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lunedì 24 agosto 2015
Incarichi a contratto: l’erronea sentenza della Cassazione 13 gennaio 2014, n. 478
Una delle ferite maggiormente aperte e sanguinolenti dell’ordinamento italiano e, segnatamente, del personale è costituita dalla soffertissima disciplina degli incarichi dirigenziali a tempo determinato.
Le previsioni dell’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001 e, per gli enti locali, dell’articolo 110, commi 1 e 2, del d.lgs 267/2000 continuano ad essere fonte infinita di contenzioso, operazioni discutibili, causa di contiguità tra politica ed amministrazione in contrasto con l’articolo 97 della Costituzione, promozioni sul campo non ammesse, sforamento dei limiti percentuali, violazione continua ai requisiti soggettivi, violazione continua ai limiti temporali.
Che la disciplina degli incarichi a contratto meriti una profonda revisione, tesa alla costruzione di limiti molto maggiori e più chiari lo dimostra senza alcun’ombra di dubbi la sentenza della Corte costituzionale 37/2015, corroborata dall’ulteriore sentenza 180/2015. Sarebbe il caso di trarre spunto da queste pronunce, per estirpare dall’ordinamento norme fin qui prevalentemente fonte di problemi ed illegittimità. Ma anche di equivoci interpretativi, dei quali oggettivamente sarebbe il caso di fare a meno.
Tra questi equivoci, è clamoroso quello scatenato dalla Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 13 gennaio 2014, n. 478: un concentrato di valutazioni del tutto sbagliate sulla disciplina degli incarichi a contratto negli enti locali.
La pronuncia è nota per aver posto in via nomofilattica il seguente principio diritto: “In tema di affidamento, negli enti locali, di incarichi dirigenziali a soggetti esterni all’amministrazione si applica l’art. 19 D. Lgs. n. 165 del 2001, nel testo modificato dall’art. 14 sexies D.L. n. 155 del 2005, convertito con modificazioni nella L. n. 168 del 2005, secondo cui la durata di tali incarichi non può essere inferiore a tre anni né eccedere il termine di cinque, e non già l’art. 110, comma 3, D. Lgs. n. 267 del 2000 (T.U. Enti locali), il quale stabilisce che la incarichi a contratto non possono avere durata superiore al mandato elettivo del Sindaco in carica. La disciplina statale integra quella degli enti locali: la prima, con la predeterminazione della durata minima dell’incarico, è volta ad evitare il conferimento di incarichi troppo brevi ed a consentire al dirigente di esercitare il mandato per un tempo sufficiente ad esprimere le sue capacità ed a conseguire i risultati per i quali l’incarico gli è stato affidato; la seconda ha la funzione di fornire al Sindaco uno strumento per affidare incarichi di rilievo sulla base dell’intuitus personae, anche al di fuori di un rapporto di dipendenza stabile e oltre le dotazioni organiche, e di garantire la collaborazione del funzionario incaricato per tutto il periodo del mandato del Sindaco, fermo restando il rispetto del suddetto termine minimo nell’ipotesi di cessazione di tale mandato”.
Si tratta di un principio, però, assolutamente erroneo e fuori strada e, come vedremo, del tutto superato e disapplicare proprio in virtù della giurisprudenza costituzionale.
La sentenza 478/2014 della Cassazione è corretta solo da un punto di vista: quando afferma che all’ordinamento degli enti locali è direttamente applicabile l’articolo 19 del d.lgs 165/2001, ivi compreso, dunque, il suo comma 6, la famosa norma di disciplina degli incarichi a contratto.
La pronuncia non fa altro che ricordare la vigenza dell’articolo 88 del d.lgs 267/2000, fonte di un “rinvio dinamico” dall’ordinamento locale a quello nazionale del personale, cui consegue la diretta applicazione delle norme del d.lgs 165/2001 per gli enti locali, senza che allo scopo sia necessaria alcuna opera di “recepimento” tramite statuto o regolamenti. D’altra parte, questa disposizione, chiarissima sin dall’origine, è stata confermata senza alcun possibile dubbio dall’articolo 4°, comma 1, lettera f), del d.lgs 150/2009, che ha introdotto nell’articolo 19 il comma 6-ter, ai sensi del quale appunto il comma 6 dell’articolo 19 si applica direttamente agli enti locali.
Non si tratta di una disposizione banale. La diretta applicazione del comma 6 dell’articolo 19 di fatto implica il travolgimento delle disposizioni dell’articolo 110, comma 1, del d.lgs 267/000. Questo, perchè poiché il comma 6 prevede requisiti soggettivi ed oggettivi per il conferimento degli incarichi a contratto del tutto assenti dalla disciplina dell’articolo 110, comma 1, la cui reviviscenza è stata dovuta non tanto ad inopportune teorie allo scopo mosse ripetutamente dalle Sezioni di controllo della Corte dei conti, quanto dalla novellazione operata dall’articolo 11, comma 1, del d.l. 90/2014, convertito dalla legge 114/2014. Per effetto di tale novella, come è noto, si consente agli enti locali di coprire con incarichi a contratto il 30% dei posti della dotazione organica, in deroga ai limiti inferiori previsti per le amministrazioni statali; inoltre, si è precisato che gli incarichi a contratto “sono conferiti previa selezione pubblica volta ad accertare, in capo ai soggetti interessati, il possesso di comprovata esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto dell' incarico”.
