Cerchiamo, però, di partire dal dato normativo e, quindi, dalla lettura di quanto prevede l’articolo 52, comma 1-bis, del d.lgs 165/2001:
1. le
progressioni fra le aree e, negli enti locali, anche fra qualifiche diverse,
avvengono
a. tramite
procedura comparativa basata
i.
sulla valutazione positiva conseguita dal
dipendente negli ultimi tre anni in servizio,
ii.
sull'assenza di provvedimenti disciplinari,
iii.
sul possesso
1. di
titoli o competenze professionali
2. ovvero
di studio ulteriori rispetto a quelli previsti per l'accesso all'area
dall'esterno,
iv.
nonché sul numero e sulla tipologia degli
incarichi rivestiti.
Dovere dell’interprete e dell’operatore
è attenersi alle disposizioni normative che, in base al principio di legalità,
sono vincolanti.
Il primo elemento degno di nota è
che le progressioni verticali come modificate dal d.l. 80/2021 non sono un
concorso, né pubblico con riserva di posti, né interamente riservato. Infatti,
danno luogo ad una “procedura comparativa”.
Cos’è una “procedura
comparativa”? Prima di provare ad intuire, chiediamoci cosa sia, invece, la
procedura che da essa è sostituita, cioè il concorso. Essa è, ovviamente, uno
strumento selettivo, posto a reperire, tra una serie di candidati, quelli che
mostrino rispetto agli altri migliori potenzialità nello svolgere le attività
connesse alle qualifiche dei ruoli pubblici. Tali migliori qualità sono
evidenziate dal superamento di una serie di prove, scritte, tecnico-pratiche e
orali, riguardanti l’insieme delle materie e delle regole connesse al lavoro da
svolgere, con le valutazioni più elevate. Scopo del concorso, quindi, è stilare
una graduatoria, attribuendo specifici punteggi ed accertando il diritto alla
sottoscrizione del contratto di lavoro solo in favore di coloro che si
collochino in graduatoria nei posti più elevati, utili per l’assunzione.
Si nota che il concorso, di per
sé, non valuta le precedenti esperienze lavorative, a meno che non si tratti di
concorso per esami ed anche per titoli. In questo caso, questi ultimi
contribuiscono a determinare il punteggio complessivo, una cui parte è, dunque,
connessa all’esperienza stessa. Ma, nei concorsi tradizionali si guarda
all’esperienza in modo soprattutto formale: si attribuisce un certo punteggio
alla durata di un precedente rapporto di lavoro ed alla qualifica. Poca e
complessa è l’attenzione verso l’esperienza in quanto tale, considerata come
bagaglio di capacità acquisite ed affinate nel tempo, quale requisito
soggettivo distinto dalle nozioni tecniche e culturali.
Spetta alle prove concorsuali la
capacità di abbinare all’esposizione di regole e criteri tecnici, anche
l’evidenziazione di una certa esperienza.
Ma, per un neo assunto quanto può
contare davvero l’esperienza? Poco, si direbbe. Ed è il difetto del d.l.
44/2021, che ha puntato troppo su un requisito soggettivo incompatibile di
certo con l’intento di aprire i concorsi ai giovani, che in quanto tali
esperienze lavorative e professionali ne hanno poche.
Nel caso, invece, del passaggio
di carriera, l’esperienza può contare. Il passaggio di carriera altro non
dovrebbe essere se non l’occasione fornita a dipendenti che abbiano già
mostrato capacità e propensioni, di accedere ad una qualifica e ad incarichi di
maggiore complessità.
A differenza del concorso, la
progressione di carriera non cerca di scoprire un talento inespresso, bensì di
valorizzare professionalità che si sono già manifestate potenzialmente tali da
consentirne la loro ascrizione a qualifiche o categorie più elevate.
L’esperienza pare normale che conti.
