Una delle ferite maggiormente aperte e sanguinolenti dell’ordinamento italiano e, segnatamente, del personale è costituita dalla soffertissima disciplina degli incarichi dirigenziali a tempo determinato.
Le previsioni dell’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001 e, per gli enti locali, dell’articolo 110, commi 1 e 2, del d.lgs 267/2000 continuano ad essere fonte infinita di contenzioso, operazioni discutibili, causa di contiguità tra politica ed amministrazione in contrasto con l’articolo 97 della Costituzione, promozioni sul campo non ammesse, sforamento dei limiti percentuali, violazione continua ai requisiti soggettivi, violazione continua ai limiti temporali.
Che la disciplina degli incarichi a contratto meriti una profonda revisione, tesa alla costruzione di limiti molto maggiori e più chiari lo dimostra senza alcun’ombra di dubbi la sentenza della Corte costituzionale 37/2015, corroborata dall’ulteriore sentenza 180/2015. Sarebbe il caso di trarre spunto da queste pronunce, per estirpare dall’ordinamento norme fin qui prevalentemente fonte di problemi ed illegittimità. Ma anche di equivoci interpretativi, dei quali oggettivamente sarebbe il caso di fare a meno.
Tra questi equivoci, è clamoroso quello scatenato dalla Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 13 gennaio 2014, n. 478: un concentrato di valutazioni del tutto sbagliate sulla disciplina degli incarichi a contratto negli enti locali.
La pronuncia è nota per aver posto in via nomofilattica il seguente principio diritto: “In tema di affidamento, negli enti locali, di incarichi dirigenziali a soggetti esterni all’amministrazione si applica l’art. 19 D. Lgs. n. 165 del 2001, nel testo modificato dall’art. 14 sexies D.L. n. 155 del 2005, convertito con modificazioni nella L. n. 168 del 2005, secondo cui la durata di tali incarichi non può essere inferiore a tre anni né eccedere il termine di cinque, e non già l’art. 110, comma 3, D. Lgs. n. 267 del 2000 (T.U. Enti locali), il quale stabilisce che la incarichi a contratto non possono avere durata superiore al mandato elettivo del Sindaco in carica. La disciplina statale integra quella degli enti locali: la prima, con la predeterminazione della durata minima dell’incarico, è volta ad evitare il conferimento di incarichi troppo brevi ed a consentire al dirigente di esercitare il mandato per un tempo sufficiente ad esprimere le sue capacità ed a conseguire i risultati per i quali l’incarico gli è stato affidato; la seconda ha la funzione di fornire al Sindaco uno strumento per affidare incarichi di rilievo sulla base dell’intuitus personae, anche al di fuori di un rapporto di dipendenza stabile e oltre le dotazioni organiche, e di garantire la collaborazione del funzionario incaricato per tutto il periodo del mandato del Sindaco, fermo restando il rispetto del suddetto termine minimo nell’ipotesi di cessazione di tale mandato”.
Si tratta di un principio, però, assolutamente erroneo e fuori strada e, come vedremo, del tutto superato e disapplicare proprio in virtù della giurisprudenza costituzionale.
La sentenza 478/2014 della Cassazione è corretta solo da un punto di vista: quando afferma che all’ordinamento degli enti locali è direttamente applicabile l’articolo 19 del d.lgs 165/2001, ivi compreso, dunque, il suo comma 6, la famosa norma di disciplina degli incarichi a contratto.
La pronuncia non fa altro che ricordare la vigenza dell’articolo 88 del d.lgs 267/2000, fonte di un “rinvio dinamico” dall’ordinamento locale a quello nazionale del personale, cui consegue la diretta applicazione delle norme del d.lgs 165/2001 per gli enti locali, senza che allo scopo sia necessaria alcuna opera di “recepimento” tramite statuto o regolamenti. D’altra parte, questa disposizione, chiarissima sin dall’origine, è stata confermata senza alcun possibile dubbio dall’articolo 4°, comma 1, lettera f), del d.lgs 150/2009, che ha introdotto nell’articolo 19 il comma 6-ter, ai sensi del quale appunto il comma 6 dell’articolo 19 si applica direttamente agli enti locali.
Non si tratta di una disposizione banale. La diretta applicazione del comma 6 dell’articolo 19 di fatto implica il travolgimento delle disposizioni dell’articolo 110, comma 1, del d.lgs 267/000. Questo, perchè poiché il comma 6 prevede requisiti soggettivi ed oggettivi per il conferimento degli incarichi a contratto del tutto assenti dalla disciplina dell’articolo 110, comma 1, la cui reviviscenza è stata dovuta non tanto ad inopportune teorie allo scopo mosse ripetutamente dalle Sezioni di controllo della Corte dei conti, quanto dalla novellazione operata dall’articolo 11, comma 1, del d.l. 90/2014, convertito dalla legge 114/2014. Per effetto di tale novella, come è noto, si consente agli enti locali di coprire con incarichi a contratto il 30% dei posti della dotazione organica, in deroga ai limiti inferiori previsti per le amministrazioni statali; inoltre, si è precisato che gli incarichi a contratto “sono conferiti previa selezione pubblica volta ad accertare, in capo ai soggetti interessati, il possesso di comprovata esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto dell' incarico”.
