Di Vitalba Azzollini e Luigi Oliveri
Lo smart working esclude i lavoratori over 50 dalla sospensione dal lavoro e dallo stipendio, ma non dall’obbligo vaccinale.
Non sono rispondenti al dettato normativo le dichiarazioni rilasciate ieri dal sottosegretario alla salute Andrea Costa, secondo il quale poiché la norma primaria impone alle persone sopra i 50 anni l’obbligo vaccinale, allora il super green pass vale anche per chi sia in smart working.
La “norma primaria” è l’articolo 4-quater del d.l. 44/2021, convertito in legge 76/2021, come modificato dall’articolo 1 del d.l. 1/2022, ai sensi del quale dall’8 gennaio e fino al 15 giugno 2022 tutti i cittadini over 50 debbono vaccinarsi “al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell'erogazione delle prestazioni di cura e assistenza”.
Le conseguenze sull’attività lavorativa, però, sono contenute in un altra norma: si tratta dell’articolo 4-quinquies, sempre del d.l. 44/2021, ai sensi del quale a decorrere dal 15 febbraio 2022, i dipendenti di datori pubblici e privati (menzionati dagli articoli 9-quinquies, commi 1 e 2, 9-sexies, commi 1 e 4, e 9-septies, commi 1 e 2, del d.l. 52/2021, convertito in legge 87/2021), se over 50, incontrando due doveri: il primo è possedere il green pass rafforzato; il secondo è esibire il certificato, se richiesto. Tali due doveri sono funzionali ad uno scopo chiaramente espresso dalla norma: “per l'accesso ai luoghi di lavoro nell'ambito del territorio nazionale”.
Simmetricamente, ai sensi del comma 2 del citato articolo 4-quinquies, del d.l. 44/2021, i datori di lavoro, pubblici e privati, sono obbligati a verificare che rispettino i due distinti doveri visti prima i propri dipendenti over 50 “che svolgono la propria attività lavorativa nei rispettivi luoghi di lavoro”.
Prima di passare alla verifica della fondatezza delle parole del sottosegretario Costa, va notato che il legislatore non manca di creare l’ormai usuale intarsio normativo, che crea problemi non solo di lettura, interpretazione e applicazione, ma anche di reperimento delle norme stesse tra i vari testi legislativi. Infatti, la disciplina dei controlli del super green pass per gli over 50 non è contenuta nel decreto che prevede i controlli del green pass base, vale a dire il d.l. n. 52/2021, come ci si sarebbe aspettati, ma – come detto – nel d.l. 44/2021. Quest’ultimo provvedimento, nell’aprile 2021 aveva introdotto l’obbligo vaccinale per medici e personale sanitario, e in seguito era stato integrato con le prescrizioni relative alle categorie di insegnanti e personale scolastico, personale delle RSA ecc, alle quali l’obbligo stesso era stato progressivamente esteso. Il fatto di disporre la regolamentazione dei controlli del green pass rafforzato per l’accesso al lavoro nel decreto dedicato agli obblighi vaccinali, con una commistione fra obblighi diversi, tradisce l’intento del legislatore. Nonostante l’obbligo vaccinale sia del tutto distinto da quello di super green pass, nonché provvisto di un peculiare procedimento di accertamento e di una propria sanzione, di fatto i due obblighi sono stati concepiti dal legislatore come strettamente connessi. Connessi al punto tale che il legislatore sembra voler demandare al datore di lavoro, per il tramite del pass, il controllo dell’adempimento della vaccinazione, che invece spetterebbe esclusivamente allo Stato.
La lettura delle norme offre gli elementi che contraddicono la chiave di lettura proposta dal sottosegretario Costa. Infatti, si nota che il dovere di possedere ed esibire il super green pass è funzionale all’accesso nei luoghi di lavoro e, allo stesso tempo, il datore di lavoro controlla il rispetto di tali doveri nei confronti dei dipendenti che prestano la propria attività entro i luoghi di lavoro. Il d.l. n. 44, sull’obbligo vaccinale e di super green pass per gli over 50, contiene una serie di rimandi al d.l. 52 sull’obbligo di green pass per tutti gli altri lavoratori, e quest’ultimo decreto dispone una dettagliata disciplina dei controlli, che debbono avvenire al momento dell’entrata nella sede di lavoro, oppure a campione nei locali aziendali, mediante l’apposita app prevista. Si tratta di controlli non espletabili se non nella sede lavorativa, sì che non potrebbe affermarsi che la verifica del green pass vada effettuata anche per il lavoratore a distanza, reputando “sede” di lavoro il luogo ove egli presti la propria attività. È vero che è consentita al datore di lavoro la conservazione del green pass del dipendente, e questa modalità potrebbe essere applicata anche al lavoro svolto fuori sede. Ma, da un lato, questa modalità è stata prevista al fine di evitare disagi ai tornelli o, comunque, al momento dell’accesso dei lavoratori; dall’altro lato, non può essere adottata laddove il lavoratore non vi consenta.
A ciò si aggiunga un ulteriore elemento di riflessione. Nel decreto (d.l. 127/2021) mediante cui il green pass è stato reso obbligatorio per lavorare, il governo ha qualificato tale strumento anche come misura di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. La medesima formulazione è adottata nel decreto che ha imposto l’obbligo di super green pass agli over 50, là dove si dice testualmente che coloro i quali «comunichino di non essere in possesso della certificazione verde COVID-19» oppure che «risultino privi della stessa al momento dell'accesso ai luoghi di lavoro», sono considerati assenti ingiustificati, ciò al fine di «tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro». Appare palese che il green pass non potrebbe essere imposto come è misura di salute e sicurezza quando il lavoratore svolge la propria attività in posti diversi dalla sede dell’azienda.