La sentenza della Cassazione prende spunto, allora, da una constatazione di fatto corretta, la diretta applicazione all’ordinamento locale dell’articolo 19, comma 6, del d.lgs 267/2000, per trarre una conclusione totalmente erronea: quella, cioè, secondo la quale per i dirigenti a contratto valgano i limiti di durata minimi previsti dal medesimo articolo 19.
In cosa consiste la clamorosa svista della sentenza? E’ molto semplice: nella circostanza che i giudici della Cassazione non hanno saputo distinguere la disciplina degli incarichi dirigenziali da attribuire alla dirigenza di ruolo, da quella degli incarichi dirigenziali a contratto.
La sentenza osserva che l’articolo 19 del d.lgs 165/2001 in merito agli incarichi “ha stabilito, tra l’altro, che la loro durata non può essere inferiore a tre anni né eccedere il termine di cinque anni”. Questa affermazione è verissima, ma quale disposizione dell’articolo 19 contiene tale previsione? Si tratta del comma 2, secondo periodo, a termini del quale “con il provvedimento di conferimento dell'incarico, ovvero con separato provvedimento del Presidente del Consiglio dei ministri o del Ministro competente per gli incarichi di cui al comma 3, sono individuati l'oggetto dell'incarico e gli obiettivi da conseguire, con riferimento alle priorità, ai piani e ai programmi definiti dall'organo di vertice nei propri atti di indirizzo e alle eventuali modifiche degli stessi che intervengano nel corso del rapporto, nonché la durata dell'incarico, che deve essere correlata agli obiettivi prefissati e che, comunque, non può essere inferiore a tre anni né eccedere il termine di cinque anni”.
Ma, questa disposizione vale esclusivamente per la dirigenza di ruolo: cioè, solo i dirigenti assunti con contratti a tempo indeterminato attraverso concorso pubblico sono destinatari di una durata “minima” degli incarichi, dal momento che, appunto, il loro rapporto di lavoro è di lungo periodo e si considera normale garantire una durata minima, necessaria ad esplicare la loro attività, durata, per altro, slegata dall’andamento del mandato amministrativo. Ai sensi del successivo comma 8 dell’articolo 19, infatti, cessano decorsi 90 giorni dal voto di fiducia al Governo esclusivamente gli incarichi dirigenziali di cui al comma 3 sempre dell’articolo 19, cioè gli incarichi apicali (come segretario generale o capo dipartimento): tutti gli altri proseguono, restando indifferenti alle vicende politiche del Governo.
Il comma 6 dell’articolo 19, allora, è dedicato ad una fattispecie completamente diversa: quella dei dirigenti assunti, senza concorso pubblico, con contratto di lavoro a tempo determinato e destinatari di un incarico dirigenziale simmetricamente limitato nel tempo.
Che si tratti di una fattispecie del tutto diversa lo dimostra il chiarissimo testo del primo periodo del comma 6, ai sensi del quale “gli incarichi di cui ai commi da 1 a 5 possono essere conferiti, da ciascuna amministrazione, entro il limite del 10 per cento della dotazione organica dei dirigenti appartenenti alla prima fascia dei ruoli di cui all'articolo 23 e dell'8 per cento della dotazione organica di quelli appartenenti alla seconda fascia, a tempo determinato ai soggetti indicati dal presente comma. La durata di tali incarichi, comunque, non può eccedere, per gli incarichi di funzione dirigenziale di cui ai commi 3 e 4, il termine di tre anni, e, per gli altri incarichi di funzione dirigenziale, il termine di cinque anni”.
Se gli incarichi dirigenziali previsti dai commi 1 e 5 possono essere assegnati, entro limiti precisi della dotazione organica, con contratti a tempo determinato, ciò vuol dire che i commi da 1 a 5 riguardano la fattispecie del conferimento degli incarichi a dirigenti di ruolo, assunti a tempo indeterminato.
Il semplicissimo sillogismo presentato, dimostra allora in modo inconfutabile che la durata minima triennale vale esclusivamente per i dirigenti di ruolo e non per quelli a contratto.
Del resto, rileggendo il primo periodo dell’articolo 19, comma 6, si riscontra che esso stabilisce una regola specifica per gli incarichi a contratto, disponendo che essi non possano eccedere per gli incarichi dirigenziali di vertice il termine di tre anni, mentre per tutti gli altri il termine di 5.
Dunque, mentre l’articolo 19, comma 2, pone per i soli dirigenti di ruolo il termine minimo di durata triennale dell’incarico, il comma 6 dello stesso articolo 19 contiene una previsione analoga dedicata ai dirigenti non di ruolo e a tempo determinato, che dispone, però, termini massimi e non minimi.
La sentenza della Cassazione, omettendo di prendere atto della differenza profonda tra commi 2 e 6 dell’articolo 19 e della diversità assoluta dei termini di durata degli incarichi da essi contemplata, incorre, dunque, in un errore interpretativo esiziale, che ne mina le fondamenta e la rende assolutamente erronea e meritevole di una, si spera, urgente correzione con successive pronunce che rimedino all’eclatante svista.
Ma non basta. Altri elementi confermano che la sentenza 478/2014 è assolutamente da rigettare.
