perché non
sono accompagnati da momenti di formazione super intensiva. Il breve tratto di
tempo di assunzione avrà un tempo inerziale nel quale i titoli e le esperienze
nel privato, utili a passare le selezioni, non avranno alcuna utilità per un
inserimento immediato nei meccanismi operativi, in assenza di una formazione
interna profondissima.
In ogni caso, anche volendo
giustificare le segnalate esternalità negative del sistema appena varato con la
necessità di adempiere ad impegni assunti in sede europea e non perdere l’occasione
di spendere le ingenti risorse del NGEU, non può non evidenziarsi che l’esclusione
dei giovani dai ranghi della PA si riscontra anche in alcune scelte “a regime”,
che riguardano il sistema di reclutamento voluto dal Governo al di là delle
contingenze del Pnrr.
Il decreto interviene di nuovo
sulle “progressioni verticali” o “di carriera”, sostituendo il comma 1-bis dell’art.
52 del d.lgs. 165/2001. Lo scopo è nobile: aprire il lavoro pubblico a
prospettive appunto di carriera oggi piuttosto complicate, specie per i
vertici. Il passaggio dalla qualifica di funzionario a quello di dirigente
richiede necessariamente il concorso pubblico.
La riforma incide sulle procedure
delle progressioni con due rilevantissime novità:
1)
si chiude con la progressione verticale
effettuata, in disparte l’attuale deroga introdotta dalla riforma Madia, con
riserva di posti nei concorsi pubblici e si torna all’antico, cioè a procedure
interamente riservate al personale interno, per non oltre il 50% delle
assunzioni possibili in base alla programmazione. Ancora una volta, non saranno
concorsi, ma procedure “comparative” basate:
a.
sulla valutazione positiva conseguita dal
dipendente negli ultimi tre anni di servizio,
b.
sull’assenza di provvedimenti disciplinari,
c.
sul possesso di titoli professionali e di studio
ulteriori rispetto a quelli previsti per l’accesso all’area,
d.
sul numero e sulla tipologia degli incarichi
rivestiti.
2)
l’estensione della progressione verticale anche
all’accesso alla dirigenza. Si stabilisce che una quota non superiore al trenta
per cento dei posti residui disponibili (cioè il 50% dei posti complessivi,
essendo il resto da riservare alle assunzioni con il corso-concorso) sulla base
delle facoltà assunzionali autorizzate (nello Stato) è riservata, da ciascuna
pubblica amministrazione al personale in servizio a tempo indeterminato, in
possesso dei titoli di studio previsti a legislazione vigente e che abbia
maturato almeno cinque anni di servizio nell’area o categoria apicale. La
progressione sarà gestita mediante procedure comparative bandite dalla Scuola
nazionale dell’amministrazione, che tengono conto:
a.
della valutazione conseguita nell’attività
svolta,
b.
dei titoli professionali, di studio o di
specializzazione ulteriori rispetto a quelli previsti per l’accesso alla
qualifica dirigenziale,
c.
della tipologia e del numero degli incarichi
rivestiti con particolare riguardo a quelli inerenti agli incarichi da
conferire
d.
della valutazione delle capacità, attitudini e
motivazioni individuali.
I bandi definiscono le aree di
competenza osservate e prevedono prove scritte e orali di esclusivo carattere
esperienziale, finalizzate alla valutazione comparativa e definite secondo
metodologie e standard riconosciuti.
Il decreto espressamente prevede
che tali previsioni normative dettate per lo Stato “costituiscono norme di principio
alle quali le regioni e gli enti locali conformano la propria legislazione”.
A prescindere dal fatto che gli enti locali non hanno potestà di legiferare,
non è difficile prevedere immediate modifiche ai regolamenti comunali e
provinciali sui concorsi per inserire norme che consentano di promuovere a
dirigenti una fetta di funzionari apicali, così ancora una volta restringendo l’accesso
alla dirigenza dall’esterno.
Inoltre, la riapertura delle progressioni
verticali al sistema delle procedure interamente riservate al 50% dei posti
previsti dalla programmazione, evidentemente finisce per sottrarre al “mercato”
dei giovani in particolare una rilevantissima quota di ingressi nella PA, che
resta appannaggio di chi nella PA già lavora.
