domenica 6 giugno 2021

Decreto reclutamento: una riforma della PA che non modernizza nulla e crea le basi per nuovo precariato e disfunzioni organizzative

 Di

Luigi Oliveri e Vito Antonio Bonanno

Il decreto tradisce le intenzioni enunciate da mesi di aprire la PA ai giovani ed introduce riforme deboli, foriere di stabilizzazioni a sanatoria, contenziosi e le solite scorciatoie procedurali, semplificando poco, ma creando ampi problemi

Il decreto assunzioni approvato venerdì 4 giugno dal Governo conferma tutte le preoccupazioni espresse in questi mesi dagli esperti, per esempio i professori Boeri e Perotti, circa un sistema di reclutamento che appare altamente disfunzionale e per nulla in grado di aprire davvero la strada ai giovani nella PA.

Stando al testo circolato fino al 6 giugno, la norma-simbolo del decreto è, infatti, l’abolizione del limite di un anno agli incarichi di funzioni dirigenziali e direttive ai pensionati.

Detta norma abroga il quarto periodo dell’articolo 5, comma 9, del decreto-legge 95/2012, convertito, con modificazioni, dalla legge 135/2012. Lo riportiamo di seguito evidenziando l’abrogazione:

E’ fatto divieto alle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2011 (leggasi "n. 165 del 2001" - n.d.r.), nonché alle pubbliche amministrazioni inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell’articolo 1, comma 2, della legge 31 dicembre 2009, n. 196 nonché delle autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob) di attribuire incarichi di studio e di consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza. Alle suddette amministrazioni è, altresì, fatto divieto di conferire ai medesimi soggetti incarichi dirigenziali o direttivi o cariche in organi di governo delle amministrazioni di cui al primo periodo e degli enti e società da esse controllati, ad eccezione dei componenti delle giunte degli enti territoriali e dei componenti o titolari degli organi elettivi degli enti di cui all’articolo 2, comma 2-bis, del decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125. Gli incarichi, le cariche e le collaborazioni di cui ai periodi precedenti sono comunque consentiti a titolo gratuito. Per i soli incarichi dirigenziali e direttivi, ferma restando la gratuità, la durata non può essere superiore a un anno, non prorogabile né rinnovabile, presso ciascuna amministrazione. Devono essere rendicontati eventuali rimborsi di spese, corrisposti nei limiti fissati dall’organo competente dell’amministrazione interessata. Gli organi costituzionali si adeguano alle disposizioni del presente comma nell’ambito della propria autonomia.

Prima dell’abrogazione, dunque, si consentiva alle pubbliche amministrazione di assegnare incarichi dirigenziali e direttivi ai pensionati solo gratuitamente e solo per la durata massima di un anno. Ciò allo scopo di limitare la pessima e diffusissima abitudine delle PA di coprire posti resisi vacanti continuando ad avvalersi di personale in quiescenza, creando quindi ulteriori impedimenti alle assunzioni di nuovo personale, già limitate dai vari tetti  e vincoli per nulla allentati dalla riforma del 2019, attuata con il DM 17 marzo 2020.

Il decreto “reclutamento”, eliminando la durata massima di un anno agli incarichi dirigenziali e direttivi per i pensionati, sortisce l’effetto di permettere che gli incarichi dirigenziali e di funzioni direttive a pensionati possano avere una durata molto estesa col solo limite della gratuità.

Si tratta oggettivamente di una decisione assurda e paradossale. Soprattutto perché nei mesi scorsi si è insistito nel dipingere la riforma dei concorsi come uno strumento per garantire l’ingresso nella PA soprattutto di giovani preparati e meritevoli, allo scopo non solo di impinguare il numero dei dipendenti pubblici ridotto sotto la soglia della sufficienza dopo anni di tetti al turn over, ma soprattutto di abbassare l’età media e iniziare ad arricchire i ranghi con persone native digitali.

L’abrogazione della durata degli incarichi ai pensionati va incredibilmente nella direzione totalmente opposta.

