lunedì 30 maggio 2022

Criteri per le progressioni verticali


          Il quaderno operativo 34 dell’Anci, che, tra l’altro, propone una metodologia per le progressioni verticali in modo da adeguarla alle innovazioni introdotte dal d.l. 80/2021, conferma tutte le difficoltà interpretative ed operative caratterizzanti l’istituto. Il quaderno, infatti, offre una serie di chiavi di lettura e soluzioni da considerare erronee, ma diffusamente utilizzate dalle amministrazioni.

Cerchiamo, però, di partire dal dato normativo e, quindi, dalla lettura di quanto prevede l’articolo 52, comma 1-bis, del d.lgs 165/2001:

1.      le progressioni fra le aree e, negli enti locali, anche fra qualifiche diverse, avvengono

a.       tramite procedura comparativa basata

                                                                         i.      sulla valutazione positiva conseguita dal dipendente negli ultimi tre anni in servizio,

                                                                      ii.      sull'assenza di provvedimenti disciplinari,

                                                                    iii.      sul possesso

1.      di titoli o competenze professionali

2.      ovvero di studio ulteriori rispetto a quelli previsti per l'accesso all'area dall'esterno,

                                                                     iv.      nonché sul numero e sulla tipologia degli incarichi rivestiti.

Dovere dell’interprete e dell’operatore è attenersi alle disposizioni normative che, in base al principio di legalità, sono vincolanti.

Il primo elemento degno di nota è che le progressioni verticali come modificate dal d.l. 80/2021 non sono un concorso, né pubblico con riserva di posti, né interamente riservato. Infatti, danno luogo ad una “procedura comparativa”.

Cos’è una “procedura comparativa”? Prima di provare ad intuire, chiediamoci cosa sia, invece, la procedura che da essa è sostituita, cioè il concorso. Essa è, ovviamente, uno strumento selettivo, posto a reperire, tra una serie di candidati, quelli che mostrino rispetto agli altri migliori potenzialità nello svolgere le attività connesse alle qualifiche dei ruoli pubblici. Tali migliori qualità sono evidenziate dal superamento di una serie di prove, scritte, tecnico-pratiche e orali, riguardanti l’insieme delle materie e delle regole connesse al lavoro da svolgere, con le valutazioni più elevate. Scopo del concorso, quindi, è stilare una graduatoria, attribuendo specifici punteggi ed accertando il diritto alla sottoscrizione del contratto di lavoro solo in favore di coloro che si collochino in graduatoria nei posti più elevati, utili per l’assunzione.

Si nota che il concorso, di per sé, non valuta le precedenti esperienze lavorative, a meno che non si tratti di concorso per esami ed anche per titoli. In questo caso, questi ultimi contribuiscono a determinare il punteggio complessivo, una cui parte è, dunque, connessa all’esperienza stessa. Ma, nei concorsi tradizionali si guarda all’esperienza in modo soprattutto formale: si attribuisce un certo punteggio alla durata di un precedente rapporto di lavoro ed alla qualifica. Poca e complessa è l’attenzione verso l’esperienza in quanto tale, considerata come bagaglio di capacità acquisite ed affinate nel tempo, quale requisito soggettivo distinto dalle nozioni tecniche e culturali.

Spetta alle prove concorsuali la capacità di abbinare all’esposizione di regole e criteri tecnici, anche l’evidenziazione di una certa esperienza.

Ma, per un neo assunto quanto può contare davvero l’esperienza? Poco, si direbbe. Ed è il difetto del d.l. 44/2021, che ha puntato troppo su un requisito soggettivo incompatibile di certo con l’intento di aprire i concorsi ai giovani, che in quanto tali esperienze lavorative e professionali ne hanno poche.

Nel caso, invece, del passaggio di carriera, l’esperienza può contare. Il passaggio di carriera altro non dovrebbe essere se non l’occasione fornita a dipendenti che abbiano già mostrato capacità e propensioni, di accedere ad una qualifica e ad incarichi di maggiore complessità.

A differenza del concorso, la progressione di carriera non cerca di scoprire un talento inespresso, bensì di valorizzare professionalità che si sono già manifestate potenzialmente tali da consentirne la loro ascrizione a qualifiche o categorie più elevate. L’esperienza pare normale che conti.