Un primo è di carattere logico interpretativo. La Cassazione afferma che gli incarichi di cui all’articolo 110 hanno “carattere fiduciario” e che con essi il legislatore “vuole garantire la collaborazione del funzionario incaricato per tutto il periodo di mandato del sindaco, fermo restando il rispetto del suddetto termine minimo nell’ipotesi di cessazione di tale mandato”. Tale affermazione è due volte sbagliata. La prima volta, perché, proseguendo nell’errore evidenziato prima, ritiene che agli incarichi a contratto di applichino termini “minimi” di durata, quando invece l’articolo 19, comma 6, (come del resto l’articolo 110, comma 3) prevedono termini “massimi”. La seconda volta, perché se è vero che gli incarichi di cui all’articolo 110 sono da considerare “fiduciari”, la tesi della Cassazione finisce per sconfinare nell’assurdo: essa, infatti, impone il perdurare dell’incarico dirigenziale conferito dal sindaco X per, poniamo 3 anni, nonostante il mandato di detto sindaco sia durato solo 1 anno per qualsiasi ragione; sicchè il nuovo sindaco Y, si troverebbe obbligato a tenere in piedi un incarico “fiduciario” dovendo riporre la propria fiducia su una persona scelta dal precedente sindaco. Il che, con ogni evidenza, contrasta col principio della fiduciarietà e dell’intuitu personae, i quali postulano la strettissima connessione tra il soggetto che incarica e il destinatario dell’incarico. Se il sindaco X incarica il dirigente di sua fifucia X.1, il sindaco Y non può essere costretto a proseguire un rapporto di fiducia del quale non è stato causa, specie se su X.1 non ripone alcuna fiducia.
La fiduciarietà impone il “simul stabunt, simul cadent”. Che è esattamente quanto dispone l’articolo 110, comma 3, del d.lgs 267/2000 il quale in assoluta coerenza con l’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001, contempla un’ipotesi di decadenza ex lege (automatica, che non richiede alcun provvedimento o atto) del dirigente a contratto, per effetto della scadenza del mandato amministrativo, anche laddove tale decadenza si determini prima di termini di durata dell’incarico che, in quanto “massimi” e non “minimi” (come dimostrato sopra), ben possono essere soggetti ad un’interruzione anticipata.
La sentenza della Cassazione appare non solo totalmente erronea, ma anche non meritevole di alcuna applicazione sul campo pratico. Essa, infatti, se seguita, apre rischi enormi di danno erariale; infatti, la prosecuzione di un rapporto di lavoro oltre il termine ex lege fissato dall’articolo 110, comma 3, del d.lgs 267/2000, priva tale rapporto di ogni titolo legittimo ed espone ovviamente l’ente e i soggetti che danno corso alla “proroga” accettandola passivamente a responsabilità per danno erariale.
Infine, è da osservare che la sentenza è da considerare comunque superata e non conforme al nuovo assetto ordinamentale, precisato da norme ad essa successive e dalle già citate pronunce della Corte costituzionale.
In particolare, non convince ed è da confutare l’assunto della Cassazione secondo il quale gli incarichi dirigenziali sarebbero “fiduciari”. Non solo ciò contrasta con la giurisprudenza costituzionale pacifica, che considera esistere un rapporto di fiducia esclusivamente per la dirigenza di estremo vertice, tanto da ammettere in questo caso – in modo diametralmente opposto alla ricostruzione della Cassazione – una decadenza automatica connessa all’entrata in funzione di un nuovo Governo. In più, la fiduciarietà è da considerare anche testualmente espunta dall’ordinamento proprio per effetto della novellazione del comma 1 dell’articolo 110 del d.lgs 267/2000 operata dal ricordato articolo 11, comma 1, della legge 114/2014, laddove richiede una procedura ad evidenza pubblica per reclutare i dirigenti a contratto: il che esclude radicalmente ogni possibilità che il sindaco possa scegliere “in ragione della persona” il proprio dirigente.
La disciplina della dirigenza a contratto è di per sé un vulnus alla tenuta dell’ordinamento giuridico e, come visto all’inizio, fonte di tantissimi problemi. Sarebbe opportuno che la Cassazione non contribuisse ad ingenerale altri problemi ed emendasse al più presto la sua meritoria opera di nomofilachia, annichilendo al più presto i contenuti erronei della sentenza della Sezione lavoro 478/2014, per quanto essa, comunque, sia già da considerare inapplicabile.
Le previsioni dell’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001 e, per gli enti locali, dell’articolo 110, commi 1 e 2, del d.lgs 267/2000 continuano ad essere fonte infinita di contenzioso, operazioni discutibili, causa di contiguità tra politica ed amministrazione in contrasto con l’articolo 97 della Costituzione, promozioni sul campo non ammesse, sforamento dei limiti percentuali, violazione continua ai requisiti soggettivi, violazione continua ai limiti temporali.
Che la disciplina degli incarichi a contratto meriti una profonda revisione, tesa alla costruzione di limiti molto maggiori e più chiari lo dimostra senza alcun’ombra di dubbi la sentenza della Corte costituzionale 37/2015, corroborata dall’ulteriore sentenza 180/2015. Sarebbe il caso di trarre spunto da queste pronunce, per estirpare dall’ordinamento norme fin qui prevalentemente fonte di problemi ed illegittimità. Ma anche di equivoci interpretativi, dei quali oggettivamente sarebbe il caso di fare a meno.