Occorre sottolineare che questa previsione del decreto “reclutamento” è stata da subito oggetto di fortissime critiche anche all’interno della maggioranza. Nella serata del 5 giugno sono iniziate ad affiorare voci secondo le quali essa verrebbe eliminata dal testo finale (purtroppo, il Governo Draghi conferma la pessima abitudine, portata ad archetipo dal Governo Monti, di Consigli dei Ministri che approvano decreti legge senza un testo definito, con l’ipocrita clausola “salvo intese”, che si spera primo o poi qualche giudice censuri).

In ogni caso, l’eliminazione di questo clamoroso svarione non cambierebbe di molto la valutazione complessiva della riforma. Infatti, il decreto presenta tutta una serie di ostacoli formidabili all’ingresso dei giovani nella PA, portando necessariamente al fallimento dell’idea di ringiovanire i ranghi.

Come paventato da molti, il decreto reclutamento non solo si rivolge in generale a persone dotate di un’esperienza e titoli pregressi talmente ampi da escludere in partenza i giovani neo diplomati o neo laureati, ma pur prevedendo che le assunzioni siano effettuate a tempo determinato (24.000 circa in totale nello Stato) di fatto concretizza le condizioni perché tale personale consolidi definitivamente la propria posizione lavorativa nella PA una volta concluso il percorso di attuazione del PNRR, così chiudendo ancora una volta ogni chance di reclutamento con concorso pubblico realmente aperto a tutti, come prevede la via maestra indicata dall’art. 97 della Costituzione.

Infatti, si prevede che le amministrazioni che abbiano attivato le assunzioni finalizzate all’attuazione del Pnrr, prevedano, nei futuri bandi di concorso per il reclutamento di personale a tempo indeterminato, una riserva di posti non superiore al quaranta (o cinquanta: i testi sono ancora ballerini) per cento, destinata al predetto personale che, alla data di pubblicazione del bando, abbia svolto servizio per almeno trentasei mesi.

Dunque, una percentuale estremamente elevata dei futuri concorsi è già sottratta, fra tre anni, ai più giovani, a vantaggio degli insiders. Si apre, dunque, una nuova stagione di precariato e di soggetti aspiranti alla stabilizzazione. Non è difficile prevedere che, anche a ragione della deroga introdotta dal decreto-legge al tetto dei trentasei mesi alla durata massima dei contratti a termine in contrasto con la direttiva europea 77/1999/CE, si aprirà una stagione di rivendicazioni anche in sede giudiziaria con l’esposizione delle amministrazioni al risarcimento del danno da violazione del termine europeo secondo la cristallina e granitica giurisprudenza della Corte di cassazione, preludio ad una nuova stagione di “reclutamento in deroga” o stabilizzazione di precari, con buona pace delle aspettative di assunzione di coloro che sono esterni al sistema.

Non solo. Si conferma anche la preoccupazione che il nuovo sistema di reclutamento consista in una deroga eccessivamente ampia all’articolo 97 della Costituzione.

Le assunzioni finalizzate all’attuazione del Pnrr avverranno con modalità selettive estremamente semplificate, sostanzialmente con l’annullamento dei concorsi, ridotti di fatto alla valutazione dei titoli e ad una sola prova scritta. In particolare, per l’iscrizione nell’elenco istituito presso il Dipartimento della Funzione pubblica e finalizzato alle assunzioni a tempo determinato di personale in possesso di alta specializzazione la norma prevede lo svolgimento di procedure idoneative, basate esclusivamente su una prova scritta. Non si comprende come possa essere accertata l’alta specializzazione pure richiesta dalla norma attraverso lo svolgimento di una sola prova scritta.

In molti hanno osservato che questi reclutamenti estremamente semplificati si giustifichino per il fatto che sono finalizzati ad assunzioni a tempo determinato. A parte la circostanza che l’articolo 97 della Costituzione richiede i concorsi per qualsiasi accesso agli impieghi, sia a tempo indeterminato, sia a tempo indeterminato, l’elevatissima percentuale di successiva riserva dei posti nei concorsi vista prima evidenzia come, nella realtà, le assunzioni del Pnrr siano in buona parte solo formalmente a termine, ma destinate a creare una truppa di persone che potranno contare in futuro su concorsi riservati: una vera e propria stabilizzazione. E si è facilissimi profeti, qui ed oggi, ad immaginare che nel futuro, per le ragioni già chiarite, interverranno norme finalizzate ad allargare la platea degli assunti con queste norme straordinarie del Pnrr che saranno stabilizzati.

