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martedì 26 gennaio 2016

Nelle riforme “epocali” manca quella sulla funzione di controllo collaborativo

Un solo parere esercitato nell’ambito del controllo “collaborativo” della Corte dei conti può contenere inconciliabili contraddizioni di metodo ed approccio giuridico?
Sì, ed ormai, nella pareristica delle sezioni regionali di controllo della Corte dei conti, oltre che nell’ambito della Sezione Autonomie, è diventata pressoché una regola fissa.
Certo, le norme da interpretare si fanno ogni giorno più complesse ed involute, ma il ruolo di chi è chiamato alla funzione esegetica ha esondato, soprattutto perché non appaiono più chiare ed evidenti le finalità. Si dovrebbe trattare di leggere le norme in base a stretto diritto ed a fini chiari e predeterminati, dunque prevedibili.
La realtà va sempre più, invece, verso un diritto “creativo”, per altro non sempre alieno da atteggiamenti che possono apparire in qualche misura spinti dalla ragione dell’opportunità di non evidenziare chiavi di lettura troppo in contrasto con le suggestioni abilmente colte dai magistrati contabili (ma anche amministrativi) negli “ambienti di potere”.
Si prenda il caso della deliberazione 12 gennaio 2016, n. 3 della Sezione Toscana, che torna quasi sugli stessi passi e contenuti della deliberazione della Sezione Autonomie 19/2015, spinta da una serie di domande poste da un comune sostanzialmente riproponenti gli stessi quesiti affrontati dalla Sezione Autonomie: segno che ai comuni, finchè non trovino la parola, la virgola, l’accenno di proprio gradimento, non basta mai un pronunciamento, ma ne chiedono sempre uno in più. Segno, ulteriore, della rinuncia – assai discutibile e grave – delle figure addette alla funzione di garante della regolarità amministrativa a svolgere in via autonoma questa funzione e della tendenza (anche legata a ragioni di opportunità) ad “esternalizzare” una funzione che possa cagionare contrasti con chi incarica, valuta e può anche “lasciare a casa”.
Torniamo alla deliberazione 3/2016 della Sezione Toscana per guardarne l’incoerenza di approccio, rispetto ai temi svolti.
Un primo concerne la possibilità di attribuire incarichi dirigenziali in applicazione dell’articolo 110 del d.lgs 267/2000 in vigenza dei vincoli disposti dall’articolo 1, comma 424, della legge 190/2014.
Ecco le considerazioni che svolge la Sezione. In primo luogo osserva: “l’art. 1, comma 424, della l. n. 190/2014 ha introdotto una disciplina speciale per le assunzioni a tempo indeterminato di regioni ed enti locali, derogatoria per gli anni 2015 e 2016 di quella generale, al fine di consentire la completa ricollocazione delle unità soprannumerarie destinatarie dei processi di mobilità, a seguito del processo di riforma di cui alla l. n. 56/2014”. Si tratta di una chiave di lettura squisitamente teleologica: la Sezione individua chiaramente il fine della norma: la “completa ricollocazione” dei soprannumerari.
Coerenza vorrebbe, quindi, che la lettura ulteriore del comma 424 insistesse su questa medesima linea: se la ricollocazione deve essere completa, significa che lo scopo del comma 424 è lasciare libere le disponibilità delle dotazioni organiche alle mobilità dei dipendenti ed anche di dirigenti.
La premessa logica, che la Sezione Toscana (come del resto la Sezione Autonomie sul cui parere 19/2015 si appiattisce) nemmeno affronta è che le assunzioni di dirigenti a contratto ai sensi dell’articolo 110 del d.lgs 267/2000, a differenza di qualsiasi altra assunzione a tempo determinato, coprono posti della dotazione organica; ergo, sottraggono posti alla ricollocazione.
Sul piano finalistico, dunque, articolo 1, comma 424, della legge 190/2014 e articolo 110 del d.lgs 267/2000 non si tengono, anzi sono in evidentissimo ed insanabile contrasto (ovviamente, finchè vi saranno dipendenti con qualifica dirigenziale in sovrannumero).
Come prosegue, però, la Sezione Toscana? Con una lettura (certo, imposta dalla nomofilachia della Sezione Autonomie) che vira improvvisamente verso un’interpretazione strettamente letterale: “La Sezione delle autonomie ha dunque ritenuto che le due fattispecie delle assunzioni a tempo determinato e del conferimento di incarichi dirigenziali ex art. 110, comma 1, TUEL, esulino dal campo di applicazione del comma 424, e restino pertanto assoggettate ai divieti e limiti propri degli specifici istituti che le disciplinano. Conformemente a tale indirizzo si è già espressa questa Sezione con deliberazione 20 ottobre 2015, n. 447”.