Ancora, la rinuncia al concorso
pubblico in favore di “procedure comparative” basate su criteri oggettivamente discutibili,
apre la stura al rischio di progressioni verticali tagliate e cucite su misura
di chi eccella soprattutto per conoscenze, buoni rapporti e tessere di partito.
Un altro elemento sintomatico
della chiusura del reclutamento nella PA ai giovani, esattamente all’opposto di
quanto si narra, è la pura e semplice follia consistente nell’abolizione del
nulla osta ai fini della mobilità del personale.
Si tratta di un’idea ricorrente,
coltivata molte volte da tanti Governi, ma fin qui mai attuata. Questa potrebbe
essere la volta buona.
Tale idea in effetti gode di
larghi favori nella pubblica amministrazione, tendenzialmente da due tipologie
di soggetti:
a)
i vertici, tanto politici quanto tecnici, delle
amministrazioni, che così si esentano dal dover effettuare procedure concorsuali
e inoltre possibilmente riescono ad “orientare” le mobilità così da scegliere
chi meglio loro aggradi; non sempre la scelta risulterebbe orientata verso i
migliori, ma alte sarebbero le possibilità di designazioni dovute a “comune
sentire” politico;
b)
molti dipendenti, per i quali si aprirebbe la
possibilità di andare da un ente all’altro con piena libertà, aspetto non
secondario quando per qualsiasi ragione la sede di lavoro non risulti
pienamente gradita o soddisfacente.
Ma, queste ragioni sono
puramente speculative ed “egoistiche”. Per quanto rispettabili, infatti, sono
guidate da interessi esclusivamente circoscritti alla sfera dell’ente
“ricevente” o a quella personale del dipendente. E’ molto da dubitare, però,
della possibilità di attribuire a queste ragioni anche dignità di perseguimento
di interessi pubblici collettivi.
La “liberalizzazione” della
mobilità comporta certamente lesioni molto forti alla stabilità organizzativa
delle amministrazioni pubbliche, allo stesso modo dell’interpretazione
-recentemente stoppata dalla Funzione pubblica- del diritto all’aspettativa nel
caso di conferimento ad un dipendente pubblico di un incarico ai sensi dell’art.
110 Tuel da parte di una diversa amministrazione locale. Se un’amministrazione
“ricevente”, per le ragioni viste sopra, si può considerare soddisfatta dal sistema
“liberalizzato”, simmetricamente l’amministrazione dalla quale proverrebbe il
dipendente si ritroverebbe priva di una unità lavorativa e con la necessità di
ripristinare l’organico. Magari, ricorrendo a quel punto a sua volta a
procedure di mobilità, che inciderebbero sull’organizzazione di una terza
amministrazione e così via.
E’ evidente che in un sistema assunzionale
basato sul principio della programmazione, eliminare il nulla osta del datore
di lavoro pubblico per le istanze di mobilità, significa polverizzare qualunque
Piano triennale del fabbisogno di personale, in quanto sarebbe del tutto
impossibile per gli enti programmare i fabbisogni non potendo stimare le
mobilità in uscita che dipenderebbero esclusivamente dalla volontà dei singoli.
Il decreto, nella consapevolezza
di queste vastissime disfunzioni, potenzialmente deflagranti, cerca di
apportare un correttivo, che sarà peggiore del male. Si prevede, infatti che il
nulla osta sarà necessario:
a)
nel caso in cui la mobilità coinvolga posizioni
motivatamente infungibili,
b)
nel caso in cui la mobilità riguardi personale
assunto da meno di tre anni;
c)
nel caso in cui a richiedere la mobilità siano
dipendenti di amministrazioni che abbiano una carenza di organico superiore al
20 per cento nella qualifica corrispondente a quella del richiedente.