Tra questi equivoci, è clamoroso quello scatenato dalla Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 13 gennaio 2014, n. 478: un concentrato di valutazioni del tutto sbagliate sulla disciplina degli incarichi a contratto negli enti locali.
La pronuncia è nota per aver posto in via nomofilattica il seguente principio diritto: “In tema di affidamento, negli enti locali, di incarichi dirigenziali a soggetti esterni all’amministrazione si applica l’art. 19 D. Lgs. n. 165 del 2001, nel testo modificato dall’art. 14 sexies D.L. n. 155 del 2005, convertito con modificazioni nella L. n. 168 del 2005, secondo cui la durata di tali incarichi non può essere inferiore a tre anni né eccedere il termine di cinque, e non già l’art. 110, comma 3, D. Lgs. n. 267 del 2000 (T.U. Enti locali), il quale stabilisce che la incarichi a contratto non possono avere durata superiore al mandato elettivo del Sindaco in carica. La disciplina statale integra quella degli enti locali: la prima, con la predeterminazione della durata minima dell’incarico, è volta ad evitare il conferimento di incarichi troppo brevi ed a consentire al dirigente di esercitare il mandato per un tempo sufficiente ad esprimere le sue capacità ed a conseguire i risultati per i quali l’incarico gli è stato affidato; la seconda ha la funzione di fornire al Sindaco uno strumento per affidare incarichi di rilievo sulla base dell’intuitus personae, anche al di fuori di un rapporto di dipendenza stabile e oltre le dotazioni organiche, e di garantire la collaborazione del funzionario incaricato per tutto il periodo del mandato del Sindaco, fermo restando il rispetto del suddetto termine minimo nell’ipotesi di cessazione di tale mandato”.
Si tratta di un principio, però, assolutamente erroneo e fuori strada e, come vedremo, del tutto superato e disapplicare proprio in virtù della giurisprudenza costituzionale.
La sentenza 478/2014 della Cassazione è corretta solo da un punto di vista: quando afferma che all’ordinamento degli enti locali è direttamente applicabile l’articolo 19 del d.lgs 165/2001, ivi compreso, dunque, il suo comma 6, la famosa norma di disciplina degli incarichi a contratto.
La pronuncia non fa altro che ricordare la vigenza dell’articolo 88 del d.lgs 267/2000, fonte di un “rinvio dinamico” dall’ordinamento locale a quello nazionale del personale, cui consegue la diretta applicazione delle norme del d.lgs 165/2001 per gli enti locali, senza che allo scopo sia necessaria alcuna opera di “recepimento” tramite statuto o regolamenti. D’altra parte, questa disposizione, chiarissima sin dall’origine, è stata confermata senza alcun possibile dubbio dall’articolo 4°, comma 1, lettera f), del d.lgs 150/2009, che ha introdotto nell’articolo 19 il comma 6-ter, ai sensi del quale appunto il comma 6 dell’articolo 19 si applica direttamente agli enti locali.
Non si tratta di una disposizione banale. La diretta applicazione del comma 6 dell’articolo 19 di fatto implica il travolgimento delle disposizioni dell’articolo 110, comma 1, del d.lgs 267/000. Questo, perchè poiché il comma 6 prevede requisiti soggettivi ed oggettivi per il conferimento degli incarichi a contratto del tutto assenti dalla disciplina dell’articolo 110, comma 1, la cui reviviscenza è stata dovuta non tanto ad inopportune teorie allo scopo mosse ripetutamente dalle Sezioni di controllo della Corte dei conti, quanto dalla novellazione operata dall’articolo 11, comma 1, del d.l. 90/2014, convertito dalla legge 114/2014. Per effetto di tale novella, come è noto, si consente agli enti locali di coprire con incarichi a contratto il 30% dei posti della dotazione organica, in deroga ai limiti inferiori previsti per le amministrazioni statali; inoltre, si è precisato che gli incarichi a contratto “sono conferiti previa selezione pubblica volta ad accertare, in capo ai soggetti interessati, il possesso di comprovata esperienza pluriennale e specifica professionalità nelle materie oggetto dell' incarico”.
La sentenza della Cassazione prende spunto, allora, da una constatazione di fatto corretta, la diretta applicazione all’ordinamento locale dell’articolo 19, comma 6, del d.lgs 267/2000, per trarre una conclusione totalmente erronea: quella, cioè, secondo la quale per i dirigenti a contratto valgano i limiti di durata minimi previsti dal medesimo articolo 19.
In cosa consiste la clamorosa svista della sentenza? E’ molto semplice: nella circostanza che i giudici della Cassazione non hanno saputo distinguere la disciplina degli incarichi dirigenziali da attribuire alla dirigenza di ruolo, da quella degli incarichi dirigenziali a contratto.
La sentenza osserva che l’articolo 19 del d.lgs 165/2001 in merito agli incarichi “ha stabilito, tra l’altro, che la loro durata non può essere inferiore a tre anni né eccedere il termine di cinque anni”. Questa affermazione è verissima, ma quale disposizione dell’articolo 19 contiene tale previsione? Si tratta del comma 2, secondo periodo, a termini del quale “con il provvedimento di conferimento dell'incarico, ovvero con separato provvedimento del Presidente del Consiglio dei ministri o del Ministro competente per gli incarichi di cui al comma 3, sono individuati l'oggetto dell'incarico e gli obiettivi da conseguire, con riferimento alle priorità, ai piani e ai programmi definiti dall'organo di vertice nei propri atti di indirizzo e alle eventuali modifiche degli stessi che intervengano nel corso del rapporto, nonché la durata dell'incarico, che deve essere correlata agli obiettivi prefissati e che, comunque, non può essere inferiore a tre anni né eccedere il termine di cinque anni”.