La Corte costituzionale con la sentenza 167/2013 (una delle tantissime sul tema) ha specificato che “in base alla giurisprudenza di questa Corte, un interesse pubblico per la deroga al principio del pubblico concorso, al fine di valorizzare pregresse esperienze professionali dei lavoratori assunti, può ricorrere solo in determinate circostanze: è necessario, infatti, che la legge stabilisca preventivamente le condizioni per l’esercizio del potere di assunzione, subordini la costituzione del rapporto a tempo indeterminato all’accertamento di specifiche necessità funzionali dell’amministrazione e preveda procedure di verifica dell’attività svolta; il che presuppone che i soggetti da assumere abbiano maturato tale esperienza all’interno della pubblica amministrazione, e non alle dipendenze di datori di lavoro esterni (sentenza n. 215 del 2009). Inoltre, la deroga al predetto principio deve essere contenuta entro determinati limiti percentuali, per non precludere in modo assoluto la possibilità di accesso della generalità dei cittadini a detti posti pubblici (sentenza n. 108 del 2011).

Il testo novellato dell’articolo 52, comma 1-bis, del d.lgs 165/2001 sembra in linea con quanto visto fin qui. Il legislatore non punta sulle nozioni e competenze (il sapere), quanto sul saper fare: gli elementi da considerare sono strettamente connessi proprio alle esperienze.

Allora, perché non un concorso, ma una prova comparativa? Perché non si tratta di individuare persone dotate di conoscenze e nozioni che garantiscono una preparazione di base tale da lasciar investire sulla loro efficace immissione nei ruoli, bensì di attestare definitivamente l’upgrade, l’incremento della professionalità della persona.

Non necessariamente occorre mettere alla prova, in una prova concorsuale, i potenziali aspiranti alla progressione: è opportuno verificare le loro esperienze e tra queste scegliere quelle maggiormente convincenti circa l’acquisizione delle capacità e competenze necessarie per la qualifica superiore.

Ecco, quindi, che non realizza un concorso, inteso come contemporaneo svolgimento di prove, ma principalmente un confronto tra curriculum. La progressione verticale può anche non sboccare, quindi, in un confronto paritario tra soggetti, allo scopo di verificare quale tra essi scegliere.

Per individuare chi, tra i potenziali interessati, passi alla qualifica superiore può bastare appunto solo la comparazione delle posizioni dei candidati.

Il problema consiste nelle modalità con le quali gestire questa comparazione. La legge dà poche e laconiche indicazioni.

La prima è certamente connessa all’esperienza, anche se in via indiretta. Non si chiede di valutare, cioè, il curriculum del candidato, ma di dare un peso alla valutazione triennale ottenuta. Detta valutazione è sinteticamente rappresentativa del giudizio che il datore ha espresso negli anni sui risultati conseguiti ed è quindi, di per sè, è valutazione di esperienza, alla luce dei risultati e non della descrizione delle attività svolte, sottesa comunque alla valutazione ottenuta.

Come comparare questo elemento? Con una griglia di punteggi, da costruire ed approvare come allegato o articolo del regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi.

Su un massimale di punteggi attribuibili, pari a 100, si deve stabilire il peso complessivo della valutazione: 50? 40? 60? La tabella deve stabilire, poi, i sottocriteri, connessi a fasce di punteggio raggruppate, o sistemi simili.

Il secondo elemento da comparare appare una sorta di criterio “on off”: l’assenza di procedimenti disciplinari. Si tratta di un requisito per accedere alla progressione? Non sembra. Non pare che il legislatore escluda dalla progressione chi abbia subito un procedimento disciplinare. Il criterio sembra invece da gestire mediante la sottrazione di punti, tanto maggiore quanto più rilevante sia la sanzione. Il regolamento dovrebbe anche indicare l’arco temporale da considerare per i procedimenti disciplinari. Non può che tenersi conto della disposizione contenuta nell’articolo 58, comma 5, del Ccnl 21.5.20218, ai sensi del quale “Non può tenersi conto, ad alcun effetto, delle sanzioni disciplinari decorsi due anni dalla loro irrogazione”.