La Corte costituzionale con la
sentenza 167/2013 (una delle tantissime sul tema) ha specificato che “in
base alla giurisprudenza di questa Corte, un interesse pubblico per la deroga
al principio del pubblico concorso, al fine di valorizzare pregresse esperienze
professionali dei lavoratori assunti, può ricorrere solo in determinate
circostanze: è necessario, infatti, che la legge stabilisca preventivamente le
condizioni per l’esercizio del potere di assunzione, subordini la costituzione
del rapporto a tempo indeterminato all’accertamento di specifiche necessità
funzionali dell’amministrazione e preveda procedure di verifica dell’attività
svolta; il che presuppone che i soggetti da assumere abbiano maturato tale
esperienza all’interno della pubblica amministrazione, e non alle dipendenze di
datori di lavoro esterni (sentenza n. 215 del 2009). Inoltre, la deroga al
predetto principio deve essere contenuta entro determinati limiti percentuali,
per non precludere in modo assoluto la possibilità di accesso della generalità
dei cittadini a detti posti pubblici (sentenza n. 108 del 2011).
Il testo novellato dell’articolo
52, comma 1-bis, del d.lgs 165/2001 sembra in linea con quanto visto fin qui. Il
legislatore non punta sulle nozioni e competenze (il sapere), quanto sul saper
fare: gli elementi da considerare sono strettamente connessi proprio alle
esperienze.
Allora, perché non un concorso,
ma una prova comparativa? Perché non si tratta di individuare persone dotate di
conoscenze e nozioni che garantiscono una preparazione di base tale da lasciar
investire sulla loro efficace immissione nei ruoli, bensì di attestare
definitivamente l’upgrade, l’incremento della professionalità della persona.
Non necessariamente occorre
mettere alla prova, in una prova concorsuale, i potenziali aspiranti alla
progressione: è opportuno verificare le loro esperienze e tra queste scegliere
quelle maggiormente convincenti circa l’acquisizione delle capacità e
competenze necessarie per la qualifica superiore.
Ecco, quindi, che non realizza un
concorso, inteso come contemporaneo svolgimento di prove, ma principalmente un
confronto tra curriculum. La progressione verticale può anche non sboccare,
quindi, in un confronto paritario tra soggetti, allo scopo di verificare quale
tra essi scegliere.
Per individuare chi, tra i
potenziali interessati, passi alla qualifica superiore può bastare appunto solo
la comparazione delle posizioni dei candidati.
Il problema consiste nelle
modalità con le quali gestire questa comparazione. La legge dà poche e
laconiche indicazioni.
La prima è certamente connessa
all’esperienza, anche se in via indiretta. Non si chiede di valutare, cioè, il
curriculum del candidato, ma di dare un peso alla valutazione triennale
ottenuta. Detta valutazione è sinteticamente rappresentativa del giudizio che
il datore ha espresso negli anni sui risultati conseguiti ed è quindi, di per sè,
è valutazione di esperienza, alla luce dei risultati e non della descrizione
delle attività svolte, sottesa comunque alla valutazione ottenuta.
Come comparare questo elemento?
Con una griglia di punteggi, da costruire ed approvare come allegato o articolo
del regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi.
Su un massimale di punteggi
attribuibili, pari a 100, si deve stabilire il peso complessivo della
valutazione: 50? 40? 60? La tabella deve stabilire, poi, i sottocriteri,
connessi a fasce di punteggio raggruppate, o sistemi simili.
Il secondo elemento da comparare
appare una sorta di criterio “on off”: l’assenza di procedimenti disciplinari.
Si tratta di un requisito per accedere alla progressione? Non sembra. Non pare
che il legislatore escluda dalla progressione chi abbia subito un procedimento
disciplinare. Il criterio sembra invece da gestire mediante la sottrazione di
punti, tanto maggiore quanto più rilevante sia la sanzione. Il regolamento
dovrebbe anche indicare l’arco temporale da considerare per i procedimenti
disciplinari. Non può che tenersi conto della disposizione contenuta
nell’articolo 58, comma 5, del Ccnl 21.5.20218, ai sensi del quale “Non può
tenersi conto, ad alcun effetto, delle sanzioni disciplinari decorsi due anni
dalla loro irrogazione”.
Anche per quanto riguarda il
possesso di titoli professionali e di studio ulteriori rispetto a quelli
previsti per l'accesso all'area il regolamento deve prevedere una griglia di
assegnazione di punteggi, distinta per titoli professionali (quali?
Abilitazioni? Referenze lavorative anche di altri settori non pubblici?) e
titoli di studio, predeterminando i punteggi.