Ma, questa disposizione vale esclusivamente per la dirigenza di ruolo: cioè, solo i dirigenti assunti con contratti a tempo indeterminato attraverso concorso pubblico sono destinatari di una durata “minima” degli incarichi, dal momento che, appunto, il loro rapporto di lavoro è di lungo periodo e si considera normale garantire una durata minima, necessaria ad esplicare la loro attività, durata, per altro, slegata dall’andamento del mandato amministrativo. Ai sensi del successivo comma 8 dell’articolo 19, infatti, cessano decorsi 90 giorni dal voto di fiducia al Governo esclusivamente gli incarichi dirigenziali di cui al comma 3 sempre dell’articolo 19, cioè gli incarichi apicali (come segretario generale o capo dipartimento): tutti gli altri proseguono, restando indifferenti alle vicende politiche del Governo.
Il comma 6 dell’articolo 19, allora, è dedicato ad una fattispecie completamente diversa: quella dei dirigenti assunti, senza concorso pubblico, con contratto di lavoro a tempo determinato e destinatari di un incarico dirigenziale simmetricamente limitato nel tempo.
Che si tratti di una fattispecie del tutto diversa lo dimostra il chiarissimo testo del primo periodo del comma 6, ai sensi del quale “gli incarichi di cui ai commi da 1 a 5 possono essere conferiti, da ciascuna amministrazione, entro il limite del 10 per cento della dotazione organica dei dirigenti appartenenti alla prima fascia dei ruoli di cui all'articolo 23 e dell'8 per cento della dotazione organica di quelli appartenenti alla seconda fascia, a tempo determinato ai soggetti indicati dal presente comma. La durata di tali incarichi, comunque, non può eccedere, per gli incarichi di funzione dirigenziale di cui ai commi 3 e 4, il termine di tre anni, e, per gli altri incarichi di funzione dirigenziale, il termine di cinque anni”.
Se gli incarichi dirigenziali previsti dai commi 1 e 5 possono essere assegnati, entro limiti precisi della dotazione organica, con contratti a tempo determinato, ciò vuol dire che i commi da 1 a 5 riguardano la fattispecie del conferimento degli incarichi a dirigenti di ruolo, assunti a tempo indeterminato.
Il semplicissimo sillogismo presentato, dimostra allora in modo inconfutabile che la durata minima triennale vale esclusivamente per i dirigenti di ruolo e non per quelli a contratto.
Del resto, rileggendo il primo periodo dell’articolo 19, comma 6, si riscontra che esso stabilisce una regola specifica per gli incarichi a contratto, disponendo che essi non possano eccedere per gli incarichi dirigenziali di vertice il termine di tre anni, mentre per tutti gli altri il termine di 5.
Dunque, mentre l’articolo 19, comma 2, pone per i soli dirigenti di ruolo il termine minimo di durata triennale dell’incarico, il comma 6 dello stesso articolo 19 contiene una previsione analoga dedicata ai dirigenti non di ruolo e a tempo determinato, che dispone, però, termini massimi e non minimi.
La sentenza della Cassazione, omettendo di prendere atto della differenza profonda tra commi 2 e 6 dell’articolo 19 e della diversità assoluta dei termini di durata degli incarichi da essi contemplata, incorre, dunque, in un errore interpretativo esiziale, che ne mina le fondamenta e la rende assolutamente erronea e meritevole di una, si spera, urgente correzione con successive pronunce che rimedino all’eclatante svista.
Ma non basta. Altri elementi confermano che la sentenza 478/2014 è assolutamente da rigettare.
Un primo è di carattere logico interpretativo. La Cassazione afferma che gli incarichi di cui all’articolo 110 hanno “carattere fiduciario” e che con essi il legislatore “vuole garantire la collaborazione del funzionario incaricato per tutto il periodo di mandato del sindaco, fermo restando il rispetto del suddetto termine minimo nell’ipotesi di cessazione di tale mandato”. Tale affermazione è due volte sbagliata. La prima volta, perché, proseguendo nell’errore evidenziato prima, ritiene che agli incarichi a contratto di applichino termini “minimi” di durata, quando invece l’articolo 19, comma 6, (come del resto l’articolo 110, comma 3) prevedono termini “massimi”. La seconda volta, perché se è vero che gli incarichi di cui all’articolo 110 sono da considerare “fiduciari”, la tesi della Cassazione finisce per sconfinare nell’assurdo: essa, infatti, impone il perdurare dell’incarico dirigenziale conferito dal sindaco X per, poniamo 3 anni, nonostante il mandato di detto sindaco sia durato solo 1 anno per qualsiasi ragione; sicchè il nuovo sindaco Y, si troverebbe obbligato a tenere in piedi un incarico “fiduciario” dovendo riporre la propria fiducia su una persona scelta dal precedente sindaco. Il che, con ogni evidenza, contrasta col principio della fiduciarietà e dell’intuitu personae, i quali postulano la strettissima connessione tra il soggetto che incarica e il destinatario dell’incarico. Se il sindaco X incarica il dirigente di sua fifucia X.1, il sindaco Y non può essere costretto a proseguire un rapporto di fiducia del quale non è stato causa, specie se su X.1 non ripone alcuna fiducia.