Anche per quanto riguarda il possesso di titoli professionali e di studio ulteriori rispetto a quelli previsti per l'accesso all'area il regolamento deve prevedere una griglia di assegnazione di punteggi, distinta per titoli professionali (quali? Abilitazioni? Referenze lavorative anche di altri settori non pubblici?) e titoli di studio, predeterminando i punteggi.

Quarto elemento: numero e tipologia degli incarichi rivestiti. Il regolamento deve definire appunto quali siano le tipologie di incarico considerabili valide ai fini della determinazione del punteggio, assegnando loro un determinato peso (per esempio, mansioni superiori, incarichi di responsabilità procedimentale, ovviamente connessi a provvedimenti espressi e tracciabili), connesso alla durata e da moltiplicare per il numero.

Al termine dell’attribuzione dei punteggi, si crea comunque una graduatoria. La procedura è sì comparativa, ma anche selettiva. Non si può trattare di una comparazione arbitraria, ma da agganciare saldamente a pesi e sotto pesi.

Nulla esclude, comunque, che a parità di punteggio o all’interno di una certa fascia di punteggi, l’amministrazione decida di approfondire, con ulteriori elementi valutativi, legati ad un colloquio o ad una prova pratica.

L’Anci prevede che le procedure selettive siano rivolte a dipendenti che dispongano dei seguenti requisiti:

- anzianità minima di 36 mesi nella categoria immediatamente inferiore;

- assenza di provvedimenti disciplinari nell’ultimo biennio antecedente il termine di scadenza per la presentazione della domanda di partecipazione alla procedura

di selezione;

- possesso dei requisiti richiesti per l’accesso dall’esterno al posto oggetto di selezione.

L’indicazione dell’Associazione non è corretta. Infatti, la proposta di regolamento è, sotto questo aspetto, affetta dal vizio della violazione di legge, laddove:

a)      aggiunge un requisito soggettivo, l’anzianità minima di 36 mesi nella categoria inferiore, non previsto dalla legge. Non si deve dimenticare che una fonte subordinata alla legge, se non è da questa autorizzata mediante un’espressa indicazione, non può modificarne o derogarne i contenuti. L’articolo 52, comma 1-bis, non parla minimamente di un’anzianità minima: è da concludere, quindi, per l’irrimediabile illegittimità di un regolamento di tal fatta, che potrebbe essere oggetto di immediata tutale, poiché lede immediatamente la posizione giuridica dei lavoratori;

b)      considera l’assenza di provvedimenti disciplinari nell’ultimo biennio, appunto come requisito di ammissione, travisando platealmente la previsione normativa, dalla quale non è legittimi ricavare il riferimento alle sanzioni alla stregua di requisito di ammissione, bensì come elemento da valutare.

D’altra parte, il regolamento proposto dall’Anci, su questo punto, cade in una visibile contraddizione, quando poco dopo considera l’assenza di provvedimenti disciplinari come elemento da valutare.

In particolare, l’Anci propone di effettuare la valutazione in base ai seguenti parametri:

a) valutazione positiva conseguita dal dipendente negli ultimi tre anni in servizio;

b) assenza di provvedimenti disciplinari;

c) possesso di titoli o competenze professionali ovvero di studio ulteriori rispetto a quelli previsti per l’accesso all’area dall’esterno;

d) numero e tipologia degli incarichi rivestiti.

L’elencazione è conforme a quella prevista dall’articolo 52, comma 1-bis: dunque è inutile e controproducente. Sul piano redazionale, un regolamento dovrebbe limitarsi a richiamare con rinvio dinamico la norma, anche per evitare possibili futuri disallineamenti.

In quanto alle valutazioni, il regolamento proposto dall’Anci suggerisce “media delle valutazioni conseguite dal dipendente negli ultimi tre anni di servizio, valutati antecedentemente al termine di scadenza per la presentazione della domanda di partecipazione alla procedura di selezione, per le performance raggiunte in un posto di categoria immediatamente inferiore a quello oggetto della selezione”. Pare di poter considerare corretto e condivisibile l’input dell’Associazione.

In quanto ai provvedimenti disciplinari, la proposta di regolamento indica: “assenza di provvedimenti disciplinari ai sensi del vigente C.C.N.L. del Comparto Funzioni locali, nell’ultimo quinquennio dal termine di scadenza per la presentazione della domanda di partecipazione alla procedura di selezione, punti 5”. E’ un criterio on-off (in contraddizione coi requisiti di ammissibilità, come rilevato sopra), che non può soddisfare.