Quarto elemento: numero e
tipologia degli incarichi rivestiti. Il regolamento deve definire appunto quali
siano le tipologie di incarico considerabili valide ai fini della
determinazione del punteggio, assegnando loro un determinato peso (per esempio,
mansioni superiori, incarichi di responsabilità procedimentale, ovviamente
connessi a provvedimenti espressi e tracciabili), connesso alla durata e da
moltiplicare per il numero.
Al termine dell’attribuzione dei
punteggi, si crea comunque una graduatoria. La procedura è sì comparativa, ma
anche selettiva. Non si può trattare di una comparazione arbitraria, ma da
agganciare saldamente a pesi e sotto pesi.
Nulla esclude, comunque, che a
parità di punteggio o all’interno di una certa fascia di punteggi,
l’amministrazione decida di approfondire, con ulteriori elementi valutativi,
legati ad un colloquio o ad una prova pratica.
L’Anci prevede che le procedure
selettive siano rivolte a dipendenti che dispongano dei seguenti requisiti:
- anzianità minima di 36 mesi
nella categoria immediatamente inferiore;
- assenza di provvedimenti
disciplinari nell’ultimo biennio antecedente il termine di scadenza per la
presentazione della domanda di partecipazione alla procedura
di selezione;
- possesso dei requisiti
richiesti per l’accesso dall’esterno al posto oggetto di selezione.
L’indicazione dell’Associazione non è corretta. Infatti, la
proposta di regolamento è, sotto questo aspetto, affetta dal vizio della violazione
di legge, laddove:
a) aggiunge
un requisito soggettivo, l’anzianità minima di 36 mesi nella categoria
inferiore, non previsto dalla legge. Non si deve dimenticare che una fonte
subordinata alla legge, se non è da questa autorizzata mediante un’espressa
indicazione, non può modificarne o derogarne i contenuti. L’articolo 52, comma
1-bis, non parla minimamente di un’anzianità minima: è da concludere, quindi,
per l’irrimediabile illegittimità di un regolamento di tal fatta, che potrebbe
essere oggetto di immediata tutale, poiché lede immediatamente la posizione
giuridica dei lavoratori;
b) considera
l’assenza di provvedimenti disciplinari nell’ultimo biennio, appunto come
requisito di ammissione, travisando platealmente la previsione normativa, dalla
quale non è legittimi ricavare il riferimento alle sanzioni alla stregua di
requisito di ammissione, bensì come elemento da valutare.
D’altra parte, il regolamento
proposto dall’Anci, su questo punto, cade in una visibile contraddizione,
quando poco dopo considera l’assenza di provvedimenti disciplinari come
elemento da valutare.
In particolare, l’Anci propone
di effettuare la valutazione in base ai seguenti parametri:
a) valutazione positiva
conseguita dal dipendente negli ultimi tre anni in servizio;
b) assenza di provvedimenti
disciplinari;
c) possesso di titoli o
competenze professionali ovvero di studio ulteriori rispetto a quelli previsti
per l’accesso all’area dall’esterno;
d) numero e tipologia degli
incarichi rivestiti.
L’elencazione è conforme a
quella prevista dall’articolo 52, comma 1-bis: dunque è inutile e
controproducente. Sul piano redazionale, un regolamento dovrebbe limitarsi a richiamare
con rinvio dinamico la norma, anche per evitare possibili futuri
disallineamenti.
In quanto alle valutazioni, il
regolamento proposto dall’Anci suggerisce “media delle valutazioni
conseguite dal dipendente negli ultimi tre anni di servizio, valutati
antecedentemente al termine di scadenza per la presentazione della domanda di
partecipazione alla procedura di selezione, per le performance raggiunte in un
posto di categoria immediatamente inferiore a quello oggetto della selezione”.
Pare di poter considerare corretto e condivisibile l’input dell’Associazione.
In quanto ai provvedimenti
disciplinari, la proposta di regolamento indica: “assenza di provvedimenti
disciplinari ai sensi del vigente C.C.N.L. del Comparto Funzioni locali,
nell’ultimo quinquennio dal termine di scadenza per la presentazione della
domanda di partecipazione alla procedura di selezione, punti 5”. E’ un
criterio on-off (in contraddizione coi requisiti di ammissibilità, come
rilevato sopra), che non può soddisfare.