Guardiamo meglio, ora, nel dettaglio perché il decreto è una rilevante esclusione dei giovani dalla possibilità reale e concreta di inserimento nella PA.

I canali di reclutamento previsti per il rafforzamento delle dotazioni degli enti coinvolti nell’attuazione del Pnrr saranno 3.

Il primo è quello dei concorsi “semplificati” svolti in modalità decentrata dalle singoli amministrazioni. Essi avverranno:

1.      applicando l’articolo 10, comma 1, lettera c), del d.l. 44/2021, convertito in legge 76/2021, ai sensi del quale “per i profili qualificati dalle amministrazioni, in sede di bando, ad elevata specializzazione tecnica, una fase di valutazione dei titoli legalmente riconosciuti e strettamente correlati alla natura e alle caratteristiche delle posizioni bandite, ai fini dell'ammissione a successive fasi concorsuali oltre alla valutazione dei titoli ai sensi del citato articolo 10, lo svolgimento della sola prova scritta”. Dunque, è obbligatoria la valutazione preliminare dei titoli, come strumento di scrematura per l’accesso stesso ai concorsi: elemento che, oggettivamente, impedisce ai giovani neolaureati di concorrere;

2.      con una sola prova scritta: senza la seconda prova, di solito a carattere tecnico specialistico, senza nemmeno la prova orale.

Un concorsino solo formale, nel quale la fanno da padrone i titoli, che non è possibile in alcun modo, tranne per mero sofisma, considerare davvero aperto ai giovani e a coloro, anche meno giovani, che non hanno avuto alcuna esperienza nella PA.

Il secondo canale è quello della chiamata dal primo dei due elenchi che saranno creati sul portale del reclutamento, previsto dall’articolo 3, comma 7, della legge 56/2019: l’elenco riservato a “professionisti ed esperti per il conferimento incarichi di collaborazione con contratto di lavoro autonomo di cui all’articolo 7, comma 6, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165”.

La previsione sembra, in effetti, destare più di qualche perplessità. Non sfuggirà, infatti, che la riforma Madia ha introdotto un vero e proprio divieto per le pubbliche amministrazioni di stipulare, a decorrere dal 1 luglio 2019, contratti di collaborazione coordinata e continuativa “che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai temi e al luogo di lavoro” (comma 5.bis dell’art. 7 d.lgs. 165/2001), sanzionando la violazione del divieto con la nullità del contratto e la previsione di responsabilità erariale. Ora, immaginare che i contratti in parola non abbiano il requisito della continuità risulta davvero difficile, stante la durata prevista e la tipologia di attività di supporto agli uffici che è richiesta. In ogni caso, non può non constatarsi che un istituto come quello degli incarichi di collaborazione, considerato dalla Corte dei conti quasi di per sé foriero di responsabilità erariale e di molto limitato dalla riforma Madia del 2017, diviene forma ordinaria di reclutamento di professionalità ai fini del Pnrr.

In questo elenco potranno iscriversi persone con i seguenti requisiti:

a) almeno cinque anni di permanenza nel relativo albo, collegio o ordine professionale comunque denominato;

b) essere iscritto al rispettivo albo, collegio o ordine professionale comunque denominato;

c) non essere in quiescenza”.

Sembra possibile che un giovane neo laureato disponga di 5 anni almeno di permanenza di iscrizione? Non è evidente l’intento di escludere i giovani?

Come avverrà la selezione? Gli elenchi saranno suddivisi in sezioni corrispondenti alle diverse professioni e specializzazioni e agli eventuali ambiti territoriali, con l’indicazione, da parte dell’iscritto, dell’ambito territoriale di disponibilità all’impiego. E saranno organizzati come vere e proprie graduatorie. Il decreto istitutivo stabilirà come attribuire ai professionisti iscritti uno specifico punteggio, valorizzando le documentate esperienze professionali maturate, il possesso di titoli di specializzazione ulteriori rispetto a quelli abilitanti all’esercizio della professione, purché a essa strettamente conferenti.