L’incoerenza è chiarissima e, oggettivamente, né condivisibile, né accettabile. Non appare corretto trattare un tema con due approcci antitetici. Soprattutto laddove quest’ultimo passaggio rivela la consapevolezza che le fattispecie del tempo determinato e dell’articolo 110 sono “due”, dunque distinte. L’interpretazione teleologica è di livello superiore a quella letterale, quando questa non è in grado da sola di abbracciare e risolvere i vari problemi posti dalla norma, come è noto a tutti gli operatori del diritto. Sicchè, lo sguardo all’articolo 1, comma 424, della legge 190/2014 limitato alla sola indicazione letterale è erroneo se questa non sia in grado di risolvere il problema della limitazione della salvaguardia dei dirigenti in sovrannumero, derivante dalla supposta – ma inesistente – legittimità di assunzioni ex articolo 110 che ha proprio l’effetto di impedire o rendere molto più complicata la ricollocazione dei soprannumerari.
Eppure, le Sezioni della Corte dei conti si segnalano costantemente per interpretazioni che vanno ben oltre il limite di quella letterale: celeberrime sono le pronunce sui vincoli alle “assunzioni”, secondo le quali sarebbero da considerare tali non solo istituti che implicano la costituzione di rapporti di lavoro subordinato tra enti e dipendenti, ma anche fattispecie totalmente estranee a tali schemi sostanziali, come il convenzionamento a scavalco tra enti, più volte considerato dalle Sezioni illecito se realizzato da un ente che abbia violato il patto di stabilità.
Come si nota, non manca certo autorevolezza e forza, alla magistratura contabile, per prodursi in letture prater legem, specie se lo scopo sia la salvaguardia della finanza pubblica.
Quel che è strano, allora, è la mancanza esattamente di questo approccio nell’esame della questione dell’articolo 110. Appare francamente molto difficile da accettare l’ammissibilità di contratti a termine dirigenziali a copertura di posti della dotazione organica, in presenza di una condizione straordinaria di soprannumerari di qualifica dirigenziale, che potrebbe rimediare a situazioni di carenza organica delle amministrazioni senza implicare nemmeno un euro di maggior costo alle finanze pubbliche. Invece, la Corte dei conti (con l’eccezione condivisibile della Sezione Piemonte) accetta che possa darsi corso ad assunzioni che da un lato sottraggono possibilità di ricollocazione (in contrasto coi fini della norma, pur enunciati e, dunque riconosciuti), dall’altro implicano maggiore spesa pubblica!
Sorge necessariamente la curiosità in merito alla ratio che induca la Sezione Toscana (e abbia indotto prima ancora la Sezione Autonomie) verso una soluzione talmente discutibile e fondata su letture così incoerenti e deboli.
Di certo, è chiaro a tutti, così come alla Corte dei conti, che ai sindaci è molto gradito poter cooptare direttamente dirigenti di proprio gradimento. Pareri, dunque, che non si pongano troppo in rotta con una chiara evidenza dell’apprezzamento della cooptazione diretta di dirigenti particolarmente vicini alla politica sono, oggettivamente, meglio in grado di garantire e mantenere “armonia” tra magistratura contabile e centri di potere.
Sul piano sostanziale il parere della Sezione Toscana, come quello della Sezione Autonomie, espone ogni assunzione con l’articolo 110 alla declaratoria di nullità da parte di qualsiasi giudice ordinario, al quale si rivolga qualche dirigente che all’1.1.2017 resti non ricollocato, anche a causa dei cancelli sbarrati alla propria ricollocazione, legata alla mancata disponibilità di posti dirigenziali, coperti con le cooptazioni.
Sul piano della funzionalità al sistema, questo parerere è solo esemplificativo di tantissimi altri, che disinvoltamente ampliano il raggio della lettura, o lo restringono, in base a percorsi per nulla lineari.
Una revisione della funzione di controllo collaborativo si impone, forse più ancora di altre “riforme epocali” che, invece, sono all’ordine del giorno.
Se il legislatore è caotico, la ridda di pareri resi in modo incoerente è ormai eccessiva. Sarebbe opportuno che i controlli tornassero ad essere resi non dal potere giudiziario, ma da autorità amministrative di controllo, anche per poter consentire di ricorrere in via amministrativa sugli esiti dei controlli stessi.
Appare piuttosto curioso, per altro, che tutta la ricostruzione relativa alla dirigenza a contratto si fondi su un altro aspetto inusitato: il “non luogo a deliberare” disposto sul tema dalla Sezione Autonomie.
La quale, in sintesi, sul tema ha di fatto rinunciato ad esprimersi, attraverso l’istituto del “non luogo a deliberare” invero non disciplinato da nessuna norma, ma ha premesso al non luogo a deliberare un’esposizione interpretativa, che fornisce poi modo per affermare che l’articolo 110 non sarebbe inciso dall’articolo 1, comma 424, della legge 190/2014. Anche in questo caso, coerenza e linearità dell’operato dell’autorità di controllo non appaiono particolarmente evidenti.