La fiduciarietà impone il “simul stabunt, simul cadent”. Che è esattamente quanto dispone l’articolo 110, comma 3, del d.lgs 267/2000 il quale in assoluta coerenza con l’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001, contempla un’ipotesi di decadenza ex lege (automatica, che non richiede alcun provvedimento o atto) del dirigente a contratto, per effetto della scadenza del mandato amministrativo, anche laddove tale decadenza si determini prima di termini di durata dell’incarico che, in quanto “massimi” e non “minimi” (come dimostrato sopra), ben possono essere soggetti ad un’interruzione anticipata.
La sentenza della Cassazione appare non solo totalmente erronea, ma anche non meritevole di alcuna applicazione sul campo pratico. Essa, infatti, se seguita, apre rischi enormi di danno erariale; infatti, la prosecuzione di un rapporto di lavoro oltre il termine ex lege fissato dall’articolo 110, comma 3, del d.lgs 267/2000, priva tale rapporto di ogni titolo legittimo ed espone ovviamente l’ente e i soggetti che danno corso alla “proroga” accettandola passivamente a responsabilità per danno erariale.
Infine, è da osservare che la sentenza è da considerare comunque superata e non conforme al nuovo assetto ordinamentale, precisato da norme ad essa successive e dalle già citate pronunce della Corte costituzionale.
In particolare, non convince ed è da confutare l’assunto della Cassazione secondo il quale gli incarichi dirigenziali sarebbero “fiduciari”. Non solo ciò contrasta con la giurisprudenza costituzionale pacifica, che considera esistere un rapporto di fiducia esclusivamente per la dirigenza di estremo vertice, tanto da ammettere in questo caso – in modo diametralmente opposto alla ricostruzione della Cassazione – una decadenza automatica connessa all’entrata in funzione di un nuovo Governo. In più, la fiduciarietà è da considerare anche testualmente espunta dall’ordinamento proprio per effetto della novellazione del comma 1 dell’articolo 110 del d.lgs 267/2000 operata dal ricordato articolo 11, comma 1, della legge 114/2014, laddove richiede una procedura ad evidenza pubblica per reclutare i dirigenti a contratto: il che esclude radicalmente ogni possibilità che il sindaco possa scegliere “in ragione della persona” il proprio dirigente.
La disciplina della dirigenza a contratto è di per sé un vulnus alla tenuta dell’ordinamento giuridico e, come visto all’inizio, fonte di tantissimi problemi. Sarebbe opportuno che la Cassazione non contribuisse ad ingenerale altri problemi ed emendasse al più presto la sua meritoria opera di nomofilachia, annichilendo al più presto i contenuti erronei della sentenza della Sezione lavoro 478/2014, per quanto essa, comunque, sia già da considerare inapplicabile.
domenica 2 agosto 2015
Incostituzionali incarichi dirigenziali ai funzionari
Con la sentenza 180/2015 la Consulta estende, come era inevitabile, alle regioni le conclusioni già tratte nei confronti delle Agenzie fiscali nella pronuncia 37/2015. Quando i comuni si adegueranno?
La Corte costituzionale continua nel suo meritorio processo di demolizione degli incarichi dirigenziali a funzionari delle amministrazioni conferenti, posto in essere dalle amministrazioni in modo sempre da violare gli stretti vincoli pur previsti dalle norme che li regolano. Norme come gli articoli 19, commi 6 e seguenti, del d.lgs 165/2001 e l’articolo 110, commi 1 e 2, del d.lgs 267/2000 che sarebbe opportuno abolire, comunque, al più presto, ma che invece con la legge delega di riforma della PA il Governo pare volersi tenere ben strette.
La Consulta ha considerato incostituzionale l’articolo 2, comma 9-bis della legge regionale della Basilicata 31/2010, introdotto dall’articolo 51, comma 4, della legge regionale 26/2014.
Il contenuto della norma incostituzionale è sostanzialmente identico alle disposizioni regolamentari adottate negli anni dalle Agenzie fiscali, per crearsi norme ad hoc per potere incaricare, ovviamente senza alcun concorso, propri funzionari come dirigenti: prassi incostituzionale e come tale censurata dalla Consulta nell’ormai celeberrima sentenza 37/2015.
Era chiarissimo che quest’ultima pronuncia non potesse considerarsi come circoscritta al sistema delle Agenzie: la Corte costituzionale, quale giudice delle leggi, tratta di principi generali, validi per l’intero ordinamento.
Amministrazioni statali, regioni ed enti locali avrebbero dovuto da subito trarre le conclusioni e correggere il tiro, ravvedendosi sul sistema di cooptazione degli incarichi, come si è avuto modo già di scrivere (vedasi La Settimana degli Enti Locali 11/2011, L. Oliveri, “Chiudere per sempre l’esperienza degli incarichi dirigenziali a funzionari”).
Sta di fatto che, invece, regioni ed enti locali non se lo sono nemmeno sognato e continuano come nulla fosse ad elargire incarichi dirigenziali senza concorsi.