Dunque, le amministrazioni, sulla base delle professionalità che necessitano acquisire, inviteranno, seguendo l’ordine della graduatoria, almeno tre professionisti o esperti tra quelli iscritti nel relativo elenco, per sottoporli ad un colloquio selettivo finalizzato al conferimento degli incarichi di collaborazione.

Anche i parametri di determinazione dei punteggi per la definizione delle graduatorie rivelano che non vi sia spazio alcun per i giovani.

Il decreto prevede che 1000 unità inserite in tale elenco vengono reclutate da regioni ed enti locali con incarico di collaborazione “per il supporto nella gestione delle procedure complesse”. Tale previsione rafforza il dubbio circa l’ascrivibilità di tali incarichi tra le collaborazioni autonome (consentite) e quelle a carattere continuativo (vietate e nulle per legge).

Il terzo canale è l’assunzione dal secondo degli elenchi da istituire sul portale del reclutamento, riservato a “personale in possesso di un’alta specializzazione per l’assunzione con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato”.

In questo caso, per i scriversi gli interessati dovranno svolgere procedure idoneative, con le modalità digitali e semplificate di cui all’articolo 10 del d.l. 44/2021, convertito in legge 76/2021, composte dalla sola prova scritta. Il personale idoneo ottiene solo il diritto all’inserimento negli elenchi, sempre in ordine di graduatoria. Le amministrazioni assumeranno mediante una chiamata diretta attingendo alla graduatoria nel suo ordine.

A dimostrazione che anche in questo caso lo spazio per i giovani è sostanzialmente nullo, il decreto evidenzia quali sono i requisiti da possedere per essere considerati potenzialmente persone dotate di “alta specializzazione”, ai fini della quale occorre il possesso della laurea magistrale o specialistica e di almeno uno dei seguenti titoli, in settori scientifici o ambiti professionali strettamente correlati all’attuazione dei progetti:

a) dottorato di ricerca;

b) documentata esperienza professionale di lavoro subordinato, di durata almeno triennale, maturata presso enti e organismi internazionali ovvero presso organismi dell’Unione Europea.

Si può, non senza fondamento, osservare che ai fini dell’attuazione del Pnrr occorre personale davvero qualificato e in qualche modo “fatto e finito”, capace, quindi, di essere operativo da subito, così da giustificare la sostanziale riserva del reclutamento per persone i cui requisiti professionali e di esperienza sono certamente tali da poterli individuare non tra i giovani, bensì tra navigati e talvolta anche attempati professionisti.

Per la verità, rimane irrisolto un problema: la persuasione che dal “privato” sia possibile davvero attingere persone competenti che da un giorno all’altro siano in grado di passare con nonchalance alla PA.

Le cose non stanno così. Le regole dell’azione pubblica sono totalmente diverse da quelle del privato. Basti citare solo tre aspetti:

1.      nel privato è normalissimo intrattenere rapporti con gli appaltatori esterni, configurandoli come vere e proprie partnership: non ci sono necessariamente gare e una volta che il committente reperisca un appaltatore di fiducia, si creano legami indissolubili, altro che “principio di rotazione”; questo apre le porte ad uno strutturale conflitto di interessi che, o verrà occultato o, se verrà gestito secondo l’attuale disciplina di prevenzione dei casi di corruzione amministrativa, rallenterà le attività che si vuole velocizzare;

2.      nel privato la contrattazione collettiva aziendale ed anche i contratti di lavoro individuali hanno un’estesissima forza derogatrice rispetto alle regole normative e dei contratti collettivi nazionali o territoriali. Nel sistema pubblico accade l’esatto opposto. Ed è per questa ragione che soggetti provenienti dal privato che abbiano inteso nel pubblico applicare le regole alle quali erano abituati hanno creato solo disastri, come ben sanno molti enti locali che hanno visto all’opera “direttori generali” provenienti dal privato o capi degli uffici tecnici appena usciti dai lori studi professionali;

3.      la contabilità pubblica è parossistica e totalmente inconciliabile con quella privata, soggetta a controlli e responsabilità, per prima quella erariale, che chi non conosce non ha nemmeno l’idea di come affrontare; la Corte dei conti ha recentemente richiamato gli uffici tecnici ad una maggiore collaborazione con gli uffici finanziari, evidenziando -non a torto- che il rispetto dei tempi per l’attuazione della spesa di investimento passa dall’allineamento tra il ciclo tecnico e quello contabile: la contabilità pubblica non si impara al volo, servono anni ed esperienza.