Le sanzioni disciplinari sono graduate in relazione alla loro gravità. Appare più corretto, pertanto, agire attribuendo un punteggio non positivo, ma negativo, in relazione alla gravità appunto della sanzione registrata, come ad esempio:

·         nessuna sanzione= 0 punti;

·         rimprovero verbale= - 2 punti;

·         richiamo scritto= - 4 punti;

·         multa== - 6 punti;

·         sospensione con divieto erogazione della retribuzione fino a 10 giorni: - 8 punti;

·         sospensione fino a 3 mesi= -10 punti;

·         sospensione fino a 6 mesi= - 12 punti;

·         sospensione oltre i 6 mesi= -15 punti.

Per quanto riguarda titoli, competenze professionali e titoli di studio ulteriori, rispetto a quelli previsti per l’accesso alla categoria, l’Anci propone un sistema articolato.

In primo luogo, suggerisce di valutare le “attività di formazione non obbligatorie, attinenti alla qualifica professionale/profilo, erogate direttamente dal Comune ovvero da agenzie formative, istituti di formazione pubblici o privati riconosciuti, concluse con l’accertamento dell’avvenuto accrescimento della professionalità del singolo dipendente, attestato attraverso certificazione finale delle competenze acquisite, svolte nell’ultimo quinquennio, con attribuzione dei seguenti punteggi”.

Tale criterio è da rigettare. Non ha nulla, infatti, a che vedere:

a)      con i tioli; lo svolgimento di un corso di formazione non è un titolo. I titoli sono solo quelli formalmente riconosciuti come tale dalla normativa; dunque si deve trattar di una formazione regolata, che sbocchi appunto in un titolo riconosciuto, non bastando la semplice certificazione finale delle competenze;

b)      con l’esperienza professionale: essa deve essere riferita alla valutazione delle attività concretamente svolte, non alla partecipazioni ad attività formative.

In secondo luogo, l’Anci suggerisce di valutare “docenze, per almeno ___ mesi complessivi, riconosciute da altre PA, agenzie formative, istituti di formazione pubblici o privati riconosciuti, e pubblicazioni attinenti alla qualifica professionale/profilo”. Si tratta, in effetti, di elementi che possono qualificare una riconosciuta – da terzi – competenza del lavoratore.

In terzo luogo, l’Anci suggerisce di graduare i punteggi per titoli di studio, ciò che costituisce forse la parte più semplice dell’operazione.

Ancora, in quarto luogo si indica di valutare le “competenze professionali maturate attraverso attività lavorative in enti/organizzazioni/aziende pubblici o privati in cui il candidato ha assunto posizioni od incarichi, attinenti alla qualifica professionale/profilo, di responsabilità e gestione autonoma di risorse finanziarie e di personale”. Si tratta di un requisito soggettivo più proprio di una procedura selettiva per l’assegnazione di incarichi ai sensi dell’articolo 110 del Tuel, del tutto inappropriato per molte progressioni. Come pensare di poter valorizzare questo criterio per passaggi dalle categorie B alla C o da questa alla D? Appare davvero fuorviante riferirsi al responsabilità ed autonoma gestione di risorse finanziarie e di personale.

Infine, l’Anci suggerisce di valutare come segue “il numero e la tipologia di incarichi rivestiti, attinenti al profilo oggetto di selezione”:

Posti cat. C

Posti cat. D

Assegnatario di beni, Agente contabile/ punti ...

Economo/ punti ...

Economo/ punti ...

Delega funzioni stato civile/ punti ...

Partecipazione documentata in progetti regionali, nazionali, europei con altre PA/ punti 1 per ogni progetto, lino a max ...

RUP/punti ... per ciascun incarico, fino a max ...

Responsabile procedimento o entrata/ punti ... per ciascun procedimento, fino a max ...

Responsabile procedimento o entrata/ punti 1 per ciascun procedimento, fino a max ...

Delega funzioni stato civile/ punti ...

Responsabile P.O./ punti ...

...

...

