Di Angelo Maria Savazzi
Alcuni interventi normativi che hanno ridisegnato le modalità di accesso ai ruoli dirigenziali nelle amministrazioni pubbliche sono stati pensati con la finalità di rafforzare e valorizzare le competenze interne. Dobbiamo prestare attenzione agli strumenti utilizzati che evocano corsie preferenziali che suscitano serie perplessità.
1) L’art. 28 D.Lgs. 165/2001 riserva il 15% dei posti dirigenziali disponibili ai funzionari apicali delle singole amministrazioni e un altro 15% ai funzionari che hanno già avuto incarichi dirigenziali, per un totale massimo del 30%. Meno male che almeno c’è questo limite! Favorire, con percorsi non concorsuali “riservati”, chi ha avuto incarichi dirigenziali di natura fiduciaria (sic!) o i funzionari che hanno fatto “solo” i funzionari, dal mio punto di vista, non ha nulla a che fare con facilitare l’avanzamento di carriera.
2) È giusto valorizzare le esperienze maturate dai funzionari, ma attenti: quelle esperienze non necessariamente disegnano un profilo di idoneità per l’accesso alla dirigenza e non solo per i profili di competenze che le modifiche all’art. 28 ritengono indispensabili per disegnare la figura del dirigente (motivazione, attitudini, capacità). Quindi può essere un titolo ma, secondo me, non dovrebbe costituire una condizione abilitante per percorsi riservati di accesso alla dirigenza.
3) Essere un funzionario non significa essere un bravo dirigente; sono compiti diversi che richiedono verifiche di tipo diverso. In parte è scritto nell’art. 28: serve intercettare capacità, attitudini e motivazioni. Purtroppo, però, non bastano: un dirigente deve essere in grado, certo, di tessere relazioni, di guidare i propri collaboratori ecc. ecc., ma deve saper leggere un progetto (e magari anche scriverlo), deve saper distinguere il perimetro della macro-organizzazione dalla micro-organizzazione, deve saper leggere (e magari anche scrivere) provvedimenti amministrativi e atti datoriali. Perché saper guidare le persone significa, poi, anche saper individuare e applicare gli strumenti che l’ordinamento richiede in relazione alle decisioni da assumere. Il dirigente deve saper tessere relazioni, ma deve conoscere come funziona una conferenza di servizi, deve saper motivare e valorizzare le persone ma deve conoscere gli strumenti che può utilizzare per motivarle e valorizzarle, deve fare scelte ottimali per l’acquisizione di beni e servizi, ma deve conoscere e applicare i limiti ordinamentali che sono fisiologici, sì fisiologici, nel contesto delle amministrazioni pubbliche, perché utilizziamo risorse pubbliche e di questo utilizzo dobbiamo dare conto alla comunità amministrata e perché i vincoli che noi abbiamo non sono minimamente ipotizzabili in altri contesti.
3) Nutro forti perplessità verso i meccanismi di cooptazione che possono essere sottesi alle cosiddette procedure comparative, in qualsiasi ambito queste vengano utilizzate. Purtroppo, le procedure comparative sono una patologia dei sistemi di reclutamento perché non danno le giuste opportunità a tutti coloro che aspirano ad un certo tipo di carriera e affidano ad una forte discrezionalità, che spesso rasenta l’arbitrarietà, gli ingressi nelle amministrazioni pubbliche. Purtroppo, le “procedure comparative”, riservate a pochi, utilizzate al posto delle “procedure concorsuali”, aperte a tutti coloro che hanno determinati requisiti, disegnano un perimetro di discrezionalità molto ampio che può essere utilizzato in modo non appropriato e per fini diversi rispetto all’attuazione del principio costituzionale del “buon andamento”.
4) Abbiamo necessità di rafforzare la distinzione tra indirizzo politico e attività gestionale e dobbiamo evitare che per fronteggiare esigenze reali (un profilo di dirigenti che non sia solo conoscenza dei processi presidiati), si mettano in campo strumenti di cooptazione fiduciaria.
5) Infine, non bisogna nascondere i problemi applicativi di modifiche normative (art. 28) che prendono di mira una norma ma lasciano intatte le altre e, quindi, pongono seri problemi applicativi. Ma purtroppo il legislatore e chi tecnicamente lo supporta sotto questo profilo è molto deludente. Vediamo cosa è successo con il PIAO (con il rischio serio di paralisi dell’attività programmatoria che solo grazie alla lungimiranza degli enti si è evitata) e, in passato, con la riforma delle province nella quale le basi fondamentali del diritto costituzionale e della gerarchia delle fonti sono state messe in discussione, con il disastro che ne è seguito a seguito del doveroso intervento della Corte Costituzionale che però non ha potuto far niente rispetto alle conseguenze che tale disastro ha generato nell’apparato pubblico.
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