Un inserimento davvero efficace di chi proviene dall’esterno richiede tempo e formazione. I reclutamenti veloci ai quali ha pensato il Governo appaiono davvero poco persuasivi, perché non sono accompagnati da momenti di formazione super intensiva. Il breve tratto di tempo di assunzione avrà un tempo inerziale nel quale i titoli e le esperienze nel privato, utili a passare le selezioni, non avranno alcuna utilità per un inserimento immediato nei meccanismi operativi, in assenza di una formazione interna profondissima.

In ogni caso, anche volendo giustificare le segnalate esternalità negative del sistema appena varato con la necessità di adempiere ad impegni assunti in sede europea e non perdere l’occasione di spendere le ingenti risorse del NGEU, non può non evidenziarsi che l’esclusione dei giovani dai ranghi della PA si riscontra anche in alcune scelte “a regime”, che riguardano il sistema di reclutamento voluto dal Governo al di là delle contingenze del Pnrr.

Il decreto interviene di nuovo sulle “progressioni verticali” o “di carriera”, sostituendo il comma 1-bis dell’art. 52 del d.lgs. 165/2001. Lo scopo è nobile: aprire il lavoro pubblico a prospettive appunto di carriera oggi piuttosto complicate, specie per i vertici. Il passaggio dalla qualifica di funzionario a quello di dirigente richiede necessariamente il concorso pubblico.

La riforma incide sulle procedure delle progressioni con due rilevantissime novità:

1)      si chiude con la progressione verticale effettuata, in disparte l’attuale deroga introdotta dalla riforma Madia, con riserva di posti nei concorsi pubblici e si torna all’antico, cioè a procedure interamente riservate al personale interno, per non oltre il 50% delle assunzioni possibili in base alla programmazione. Ancora una volta, non saranno concorsi, ma procedure “comparative” basate:

a.       sulla valutazione positiva conseguita dal dipendente negli ultimi tre anni di servizio,

b.      sull’assenza di provvedimenti disciplinari,

c.       sul possesso di titoli professionali e di studio ulteriori rispetto a quelli previsti per l’accesso all’area,

d.      sul numero e sulla tipologia degli incarichi rivestiti.

2)      l’estensione della progressione verticale anche all’accesso alla dirigenza. Si stabilisce che una quota non superiore al trenta per cento dei posti residui disponibili (cioè il 50% dei posti complessivi, essendo il resto da riservare alle assunzioni con il corso-concorso) sulla base delle facoltà assunzionali autorizzate (nello Stato) è riservata, da ciascuna pubblica amministrazione al personale in servizio a tempo indeterminato, in possesso dei titoli di studio previsti a legislazione vigente e che abbia maturato almeno cinque anni di servizio nell’area o categoria apicale. La progressione sarà gestita mediante procedure comparative bandite dalla Scuola nazionale dell’amministrazione, che tengono conto:

a.       della valutazione conseguita nell’attività svolta,

b.      dei titoli professionali, di studio o di specializzazione ulteriori rispetto a quelli previsti per l’accesso alla qualifica dirigenziale,

c.       della tipologia e del numero degli incarichi rivestiti con particolare riguardo a quelli inerenti agli incarichi da conferire

d.      della valutazione delle capacità, attitudini e motivazioni individuali.

I bandi definiscono le aree di competenza osservate e prevedono prove scritte e orali di esclusivo carattere esperienziale, finalizzate alla valutazione comparativa e definite secondo metodologie e standard riconosciuti.

Il decreto espressamente prevede che tali previsioni normative dettate per lo Stato “costituiscono norme di principio alle quali le regioni e gli enti locali conformano la propria legislazione”. A prescindere dal fatto che gli enti locali non hanno potestà di legiferare, non è difficile prevedere immediate modifiche ai regolamenti comunali e provinciali sui concorsi per inserire norme che consentano di promuovere a dirigenti una fetta di funzionari apicali, così ancora una volta restringendo l’accesso alla dirigenza dall’esterno.