Lo scopo del parere di meglio “illuminare” l’azione di amministrazione attiva, in tal modo pare rendersi evanescente. I pareri finiscono per essere quasi fine a se stessi o esposti al dubbio che possano essere anche solo indirettamente influenzati da altri fini.
Una funzione di controllo sulla ricollocazione avrebbe dovuto esserci, ma molto diversa e certamente più penetrante, tale da scandagliare ogni ipotesi di elusione delle norme: e ce ne sono state tante, tra le quali quella dell’articolo 110 è solo la più eclatante. Il DM 14 settembre 2015 dimostra che il Governo ha avuto chiara questa esigenza, laddove all’articolo 11, comma 2, ha assegnato ai prefetti il compito di vigilare sul rispetto del divieto di effettuare assunzioni a tempo indeterminato previsto dall’articolo 1, commi 424 e 425, a pena di nullità. L’errore è consistito e consiste nell’individuare, per un verso, un’autorità come i prefetti non strutturata per svolgere questo tipo di verifiche e, soprattutto, nel non introdurre un sistema di controlli preventivi rispetto alle assunzioni, sì da esporre il sistema ad un contenzioso dai confini oggi non immaginabili e che dipenderà da quanti dipendenti si ritroveranno in disponibilità a partire dall’1.1.2017.
Un insieme di riforme davvero intese a far cambiare la rotta dovrebbe prendere definitivamente atto che i controlli “collaborativi” hanno nella sostanza fallito. Non sono obbligatori, non condizionano l’efficacia dei provvedimenti, non si inseriscono nelle fasi procedimentali, contengono troppe contraddizioni tra essi e all’interno di ciascuno di essi, non sono ricorribili, sicchè restano fisse le loro conclusioni, anche quando visibilmente affette da vizi logici e giuridici.
Tornare ai veri e propri controlli preventivi apparirebbe una vera e seria riforma. Certo, sarebbe un rispolverare l’antico. Ma, questo deriva dalla circostanza dell’illusione che riformare per riformare sia il “moderno”. Una riforme è realmente “epocale” non perché ampia o perché semplifica o perché cambia radicalmente un insieme di istituti, bensì se è utile. Tra i decreti legislativi approvati di recente dal Governo, quello relativo alla razionalizzazione delle società pubbliche reintroduce i controlli preventivi, proprio allo scopo di far sì che le decisioni degli enti locali di costituire nuove società siano passate ad un approfondito vaglio prima che determinino i loro effetti, evitando le tantissime elusioni e violazioni alle norme sul tema, prodottesi negli ultimi 15 anni. Una strada, finalmente corretta, anche se sconta il problema di affidare detti controlli ancora una volta non ad un’autorità amministrativa, ma ad un giudice e, nel caso di specie, proprio la Corte dei conti, lasciando aperti alcuni problemi operativi, quale, soprattutto, quello della possibilità di ricorrere al Tar su pronunce di organi giurisdizionali indipendenti.
Si tratta di un segnale, forse troppo sporadico, comunque importante. Anche la disciplina dell’anticorruzione, come dettata dall’Anac nei suoi piani nazionali, rivela l’imprescindibilità di ridare spinta e forza ai controlli preventivi.
Nel caso specifico degli incarichi dirigenziali, sarebbe altamente necessario che controlli preventivi verificassero la legittimità di incarichi a contratto quando sarà a regime la riforma indicata dalla legge 124/2015. E’ fortissimo il rischio che dirigenti di ruolo restino privi di incarico, pagati inutilmente per un determinato lasso di tempo ed esposti al licenziamento (oltre che al condizionamento pesantissimo della politica), anche proprio per la copertura disinvolta di posti di ruolo mediante incarichi a contratto.
Il presupposto sia dell’articolo 110 del d.lgs 267/2000, sia dell’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001, per attribuire incarichi dirigenziali, è l’assenza di professionalità nell’ente. Ma, per effetto della riforma, non vi saranno più dotazioni organiche degli enti: i dirigenti apparterranno a ruoli unici nazionali. Sarà ben difficile, se non impossibile, dimostrare l’assenza di professionalità negli albi.
Occorreranno, allora, soggetti capaci di un controllo effettivo, coerente e sostanziale sugli atti di incarico a dirigenti esterni, e, soprattutto, non condizionati in alcun modo dal privilegio che gli organi di governo intendono dare al sistema della cooptazione. I pareri troppo timidi della Corte dei conti sull’articolo 110 dimostrano che la strada da seguire non può essere quella oggi costruita.