Facilissima profezia: si
scatenerà un contenzioso infinito. Infatti, al di là della difficoltà di
dimostrare l’infungibilità delle posizioni, chiaramente ogni provvedimento di
tale natura finirà sotto la scure dei ricorsi al giudice ordinario, la cui
giurisprudenza tipicamente ondivaga acuirà il caos. Per quanto riguarda il personale
assunto da meno di tre anni, le deroghe illegittime saranno moltissime: tanto,
come sempre, nessun controlla; il triennio è riferito alla presenza nell’amministrazione
pubblica o nell’ente? si considera anche il servizio prestato con contratto a
tempo determinato o solo quello successivo alla stabilizzazione? Infine, il terzo
elemento che potrebbe far rientrare dalla finestra il nulla osta uscito dalla
porta appare grottesco: in assenza di dotazioni organiche fisse, poiché esse
sono annualmente conseguenza del piano dei fabbisogni e delle risorse
disponibili, come è possibile calcolare un organico e di questo il 20% non
coperto? La norma non fa per nulla i conti con le previsioni dell’articolo 6
del d.lgs 165/2001 e, come rilevato, getta le basi per il caos.
E’ semplicemente un pannicello
caldo la previsione secondo la quale resta salva, per l’amministrazione che
subirà la volontà del dipendente di andar via, di differire, per motivate
esigenze organizzative, il passaggio diretto del dipendente fino ad un massimo
di 60 giorni dalla ricezione dell’istanza di passaggio diretto ad altra
amministrazione.
A conferma che la riconfigurazione
della mobilità come sopra descritto è una follia, il decreto esclude che le nuove
regole si applichino al personale della scuola, della sanità nonché a quello
assunto per il Pnrr; ad essere devastati da questa norma saranno principalmente
i comuni, soprattutto quelli di minore dimensione dove più forte è la domanda
di uscita e dove più difficile risulta attuare nuove assunzioni.
Comunque, va rilevato, che anche
questa misura di liberalizzazione della mobilità in uscita costituisce un
ulteriore vincolo all’innesto di nuove professionalità reclutate con contratto,
perché il sistema si prefigura già come un modo di spostare pedine nella
scacchiera del pubblico impiego.
E si apre al rischio della
formazione di enti “chioccia”, che assumono nella sostanza per conto di altri
(vedi la strana situazione del comune di Allumiere, nel
Lazio). Piccoli comuni “vassalli”, potranno in continuazione “sfornare” neo
assunti con i concorsi “semplificati” e “lanciarli” in altre amministrazioni,
sotto la “guida” sapiente di mani abituate a gestire il “merito” inteso come
merito di avere tessere e “conoscenze” (non già operative e culturali) giuste.
In queste condizioni, altre
norme a regime, come la possibilità affidata ai contratti di istituire l’area
delle alte professionalità come stabile qualificazione del personale (a
differenza della precaria attribuzione delle Posizioni Organizzative) e di
superare l’anacronistico tetto al trattamento accessorio del 2016, non possono
assumere una valenza significativa, anche perché la loro attuazione appare incerta
e legata a non meglio precisati vincoli di finanza pubblica.
Per altro, l’accesso alla nuova
area delle alte specializzazioni avverrà anch’esso sulla base delle progressioni
verticali: sempre escludendo, quindi, realmente i giovani.
Per i quali resta di fatto la
sola consolazione del tentativo di attivare, finalmente dopo 10 anni, il contratto
di apprendistato, professionalizzante e di alta formazione e ricerca. Ma, lo
stanziamento previsto è irrisorio: 700.000 euro in tutto. Una sperimentazione
riservata a 4 gatti.
L’unica innovazione del decreto consiste
nell’introduzione di un nuovo Piano integrato di attività e organizzazione, un
nuovo adempimento del tutto contrario sulla carta alla logica della
semplificazione: attendiamo, speranzosi, il dPR che entro sessanta giorni dovrà
dirci gli adempimenti assorbiti nel nuovo Piano e, quindi, abrogati.
Resta, in ogni caso evidente,
che raggruppare le decine e decine di pianificazioni vigenti
in un unico piano non significa affatto “semplificare”: implica solo produrre
un mega-piano mostruoso. Che, forse, sarà meno complesso per gli enti con meno
di 50 dipendenti, ma in ogni caso i pesantissimi e più che discutibili oneri
programmatori resteranno intatti.
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