Inoltre, la riapertura delle progressioni verticali al sistema delle procedure interamente riservate al 50% dei posti previsti dalla programmazione, evidentemente finisce per sottrarre al “mercato” dei giovani in particolare una rilevantissima quota di ingressi nella PA, che resta appannaggio di chi nella PA già lavora.

Ancora, la rinuncia al concorso pubblico in favore di “procedure comparative” basate su criteri oggettivamente discutibili, apre la stura al rischio di progressioni verticali tagliate e cucite su misura di chi eccella soprattutto per conoscenze, buoni rapporti e tessere di partito.

Un altro elemento sintomatico della chiusura del reclutamento nella PA ai giovani, esattamente all’opposto di quanto si narra, è la pura e semplice follia consistente nell’abolizione del nulla osta ai fini della mobilità del personale.

Si tratta di un’idea ricorrente, coltivata molte volte da tanti Governi, ma fin qui mai attuata. Questa potrebbe essere la volta buona.

Tale idea in effetti gode di larghi favori nella pubblica amministrazione, tendenzialmente da due tipologie di soggetti:

a)      i vertici, tanto politici quanto tecnici, delle amministrazioni, che così si esentano dal dover effettuare procedure concorsuali e inoltre possibilmente riescono ad “orientare” le mobilità così da scegliere chi meglio loro aggradi; non sempre la scelta risulterebbe orientata verso i migliori, ma alte sarebbero le possibilità di designazioni dovute a “comune sentire” politico;

b)      molti dipendenti, per i quali si aprirebbe la possibilità di andare da un ente all’altro con piena libertà, aspetto non secondario quando per qualsiasi ragione la sede di lavoro non risulti pienamente gradita o soddisfacente.

Ma, queste ragioni sono puramente speculative ed “egoistiche”. Per quanto rispettabili, infatti, sono guidate da interessi esclusivamente circoscritti alla sfera dell’ente “ricevente” o a quella personale del dipendente. E’ molto da dubitare, però, della possibilità di attribuire a queste ragioni anche dignità di perseguimento di interessi pubblici collettivi.

La “liberalizzazione” della mobilità comporta certamente lesioni molto forti alla stabilità organizzativa delle amministrazioni pubbliche, allo stesso modo dell’interpretazione -recentemente stoppata dalla Funzione pubblica- del diritto all’aspettativa nel caso di conferimento ad un dipendente pubblico di un incarico ai sensi dell’art. 110 Tuel da parte di una diversa amministrazione locale. Se un’amministrazione “ricevente”, per le ragioni viste sopra, si può considerare soddisfatta dal sistema “liberalizzato”, simmetricamente l’amministrazione dalla quale proverrebbe il dipendente si ritroverebbe priva di una unità lavorativa e con la necessità di ripristinare l’organico. Magari, ricorrendo a quel punto a sua volta a procedure di mobilità, che inciderebbero sull’organizzazione di una terza amministrazione e così via.

E’ evidente che in un sistema assunzionale basato sul principio della programmazione, eliminare il nulla osta del datore di lavoro pubblico per le istanze di mobilità, significa polverizzare qualunque Piano triennale del fabbisogno di personale, in quanto sarebbe del tutto impossibile per gli enti programmare i fabbisogni non potendo stimare le mobilità in uscita che dipenderebbero esclusivamente dalla volontà dei singoli.

Il decreto, nella consapevolezza di queste vastissime disfunzioni, potenzialmente deflagranti, cerca di apportare un correttivo, che sarà peggiore del male. Si prevede, infatti che il nulla osta sarà necessario:

a)      nel caso in cui la mobilità coinvolga posizioni motivatamente infungibili,

b)      nel caso in cui la mobilità riguardi personale assunto da meno di tre anni;

c)      nel caso in cui a richiedere la mobilità siano dipendenti di amministrazioni che abbiano una carenza di organico superiore al 20 per cento nella qualifica corrispondente a quella del richiedente.