sabato 11 aprile 2015

La #legalità "a la carte" che non serve a nessuno #corruzione #segretaricomunali

Joe Formaggio, sindaco di Albettone “comune de-nomadizzato” e è Alfonso Sabella, ex magistrato, ora assessore a Roma hanno catalizzato l'attenzione in questi giorni.

I due, in comune, non hanno assolutamente nulla. Se non una visione della gestione della pubblica amministrazione, e di quella locale in particolare, piuttosto naif.

Partiamo da Alfonso Sabella. In un’intervista rilasciata a La Stampa lo scorso 7 aprile, l’assessore ha affermato di aver trovato al comune di Roma “una macchina amministrativa totalmente fuori controllo. […] Da tre mesi e passa sto firmando una serie di richieste di annullamento di gare in autotutela. Quando mi sono insediato, ho trovato un paio di decine di gare con procedure a evidenza pubblica, cioè quelle gare che prevedono il bando pubblico, la commissione giudicatrice, la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale. Un paio di decine a fronte di almeno diecimila procedure negoziate, cottimi fiduciari, affidamenti diretti, somme urgenze”.

E, invitato ad individuare le cause di tutto ciò, l’ex magistrato pare avere le idee molto chiare ed afferma: “la patologia è quella che di fronte a un ceto politico locale scarsamente preparato c’è una burocrazia comunale in grado di amministrare, decidere, scegliere senza che nessuno possa ostacolarla. Aggiungo che anche la politica sana di un’amministrazione come quella Marino ha avuto difficoltà a controllare questa burocrazia”, aggiungendo che “il ceto politico amministrativo potrebbe anche non essere oliato con le tangenti perché in realtà le sue scelte e decisioni si fermano alla politica di indirizzo. Chi decide tutto sono i burocrati, i dirigenti comunali”.

Alfonso Sabella ha una carriera di magistrato che parla da sola. Queste dichiarazioni, tuttavia, mostrano come conosca davvero poco il sistema ordinamentale locale, come anche la disciplina anticorruzione. E spiace molto rilevarlo.

L’ex magistrato utilizza un codice di comunicazione molto semplice ed utile per fare audience, tanto che la sua intervista è stata subito rilanciata da tutti i media. Il codice è semplicissimo: “la responsabilità è dei burocrati”. Dietro questa frase c’è l’autoassoluzione del ceto politico, vittima dei burocrati ed anche la critica ai dirigenti che non solo guadagnano tantissimo, ma fanno anche il bello e cattivo tempo. Ed è un indifeso assessore come lui che si erge a eroe, chiedendo gli annullamenti in autotutela.