Le sanzioni disciplinari sono
graduate in relazione alla loro gravità. Appare più corretto, pertanto, agire
attribuendo un punteggio non positivo, ma negativo, in relazione alla gravità
appunto della sanzione registrata, come ad esempio:
·
nessuna sanzione= 0 punti;
·
rimprovero verbale= - 2 punti;
·
richiamo scritto= - 4 punti;
·
multa== - 6 punti;
·
sospensione con divieto erogazione della retribuzione
fino a 10 giorni: - 8 punti;
·
sospensione fino a 3 mesi= -10 punti;
·
sospensione fino a 6 mesi= - 12 punti;
·
sospensione oltre i 6 mesi= -15 punti.
Per quanto riguarda titoli,
competenze professionali e titoli di studio ulteriori, rispetto a quelli
previsti per l’accesso alla categoria, l’Anci propone un sistema articolato.
In primo luogo, suggerisce di
valutare le “attività di formazione non obbligatorie, attinenti alla
qualifica professionale/profilo, erogate direttamente dal Comune ovvero da
agenzie formative, istituti di formazione pubblici o privati riconosciuti,
concluse con l’accertamento dell’avvenuto accrescimento della professionalità
del singolo dipendente, attestato attraverso certificazione finale delle
competenze acquisite, svolte nell’ultimo quinquennio, con attribuzione dei
seguenti punteggi”.
Tale criterio è da rigettare.
Non ha nulla, infatti, a che vedere:
a) con
i tioli; lo svolgimento di un corso di formazione non è un titolo. I titoli
sono solo quelli formalmente riconosciuti come tale dalla normativa; dunque si
deve trattar di una formazione regolata, che sbocchi appunto in un titolo
riconosciuto, non bastando la semplice certificazione finale delle competenze;
b) con
l’esperienza professionale: essa deve essere riferita alla valutazione delle
attività concretamente svolte, non alla partecipazioni ad attività formative.
In secondo luogo, l’Anci
suggerisce di valutare “docenze, per almeno ___ mesi complessivi,
riconosciute da altre PA, agenzie formative, istituti di formazione pubblici o
privati riconosciuti, e pubblicazioni attinenti alla qualifica
professionale/profilo”. Si tratta, in effetti, di elementi che possono
qualificare una riconosciuta – da terzi – competenza del lavoratore.
In terzo luogo, l’Anci
suggerisce di graduare i punteggi per titoli di studio, ciò che costituisce
forse la parte più semplice dell’operazione.
Ancora, in quarto luogo si
indica di valutare le “competenze professionali maturate attraverso attività
lavorative in enti/organizzazioni/aziende pubblici o privati in cui il
candidato ha assunto posizioni od incarichi, attinenti alla qualifica
professionale/profilo, di responsabilità e gestione autonoma di risorse
finanziarie e di personale”. Si tratta di un requisito soggettivo più
proprio di una procedura selettiva per l’assegnazione di incarichi ai sensi
dell’articolo 110 del Tuel, del tutto inappropriato per molte progressioni.
Come pensare di poter valorizzare questo criterio per passaggi dalle categorie
B alla C o da questa alla D? Appare davvero fuorviante riferirsi al
responsabilità ed autonoma gestione di risorse finanziarie e di personale.
Infine, l’Anci suggerisce di
valutare come segue “il numero e la tipologia di incarichi rivestiti,
attinenti al profilo oggetto di selezione”:
Posti cat. C |
Posti cat. D |
Assegnatario di beni, Agente contabile/ punti ... |
Economo/ punti ... |
Economo/ punti ... |
Delega funzioni stato civile/ punti
... |
Partecipazione documentata in progetti regionali, nazionali, europei con altre PA/ punti 1 per ogni progetto, lino a max ... |
RUP/punti ... per ciascun incarico, fino a max ... |
Responsabile procedimento o entrata/ punti ... per ciascun procedimento, fino a max ... |
Responsabile procedimento o entrata/ punti 1 per ciascun procedimento, fino a max ... |
Delega funzioni stato civile/ punti ... |
Responsabile P.O./ punti ... |
... |
... |
Appare evidente il travisamento
del concetto di “competenze professionali” ridotto, come si nota, per un verso
alla partecipazione a corsi di formazione e, dall’altro, ad incarichi
rivestiti, alcuni dei quali tra quelli suggeriti del tutto privi di significato,
come l’incarico di economo o delegato di funzioni di stato civile, attività che
costituiscono mere specificazioni dell’attività lavorativa, come in parte anche
gli incarichi di responsabile del procedimento o Rup.