La norma costituzionalmente illegittima della regione Basilicata, sintetizza la Consulta, “prevede la possibilità di attribuire, nelle more dell’espletamento dei concorsi pubblici per l’accesso alla qualifica dirigenziale e, comunque, per non oltre due anni, le funzioni dirigenziali a dipendenti a tempo indeterminato di ruolo dell’amministrazione regionale appartenenti alla categoria D3 giuridico del comparto Regioni-Enti locali in possesso dei requisiti per l’accesso alla qualifica dirigenziale, previo espletamento di apposite procedure selettive, stabilendo, altresì, che al dipendente incaricato spetti, per la durata dell’attribuzione delle funzioni, il trattamento tabellare già in godimento e il trattamento accessorio del personale con qualifica dirigenziale”. Esattamente lo stesso “trucco” escogitato dalle Agenzie: attribuire incarichi dirigenziali ai funzionari “nelle more” di concorsi che poi non si espletano mai, e costruirsi un apparato di dirigenti “fedeli”, che debbono sdebitarsi della qualifica dirigenziale “ottriata”, grazie alla dazione feudale dell’organo politico.
Il fenomeno della dirigenza a contratto, attribuita senza concorsi, nel sistema degli enti locali è diffusissimo ed ormai fuori controllo. La Corte dei conti, Sezione Autonomie, con la deliberazione 16/2015 ha attestato che su 8000 dirigenti presenti in regioni ed enti locali, 6038 sono di ruolo, assunti con concorso; 1962 sono quelli “a contratto”, per una percentuale complessiva pari al 32%. In particolare nelle province su 971 dirigenti di ruolo, 240 sono incaricati a contratto, il 24,7%; nelle regioni 1891 sono i dirigenti di ruolo e 261 quelli a contratto, per una percentuale del 13,8%; nei comuni i dirigenti di ruolo sono 3176, mentre quelli a contratto sono 1461: una percentuale del 46%!
Si capisce, dunque, perché il d.l. 90/2014, convertito in legge 114/2014 ha esteso per i comuni al 30% la percentuale di dirigenti incaricabili a contratto: è solo il tentativo di sanare la violazione dei limiti numerici imposta a seguito della riforma Brunetta.
Dei 1962 dirigenti a contratto non è noto quanti siano i funzionari beneficiati della cooptazione incostituzionale. Ma probabilmente sono in tanti, comunque troppi.
La pronuncia della Consulta 180/2015 è estremamente importante per una serie di ragioni, tali da chiarire moltissimi aspetti, furbescamente considerati controversi dalle amministrazioni.
In primo luogo, la Consulta richiama e conferma le statuizioni della sentenza 37/2015. E’ opportuno ricordarle: “nessun dubbio può nutrirsi in ordine al fatto che il conferimento di incarichi dirigenziali nell’ambito di un’amministrazione pubblica debba avvenire previo esperimento di un pubblico concorso, e che il concorso sia necessario anche nei casi di nuovo inquadramento di dipendenti già in servizio. Anche il passaggio ad una fascia funzionale superiore comporta «l’accesso ad un nuovo posto di lavoro corrispondente a funzioni più elevate ed è soggetto, pertanto, quale figura di reclutamento, alla regola del pubblico concorso» (sentenza n. 194 del 2002; ex plurimis, inoltre, sentenze n. 217 del 2012, n. 7 del 2011, n. 150 del 2010, n. 293 del 2009)”. Si tratta di indicazioni erga omnes, valevoli per l’intero ordinamento pubblico, anche se molte amministrazioni continuano a fare orecchie da mercante e a permanere nell’illegalità.
In secondo luogo, la Corte costituzionale si occupa del problema del rapporto che si innesca tra conferimento di incarichi dirigenziali a funzionari interni ed attribuzione di mansioni superiori.
La Consulta nega la possibilità di introdurre disposizioni normative (leggi regionali o regolamenti che siano) tendenti a qualificare il conferimento di incarichi dirigenziali un surrogato delle “mansioni superiori” per il fine di coprire posti della dotazione organica dirigenziale nelle more dei concorsi: “il comma 9-bis introdotto al citato art. 2 con la norma regionale ora impugnata (l’art. 51, comma 4, della legge regionale n. 26 del 2014) interviene a dettare norme specificamente in tema di assegnazione temporanea di personale ad altre mansioni (nella specie di rango dirigenziale), norme che, peraltro, risultano difficilmente riconducibili alle fattispecie delineate dal d.lgs. n. 165 del 2001. Esse, infatti, non configurano un’ipotesi di legittimo conferimento di mansioni superiori (di cui all’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001), in quanto, oltre a non soddisfare i requisiti prescritti dal citato decreto legislativo (e dal relativo contratto collettivo), delineano il conferimento di funzioni corrispondenti ad una diversa ‘carriera’ (quella dirigenziale, appunto), piuttosto che di mansioni superiori, sanzionato dall’art. 52, comma 5, del medesimo d.lgs. n. 165 del 2001. Nè si può ravvisare la fattispecie della reggenza, poichè quest’ultima ricorre solo in caso di vacanza di posto in organico, di temporaneità e straordinarietà, con la conseguenza che non si producono gli effetti retributivi propri del riconoscimento dello svolgimento di mansioni superiori. Nella specie, infatti, la norma regionale dispone che la temporaneità dell’incarico potrebbe espandersi fino a due anni e riconosce ai soggetti investiti del medesimo incarico sulla base di apposite procedure selettive il trattamento retributivo accessorio del personale con qualifica dirigenziale”.