Ora, indubbiamente Sabella pone in rilievo problemi estremamente concreti, per altro senza averli generalizzati troppo, perché si riferisce all’amministrazione comunale di Roma che, certamente, come si è visto, problemi amministrativi ne ha a bizzeffe.

Tuttavia, non si può fare a meno di osservare che sia la diagnosi, sia la cura proposte da Sabella non possono essere condivise, perché frutto di un travisamento clamoroso della normativa.

Partiamo dalla diagnosi. E’ proprio sicuro, Sabella, che tutto dipenda dai dirigenti? E’ una domanda retorica. L’inchiesta Mafia Capitale ha coinvolto, come è noto, anche vertici politici. E quali dirigenti, in particolare, sono emersi come strettamente funzionali al sistema criminale impiantato? Quelli nominati senza concorso, cooptati, scelti direttamente dagli organi politici. Dirigenti scelti esattamente per collaborare strettamente con i politici, che dipendono da essi e svolgono attività operativa per l’interesse personale di chi li nomina o comunque della corrente di partito di appartenenza o della lobby la cui influenza è stata tale da indurre il politico a nominarlo.

Sabella, da magistrato, non può non sapere queste cose. Non può non sapere che non è affatto vero che sono i dirigenti a decidere tutto. Non se, almeno, si rispettano le regole. I dirigenti non decidono, perché la decisione su “cosa” fare o non fare spetta agli organi politici, in base ai loro programmi. Sulla base di questi, gli organi politici adottano programmi e bilanci, assegnando ai dirigenti le risorse per raggiungere quegli obiettivi. I dirigenti non decidono “cosa”, ma “come”, nel rispetto delle direttive, degli obiettivi, delle risorse e delle leggi.

L’autoassoluzione degli organi di governo, dipinti come prigionieri della burocrazia presi dalla sindrome di Stoccolma, è un sistema facile per ottenere consenso, spesso rivelatore proprio dell’assenza di capacità di programmare, dare direttive, indicare risultati, assegnare risorse, valutare i risultati. Cosa tipica, per altro, di sistemi nei quali non conta, in effetti, la capacità gestionale e la leale funzione servente per l’interesse pubblico, quanto la cooptazione e la “fedeltà” ad una persona o a una lobby o a una cerchia chiusa.

La visione dell’assessore romano è, purtroppo, quella stessa del legislatore anticorruzione, che nella legge 190/2014 non ha speso una virgola per contrastare comportamenti potenzialmente corruttivi degli organi politici. A leggere la legge 190/2012, il d.lgs 33/2013 e il dpr 62/2013 (il codice “etico”) sembra che a farsi corrompere siano solo i dipendenti pubblici (tra cui ovviamente i dirigenti): gli organi politici sono coinvolti solo per l’obbligo di pubblicare la propria situazione patrimoniale. Ma i “comportamenti” corruttivi anche non penali, che per i dipendenti possono portare a gravi sanzioni fino al licenziamento, per gli organi di governo semplicemente non sono previsti. Così, il dipendente – giustamente – non può accettare per sé e per altri regali di valore superiore alla cifra di 150 euro (invero stratosferica, infatti molte amministrazioni l’hanno abbassata), mentre paradossalmente nessun tipo di sanzione opera nei confronti di un politico che accettasse per sé o per altri, oppure non si opponesse, regali di posti di lavoro, oppure orologi, oppure appalti.

L’ex magistrato nell’intervista enuncia anche rimedi totalmente sbagliati, sia nell’affermare che chiede ai dirigenti di agire in autotutela, sia nel riferire che “Con una direttiva di giunta, ho azzerato la possibilità di attivare le somme urgenze e gli affidamenti diretti. E ho dettato le regole per le procedure negoziate per ridurle all’osso e in ogni caso renderle trasparenti come una casa di vetro”.