 

Appare evidente il travisamento del concetto di “competenze professionali” ridotto, come si nota, per un verso alla partecipazione a corsi di formazione e, dall’altro, ad incarichi rivestiti, alcuni dei quali tra quelli suggeriti del tutto privi di significato, come l’incarico di economo o delegato di funzioni di stato civile, attività che costituiscono mere specificazioni dell’attività lavorativa, come in parte anche gli incarichi di responsabile del procedimento o Rup.

Per capire cosa significhi “competenza” riferirsi ad elementi formali è fuorviante. Facciamo un esempio pratico: molti di noi possiedono la patente e guidano; non c’è il minimo dubbio, tuttavia, che la competenza alla guida di Lewis Hamilton sia di molto superiore a quella della generalità delle persone.

Non conta, quindi, evidenziare che qualcuno abbia una “patente”, cioè un incarico o svolga una certa mansione. Occorre saper valutare il quomodo, come, cioè, quell’attività sia concretamente svolta.

La competenza professionale è, dunque, composta da altri elementi:

1.      certo, come rilevato sopra, il riconoscimento di terzi, connesso a pubblicazioni e docenze;

2.      lo svolgimento delle funzioni con un basso o assente grado di revisioni da parte di soggetti preposti a controlli o delle autorità alle quali si rimettano i prodotti della propria attività;

3.      il riconoscimento, anche solo informale, di un ruolo di guida o esperto, confermato dalla circostanza che colleghi o anche superiori si rivolgano al dipendente, considerato affidabile nell’affrontare questioni attinenti il proprio lavoro;

4.      l’autonomia operativa, quale grado misurato di elaborare piani operativi, prevenire le scadenze, presentare alle autorità competenti soluzioni alternative indicando quelle più opportune;

5.      l’iniziativa autonoma, come grado di attivazione non dipendente da sollecitazioni, direttive od ordini di servizio;

6.      la sostituzione anche solo temporanea di personale di categoria superiore assente, almeno nella conduzione delle istruttorie;

7.      l’adibizione formalizzata a mansioni superiori, elemento che l’Anci non ha minimamente considerato ed invece estremamente rilevante ai fini che interessano;

8.      il contributo dato al conseguimento dei risultati o delle procedure.

Nell’articolo pubblicato su NT plus del 30 maggio 2022, titolato “Anche la formazione dà punti nelle progressioni orizzontali” (titolo erroneo, perché l’articolo riguarda le progressioni verticali), A. Bianco critica, in parte, a sua volta l’impianto dell’Anci, perché non prevede punteggi connessi ad un colloquio finalizzato “all'accertamento del possesso e della capacità di utilizzazione concreta delle stesse, sia all'accertamento delle competenze manageriali e dei comportamenti organizzativi che caratterizzano la categoria ed il profilo professionale”.

Si ritiene, al contrario, che gli enti non debbano introdurre e disciplinare alcun colloquio. La norma, che, come già evidenziato sopra, non è suscettibile di modifiche o integrazioni a pena di una loro marchiana illegittimità, non prevede nessun colloquio, per la semplice ragione che la procedura comparativa si fonda esclusivamente sugli elementi valutativi espressamente richiesti dal legislatore, prevalentemente documentali, proprio perché non è un concorso.

Ma, poi, oggettivamente, l’accertamento delle capacità e competenze del dipendente, tali da sostenere una sua promozione verso una categoria superiore pare avere poco senso se connessa, anche solo in parte, ad un colloquio: il datore di lavoro deve poter riuscire a valutare le competenze giorno per giorno, osservando la concreta operatività del lavoratore, rispetto alla quale il colloquio è privo di senso.

Ricordiamo che nel privato, si può promuovere semplicemente consolidando le mansioni superiori, facendole acquisire a titolo definitivo la qualifica superiore connessa, in applicazione dell’articolo 2013 del codice civile, il che significa osservando sul campo le effettive capacità del lavoratore.

Nel pubblico, l’applicazione dell’articolo 2103 del codice civile è inibita, ma la logica è la stessa. La promozione verso una categoria superiore non può che derivare da un’attenta osservazione dei comportamenti operativi, ai fini della quale un colloquio vale praticamente zero, in raffronto agli elementi valutativi espressamente voluti dal legislatore.

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