Ad ulteriore conferma, le sanzioni previste a carico dei dipendenti over 50 privi del super green pass (previste dal comma 4 dell’articolo 4-quinquies, del d.l. 44/2021) scattano solo se detti dipendenti comunichino al datore di non essere in possesso della certificazione o se siano colti privi di essa ma sempre “al momento dell’accesso ai luoghi di lavoro”. Tale ultima circostanza non può ricorrere se il dipendente presta attività lavorativa esclusivamente a casa propria o in luoghi non considerabili come “di lavoro”.
E’, allora, inevitabile concludere che se il dipendente non svolge la prestazione lavorativa nel luogo di lavoro, ad esempio in quanto in smart working, il datore, tanto pubblico quanto privato, non può svolgere nei suoi confronti alcun controllo sul possesso del super green pass.
Quindi, lo smart working, se inteso come “home working” o, nell’ambito del lavoro pubblico come la nuova fattispecie di “lavoro da remoto” che rimpiazza il telelavoro, non implicando accesso a luoghi di lavoro che possa mettere a repentaglio la sicurezza di altri lavoratori, esclude verifiche sulla certificazione verde.
E’, semmai, evidente un altro aspetto: l’assenza di vaccinazione e, quindi, il mancato possesso del green pass non può e non deve essere posto come causa e motivazione dell’accordo individuale di smart working, in particolare nell’ambito del lavoro pubblico. Infatti, porre un dipendente privo di ciclo vaccinale in lavoro agile dal 15 febbraio 2022 ha l’evidente fine di aggirare la norma e, per altro, produce un danno erariale, corrispondente al mancato risparmio delle retribuzioni illegittimamente non sospese in forza dell’accordo individuale elusivo degli obblighi normativi. Ma, per il datore pubblico restano aperti anche possibili profili di illecito penale.
Restano, tuttavia, aperti altri problemi. Si pensi, ad esempio, ad accordi individuali di lavoro agile conclusi con over 50 prima dell’8 gennaio 2022, data di entrata in vigore dell’obbligo vaccinale e scadenti oltre il 15 febbraio 2022. Le parti hanno a suo tempo sottoscritto in buona fede e lecitamente l’accordo di smart working. Se esso prevede che il lavoratore non acceda alla sede per alcuni giorni la settimana, allora, dal 15 febbraio, scatta l’assenza ingiustificata e la mancata erogazione dello stipendio solo per le giornate in presenza? O, forse, l’accordo di lavoro agile si deve intendere implicitamente privo di efficacia ex lege, anche se manchi nella norma qualsiasi indicazione? Probabilmente questa potrebbe essere l’interpretazione corretta, considerato che la disposizione di legge ha rango superiore rispetto all’accordo e, dunque, è tale da incidere su di esso, in quanto preposta a tutelare interessi che trascendono quelli delle parti coinvolte, ma hanno una portata più generale (la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro, sopra menzionata).
E c’è il problema degli accordi di lavoro agile con gli over 50 scadenti oltre il 15 febbraio, ma sottoscritti a partire dall’8 gennaio 2022, quando era vigente la nuova disciplina. Si debbono intendere tali accordi come nulli, perché si presume una causa illecita in frode alla legge? O, comunque, li si deve considerare inefficaci? E chi interviene per evidenziare questi vizi e sanzionarli? In questo caso, gli accordi potrebbero essere mantenuti, salvo la verifica del super green pass al primo accesso nei luoghi di lavoro, e l’eventuale annullamento ex lege dell’accordo, ricadendo nella fattispecie precedente.
Altro quesito da porsi è se i datori di lavoro, sulla base della normativa citata prima, possano legittimamente risolvere unilateralmente gli accordi di lavoro agile, magari spinti dalla preoccupazione di voler assolvere in ogni caso ai controlli previsti dalla legge.
Ultimo problema: laddove un datore pubblico o privato non si avveda per tempo che un proprio dipendente over 50 non vaccinato presti comunque attività lavorativa in modalità agile “mista”, alternata alla presenza, potrebbe comunque decidere di considerarlo assente ingiustificato retroattivamente a partire dal 15 febbraio; ma, se il dipendente avesse comunque svolto le prestazioni, sebbene in base ad un contratto nullo, avrebbe in ogni caso diritto allo stipendio, in applicazione dell’articolo 2126 del codice civile (il che per la PA sarebbe danno erariale non di poco conto), a meno di dimostrare appunto l’illiceità della causa dell’accordo di smart working.
Insomma, lungi dal poter affrontare la disciplina nel modo semplificatorio suggerito da alcuni esponenti del governo, la normativa per la sua sommarietà solleva una serie di questioni operative e potenziali contenziosi che sarebbe stato meglio scongiurare. D’altro canto, avrebbe potuto essere diversamente, con una disciplina – quella della certificazione verde nei luoghi di lavoro – che risulta dall’affastellamento di norme succedutesi a breve distanza l’una dall’altra e reperibili in decreti-legge diversi, a seconda che si tratti di green pass base o rafforzato, come visto, e che si devono a propria volta incastrare con le regole sullo smart working, ormai polverizzate tra norme di legge, Dpcm, circolari e Faq?
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