Sabella dimentica che per il principio di separazione della funzione politica da quella gestionale, un assessore non può avere alcun potere di chiedere alla dirigenza di agire in autotutela sui provvedimenti di propria competenza. Certamente l’ex magistrato lo dice e fa in buona fede. Ma, dimentica che se questo potere fosse dato ad assessori o politici dalle intenzioni molto diverse, allora potrebbero utilizzarlo esattamente per il fine opposto di bloccare decisioni perfettamente legittime, ma non gradite, chiedendo magari al dirigente cooptato di turno di adottarle per “avocazione”, rompendo totalmente il sistema di separazione.

Allo stesso modo, la giunta comunale non possiede alcun potere di direttiva sul “come” procedere rispetto agli affidamenti degli appalti.

Sabella dà mostra, ed è questo il punto più grave e debole dei suoi ragionamenti, di sminuire totalmente funzioni, strumenti ed organi preposti all’anticorruzione.

Per controllare le attività della dirigenza, non vi deve e non può esservi una direttiva di giunta: esiste il piano triennale di prevenzione della corruzione. Quella è la sede per agire. Per attivare i controlli, non ha alcun senso che provveda un assessore con improponibili richieste di autotutela: basta attivare i controlli, anche preventivi, col piano di cui sopra e, comunque, fare sì che il segretario comunale adotti davvero i poteri di controllo previsti dall’articolo 147-bis, del d.lgs 267/2000. Esattamente quel segretario comunale che, per legge (e non, come si ostina ancora a ritenere l’Anac, a seguito di nomina) è automaticamente responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, come tale responsabile della formulazione del piano anticorruzione e del suo presidio.

La politica, programmando, fornendo risorse, stabilendo risultati e strumenti per la loro misurazione, ha poi la possibilità di verificare punto per punto come la dirigenza agisce, rendendosi, così, conto che i dirigenti – a meno che non siano intenzionalmente lasciati a briglie sciolte – eseguono, ma non decidono. E Sabella dovrebbe sapere che proprio il rispetto delle disposizioni del piano anticorruzione dovrebbe essere uno degli elementi principali del sistema di valutazione della dirigenza, come dell’intero personale.

Le dichiarazioni dell’ex magistrato rivelano una visione totalmente distorta delle norme e degli strumenti (sia pure insufficienti) esistenti ed anticipano di fatto l’abolizione del segretario comunale, che, stando alle dichiarazioni dell’assessore, è come non esistesse, come fosse già stato abolito.

Sabella, in fondo, in questo modo alimenta la “legittimità a la carte” come un qualsiasi sindaco di provincia, come quel Joe Formaggio, autore dell’ordinanza contro i nomadi, che ora, dopo l’intervento di prefetto, questore e procuratore della Repubblica, deve revocare.

Qualcuno, nel comune in cui primo cittadino è Formaggio, quell’ordinanza gliel’ha elaborata, scritta e sottoposta alla firma. Era ed è un atto totalmente illegittimo, privo di fondamento oltre che di senso e, per altro, forse anche fonte di reato.

Agli occhi del sindaco, l’autore dell’ordinanza sarà probabilmente un bravissimo elemento, da valorizzare e promuovere, perché ha condiviso con lui, fiduciariamente, un sentire politico. Poco importa, allora, che l’ordinanza sia illegittima, fonte forse di responsabilità penali e, magari anche amministrative, dal momento che il comune ha speso soli per l’acquisto e la posa di inutili cartelli stradali anti-nomadi.

Una legittimità non “a la carte”, la presenza di una dirigenza di ruolo, non selezionata per fiducia politica, la possibilità di estendere controlli preventivi su ogni atto, compresi quelli del sindaco, specie se poi sfociano in appalti per acquisti e lavori assurdi, prima ancora che inutili (ricordiamo tutti la scuola col simbolo della Lega di Adro), sono i veri antidoti contro la corruzione e la mala gestione.

In questo senso, l’abolizione dei segretari comunali, la precarizzazione della dirigenza di ruolo, l’esaltazione dello spoil system, sono tutti strumenti che vanno nella direzione esattamente opposta a quella necessaria per razionalizzare spese, fini ed attività della pubblica amministrazione. Non ci vorrebbe poi molto a prenderne atto.