La sentenza della Cassazione prende spunto, allora, da una constatazione di fatto corretta, la diretta applicazione all’ordinamento locale dell’articolo 19, comma 6, del d.lgs 267/2000, per trarre una conclusione totalmente erronea: quella, cioè, secondo la quale per i dirigenti a contratto valgano i limiti di durata minimi previsti dal medesimo articolo 19.
In cosa consiste la clamorosa svista della sentenza? E’ molto semplice: nella circostanza che i giudici della Cassazione non hanno saputo distinguere la disciplina degli incarichi dirigenziali da attribuire alla dirigenza di ruolo, da quella degli incarichi dirigenziali a contratto.
La sentenza osserva che l’articolo 19 del d.lgs 165/2001 in merito agli incarichi “ha stabilito, tra l’altro, che la loro durata non può essere inferiore a tre anni né eccedere il termine di cinque anni”. Questa affermazione è verissima, ma quale disposizione dell’articolo 19 contiene tale previsione? Si tratta del comma 2, secondo periodo, a termini del quale “con il provvedimento di conferimento dell'incarico, ovvero con separato provvedimento del Presidente del Consiglio dei ministri o del Ministro competente per gli incarichi di cui al comma 3, sono individuati l'oggetto dell'incarico e gli obiettivi da conseguire, con riferimento alle priorità, ai piani e ai programmi definiti dall'organo di vertice nei propri atti di indirizzo e alle eventuali modifiche degli stessi che intervengano nel corso del rapporto, nonché la durata dell'incarico, che deve essere correlata agli obiettivi prefissati e che, comunque, non può essere inferiore a tre anni né eccedere il termine di cinque anni”.
Ma, questa disposizione vale esclusivamente per la dirigenza di ruolo: cioè, solo i dirigenti assunti con contratti a tempo indeterminato attraverso concorso pubblico sono destinatari di una durata “minima” degli incarichi, dal momento che, appunto, il loro rapporto di lavoro è di lungo periodo e si considera normale garantire una durata minima, necessaria ad esplicare la loro attività, durata, per altro, slegata dall’andamento del mandato amministrativo. Ai sensi del successivo comma 8 dell’articolo 19, infatti, cessano decorsi 90 giorni dal voto di fiducia al Governo esclusivamente gli incarichi dirigenziali di cui al comma 3 sempre dell’articolo 19, cioè gli incarichi apicali (come segretario generale o capo dipartimento): tutti gli altri proseguono, restando indifferenti alle vicende politiche del Governo.
Il comma 6 dell’articolo 19, allora, è dedicato ad una fattispecie completamente diversa: quella dei dirigenti assunti, senza concorso pubblico, con contratto di lavoro a tempo determinato e destinatari di un incarico dirigenziale simmetricamente limitato nel tempo.
Che si tratti di una fattispecie del tutto diversa lo dimostra il chiarissimo testo del primo periodo del comma 6, ai sensi del quale “gli incarichi di cui ai commi da 1 a 5 possono essere conferiti, da ciascuna amministrazione, entro il limite del 10 per cento della dotazione organica dei dirigenti appartenenti alla prima fascia dei ruoli di cui all'articolo 23 e dell'8 per cento della dotazione organica di quelli appartenenti alla seconda fascia, a tempo determinato ai soggetti indicati dal presente comma. La durata di tali incarichi, comunque, non può eccedere, per gli incarichi di funzione dirigenziale di cui ai commi 3 e 4, il termine di tre anni, e, per gli altri incarichi di funzione dirigenziale, il termine di cinque anni”.
Se gli incarichi dirigenziali previsti dai commi 1 e 5 possono essere assegnati, entro limiti precisi della dotazione organica, con contratti a tempo determinato, ciò vuol dire che i commi da 1 a 5 riguardano la fattispecie del conferimento degli incarichi a dirigenti di ruolo, assunti a tempo indeterminato.
Il semplicissimo sillogismo presentato, dimostra allora in modo inconfutabile che la durata minima triennale vale esclusivamente per i dirigenti di ruolo e non per quelli a contratto.
Del resto, rileggendo il primo periodo dell’articolo 19, comma 6, si riscontra che esso stabilisce una regola specifica per gli incarichi a contratto, disponendo che essi non possano eccedere per gli incarichi dirigenziali di vertice il termine di tre anni, mentre per tutti gli altri il termine di 5.
Dunque, mentre l’articolo 19, comma 2, pone per i soli dirigenti di ruolo il termine minimo di durata triennale dell’incarico, il comma 6 dello stesso articolo 19 contiene una previsione analoga dedicata ai dirigenti non di ruolo e a tempo determinato, che dispone, però, termini massimi e non minimi.