Per capire cosa significhi “competenza”
riferirsi ad elementi formali è fuorviante. Facciamo un esempio pratico: molti
di noi possiedono la patente e guidano; non c’è il minimo dubbio, tuttavia, che
la competenza alla guida di Lewis Hamilton sia di molto superiore a quella della
generalità delle persone.
Non conta, quindi, evidenziare
che qualcuno abbia una “patente”, cioè un incarico o svolga una certa mansione.
Occorre saper valutare il quomodo, come, cioè, quell’attività sia concretamente
svolta.
La competenza professionale è,
dunque, composta da altri elementi:
1. certo,
come rilevato sopra, il riconoscimento di terzi, connesso a pubblicazioni e
docenze;
2. lo
svolgimento delle funzioni con un basso o assente grado di revisioni da parte di
soggetti preposti a controlli o delle autorità alle quali si rimettano i prodotti
della propria attività;
3. il
riconoscimento, anche solo informale, di un ruolo di guida o esperto, confermato
dalla circostanza che colleghi o anche superiori si rivolgano al dipendente,
considerato affidabile nell’affrontare questioni attinenti il proprio lavoro;
4. l’autonomia
operativa, quale grado misurato di elaborare piani operativi, prevenire le
scadenze, presentare alle autorità competenti soluzioni alternative indicando
quelle più opportune;
5. l’iniziativa
autonoma, come grado di attivazione non dipendente da sollecitazioni, direttive
od ordini di servizio;
6. la
sostituzione anche solo temporanea di personale di categoria superiore assente,
almeno nella conduzione delle istruttorie;
7. l’adibizione
formalizzata a mansioni superiori, elemento che l’Anci non ha minimamente
considerato ed invece estremamente rilevante ai fini che interessano;
8. il
contributo dato al conseguimento dei risultati o delle procedure.
Nell’articolo pubblicato su NT
plus del 30 maggio 2022, titolato “Anche la formazione dà punti nelle
progressioni orizzontali” (titolo erroneo, perché l’articolo riguarda le
progressioni verticali), A. Bianco critica, in parte, a sua volta l’impianto
dell’Anci, perché non prevede punteggi connessi ad un colloquio finalizzato “all'accertamento
del possesso e della capacità di utilizzazione concreta delle stesse, sia
all'accertamento delle competenze manageriali e dei comportamenti organizzativi
che caratterizzano la categoria ed il profilo professionale”.
Si ritiene, al contrario, che
gli enti non debbano introdurre e disciplinare alcun colloquio. La norma, che,
come già evidenziato sopra, non è suscettibile di modifiche o integrazioni a
pena di una loro marchiana illegittimità, non prevede nessun colloquio, per la
semplice ragione che la procedura comparativa si fonda esclusivamente sugli
elementi valutativi espressamente richiesti dal legislatore, prevalentemente documentali,
proprio perché non è un concorso.
Ma, poi, oggettivamente, l’accertamento
delle capacità e competenze del dipendente, tali da sostenere una sua
promozione verso una categoria superiore pare avere poco senso se connessa,
anche solo in parte, ad un colloquio: il datore di lavoro deve poter riuscire a
valutare le competenze giorno per giorno, osservando la concreta operatività
del lavoratore, rispetto alla quale il colloquio è privo di senso.
Ricordiamo che nel privato, si
può promuovere semplicemente consolidando le mansioni superiori, facendole
acquisire a titolo definitivo la qualifica superiore connessa, in applicazione
dell’articolo 2013 del codice civile, il che significa osservando sul campo le
effettive capacità del lavoratore.
Nel pubblico, l’applicazione
dell’articolo 2103 del codice civile è inibita, ma la logica è la stessa. La
promozione verso una categoria superiore non può che derivare da un’attenta osservazione
dei comportamenti operativi, ai fini della quale un colloquio vale praticamente
zero, in raffronto agli elementi valutativi espressamente voluti dal
legislatore.
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