Facilissima profezia: si scatenerà un contenzioso infinito. Infatti, al di là della difficoltà di dimostrare l’infungibilità delle posizioni, chiaramente ogni provvedimento di tale natura finirà sotto la scure dei ricorsi al giudice ordinario, la cui giurisprudenza tipicamente ondivaga acuirà il caos. Per quanto riguarda il personale assunto da meno di tre anni, le deroghe illegittime saranno moltissime: tanto, come sempre, nessun controlla; il triennio è riferito alla presenza nell’amministrazione pubblica o nell’ente? si considera anche il servizio prestato con contratto a tempo determinato o solo quello successivo alla stabilizzazione? Infine, il terzo elemento che potrebbe far rientrare dalla finestra il nulla osta uscito dalla porta appare grottesco: in assenza di dotazioni organiche fisse, poiché esse sono annualmente conseguenza del piano dei fabbisogni e delle risorse disponibili, come è possibile calcolare un organico e di questo il 20% non coperto? La norma non fa per nulla i conti con le previsioni dell’articolo 6 del d.lgs 165/2001 e, come rilevato, getta le basi per il caos.

E’ semplicemente un pannicello caldo la previsione secondo la quale resta salva, per l’amministrazione che subirà la volontà del dipendente di andar via, di differire, per motivate esigenze organizzative, il passaggio diretto del dipendente fino ad un massimo di 60 giorni dalla ricezione dell’istanza di passaggio diretto ad altra amministrazione.

A conferma che la riconfigurazione della mobilità come sopra descritto è una follia, il decreto esclude che le nuove regole si applichino al personale della scuola, della sanità nonché a quello assunto per il Pnrr; ad essere devastati da questa norma saranno principalmente i comuni, soprattutto quelli di minore dimensione dove più forte è la domanda di uscita e dove più difficile risulta attuare nuove assunzioni.

Comunque, va rilevato, che anche questa misura di liberalizzazione della mobilità in uscita costituisce un ulteriore vincolo all’innesto di nuove professionalità reclutate con contratto, perché il sistema si prefigura già come un modo di spostare pedine nella scacchiera del pubblico impiego.

E si apre al rischio della formazione di enti “chioccia”, che assumono nella sostanza per conto di altri (vedi la strana situazione del comune di Allumiere, nel Lazio). Piccoli comuni “vassalli”, potranno in continuazione “sfornare” neo assunti con i concorsi “semplificati” e “lanciarli” in altre amministrazioni, sotto la “guida” sapiente di mani abituate a gestire il “merito” inteso come merito di avere tessere e “conoscenze” (non già operative e culturali) giuste.

In queste condizioni, altre norme a regime, come la possibilità affidata ai contratti di istituire l’area delle alte professionalità come stabile qualificazione del personale (a differenza della precaria attribuzione delle Posizioni Organizzative) e di superare l’anacronistico tetto al trattamento accessorio del 2016, non possono assumere una valenza significativa, anche perché la loro attuazione appare incerta e legata a non meglio precisati vincoli di finanza pubblica.

Per altro, l’accesso alla nuova area delle alte specializzazioni avverrà anch’esso sulla base delle progressioni verticali: sempre escludendo, quindi, realmente i giovani.

Per i quali resta di fatto la sola consolazione del tentativo di attivare, finalmente dopo 10 anni, il contratto di apprendistato, professionalizzante e di alta formazione e ricerca. Ma, lo stanziamento previsto è irrisorio: 700.000 euro in tutto. Una sperimentazione riservata a 4 gatti.

L’unica innovazione del decreto consiste nell’introduzione di un nuovo Piano integrato di attività e organizzazione, un nuovo adempimento del tutto contrario sulla carta alla logica della semplificazione: attendiamo, speranzosi, il dPR che entro sessanta giorni dovrà dirci gli adempimenti assorbiti nel nuovo Piano e, quindi, abrogati.

Resta, in ogni caso evidente, che raggruppare le decine e decine di pianificazioni vigenti in un unico piano non significa affatto “semplificare”: implica solo produrre un mega-piano mostruoso. Che, forse, sarà meno complesso per gli enti con meno di 50 dipendenti, ma in ogni caso i pesantissimi e più che discutibili oneri programmatori resteranno intatti.

 

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