La sentenza della Cassazione, omettendo di prendere atto della differenza profonda tra commi 2 e 6 dell’articolo 19 e della diversità assoluta dei termini di durata degli incarichi da essi contemplata, incorre, dunque, in un errore interpretativo esiziale, che ne mina le fondamenta e la rende assolutamente erronea e meritevole di una, si spera, urgente correzione con successive pronunce che rimedino all’eclatante svista.
Ma non basta. Altri elementi confermano che la sentenza 478/2014 è assolutamente da rigettare.
Un primo è di carattere logico interpretativo. La Cassazione afferma che gli incarichi di cui all’articolo 110 hanno “carattere fiduciario” e che con essi il legislatore “vuole garantire la collaborazione del funzionario incaricato per tutto il periodo di mandato del sindaco, fermo restando il rispetto del suddetto termine minimo nell’ipotesi di cessazione di tale mandato”. Tale affermazione è due volte sbagliata. La prima volta, perché, proseguendo nell’errore evidenziato prima, ritiene che agli incarichi a contratto di applichino termini “minimi” di durata, quando invece l’articolo 19, comma 6, (come del resto l’articolo 110, comma 3) prevedono termini “massimi”. La seconda volta, perché se è vero che gli incarichi di cui all’articolo 110 sono da considerare “fiduciari”, la tesi della Cassazione finisce per sconfinare nell’assurdo: essa, infatti, impone il perdurare dell’incarico dirigenziale conferito dal sindaco X per, poniamo 3 anni, nonostante il mandato di detto sindaco sia durato solo 1 anno per qualsiasi ragione; sicchè il nuovo sindaco Y, si troverebbe obbligato a tenere in piedi un incarico “fiduciario” dovendo riporre la propria fiducia su una persona scelta dal precedente sindaco. Il che, con ogni evidenza, contrasta col principio della fiduciarietà e dell’intuitu personae, i quali postulano la strettissima connessione tra il soggetto che incarica e il destinatario dell’incarico. Se il sindaco X incarica il dirigente di sua fifucia X.1, il sindaco Y non può essere costretto a proseguire un rapporto di fiducia del quale non è stato causa, specie se su X.1 non ripone alcuna fiducia.
La fiduciarietà impone il “simul stabunt, simul cadent”. Che è esattamente quanto dispone l’articolo 110, comma 3, del d.lgs 267/2000 il quale in assoluta coerenza con l’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001, contempla un’ipotesi di decadenza ex lege (automatica, che non richiede alcun provvedimento o atto) del dirigente a contratto, per effetto della scadenza del mandato amministrativo, anche laddove tale decadenza si determini prima di termini di durata dell’incarico che, in quanto “massimi” e non “minimi” (come dimostrato sopra), ben possono essere soggetti ad un’interruzione anticipata.
La sentenza della Cassazione appare non solo totalmente erronea, ma anche non meritevole di alcuna applicazione sul campo pratico. Essa, infatti, se seguita, apre rischi enormi di danno erariale; infatti, la prosecuzione di un rapporto di lavoro oltre il termine ex lege fissato dall’articolo 110, comma 3, del d.lgs 267/2000, priva tale rapporto di ogni titolo legittimo ed espone ovviamente l’ente e i soggetti che danno corso alla “proroga” accettandola passivamente a responsabilità per danno erariale.
Infine, è da osservare che la sentenza è da considerare comunque superata e non conforme al nuovo assetto ordinamentale, precisato da norme ad essa successive e dalle già citate pronunce della Corte costituzionale.
In particolare, non convince ed è da confutare l’assunto della Cassazione secondo il quale gli incarichi dirigenziali sarebbero “fiduciari”. Non solo ciò contrasta con la giurisprudenza costituzionale pacifica, che considera esistere un rapporto di fiducia esclusivamente per la dirigenza di estremo vertice, tanto da ammettere in questo caso – in modo diametralmente opposto alla ricostruzione della Cassazione – una decadenza automatica connessa all’entrata in funzione di un nuovo Governo. In più, la fiduciarietà è da considerare anche testualmente espunta dall’ordinamento proprio per effetto della novellazione del comma 1 dell’articolo 110 del d.lgs 267/2000 operata dal ricordato articolo 11, comma 1, della legge 114/2014, laddove richiede una procedura ad evidenza pubblica per reclutare i dirigenti a contratto: il che esclude radicalmente ogni possibilità che il sindaco possa scegliere “in ragione della persona” il proprio dirigente.
La disciplina della dirigenza a contratto è di per sé un vulnus alla tenuta dell’ordinamento giuridico e, come visto all’inizio, fonte di tantissimi problemi. Sarebbe opportuno che la Cassazione non contribuisse ad ingenerale altri problemi ed emendasse al più presto la sua meritoria opera di nomofilachia, annichilendo al più presto i contenuti erronei della sentenza della Sezione lavoro 478/2014, per quanto essa, comunque, sia già da considerare inapplicabile.
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