E’ centrale il passaggio in neretto. La Consulta spiega, si spera una volta e per sempre, che il passaggio da funzionario a dirigente implica il salto da una carriera funzionale ad un’altra. Dunque, l’istituto delle mansioni superiori proprio non può minimamente applicarsi, in quanto la disciplina dell’articolo 52, comma 2, del d.lgs 165/2001, stabilisce che “il prestatore di lavoro può essere adibito a mansioni proprie della qualifica immediatamente superiore”. Ma, la dirigenza non è una qualifica immediatamente superiore a quella di funzionario, bensì, appunto, una diversa carriera, alla quale si può accedere esclusivamente per concorso.
L’unico aggancio tra carriera delle qualifiche nella posizione di funzionario e carriera dirigenziale è l’istituto della reggenza, diverso da quello delle mansioni superiori perché, come spiega sempre la Consulta, non comporta gli effetti retributivi propri delle mansioni superiori.
Terzo fondamentale insegnamento della Consulta: l’unica fonte che possa legittimamente disciplinare l’accesso alla dirigenza è la legge statale. Sancisce la Consulta: “E’ indirizzo costante di questa Corte quello secondo cui per effetto della ‘intervenuta privatizzazione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, che interessa, altresì, il personale delle Regioni, la materia è regolata dalla legge dello Stato e, in virtù del rinvio da essa operato, dalla contrattazione collettiva’ (sentenza n. 286 del 2013). Infatti, a seguito della suddetta privatizzazione, la materia cui va ricondotto il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni ivi comprese le Regioni è quella dell’ordinamento civile, che appartiene alla potestà del legislatore statale, il quale ‘ben può intervenire […] a conformare gli istituti del rapporto di impiego attraverso norme che si impongono all’autonomia privata con il carattere dell’inderogabilità, anche in relazione ai rapporti di impiego dei dipendenti delle Regioni (sent. n. 19 del 2013)’ (sentenza n. 228 del 2013). In altri termini, ‘la disciplina del rapporto lavorativo dell’impiego pubblico privatizzato è rimessa alla competenza legislativa statale di cui all’art. 117, secondo comma, lett. l), Cost., in quanto riconducibile alla materia ‘ordinamento civile’, che vincola anche gli enti ad autonomia differenziata (cfr. sentenza n. 151 del 2010; sentenza n. 95 del 2007)ª (sentenza n. 77 del 2013)”.
Dunque, le regioni (come le Agenzie) non dispongono di alcuna potestà normativa per “adeguare” a proprio uso e consumo la disciplina statale e crearsi regole particolari, per beneficiare i funzionari. Tanto meno lo possono gli enti locali, con fonti quali statuti e regolamenti, persino di rango inferiore alle leggi regionali, alle quali è precluso interpolare le leggi statali, data l’esclusività della potestà normativa in tema di ordinamento civile.
Chissà se il messaggio risulterà finalmente chiaro. C’è da dubitarne. Ciascun ente aspetterà una singola pronuncia della Corte costituzionale per rassegnarsi. E poiché le norme degli enti locali non passano per il vaglio della Consulta, c’è da scommettere che gli incarichi a contratto a funzionari interni continueranno a fioccare, complice la normativa apparentemente ambigua che li consente.
Non si finirà mai, tuttavia, di ricordare che l’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001 pone vincoli strettissimi per incaricare funzionari come dirigenti. Intanto, si pone il problema irrisolvibile della verifica dell’assenza di professionalità interne. La Corte dei conti ha formulato la “bugia pietosa, al medico concessa” che la verifica della professionalità debba limitarsi alla provvista di dirigenti e non all’intero ente, cosa, ovviamente, semplicemente assurda. Si prospetta, cioè, al tempo stesso l’assenza di professionalità, come presupposto per fornire un incarico dirigenziale ad una professionalità presente (che potrebbe perfettamente essere utilizzata con apposite deleghe). Un capolavoro di ipocrisia giuridica.
Poi, occorre ricordare che i requisiti soggettivi richiesti dall’articolo 19, comma 6, sono costruiti in modo tale da presupporre che detti requisiti siano non inferiori a quelli accertati in capo ai dirigenti pubblici per effetto del concorso. Gli incarichi dirigenziali a contratto, infatti, possono essere conferiti a “persone di particolare e comprovata qualificazione professionale”:
Scartata la possibilità che i funzionari delle amministrazioni possano rientrare nella fattispecie c), essi potrebbero essere destinatari dell’incarico dirigenziale solo a condizione che si accerti in capo a loro il possesso dei requisiti di cui alle lettere a) e b).
In particolare, i requisiti di cui alla lettera b) debbono essere posseduti in modo cumulato: non basta, cioè, la semplice circostanza di avere condotto con l’amministrazione conferente un’esperienza di lavoro di almeno 5 anni in posizione funzionale che consentano l’accesso alla dirigenza: questo è un requisito ordinario che vale per partecipare ai concorsi. Occorre qualcosa in più, per giungere al possesso della particolare e comprovata qualificazione professionale: il funzionario pubblico, per poter essere incaricato come dirigente senza concorso, deve disporre della formazione postuniversitaria e deve aver prodotto pubblicazioni scientifiche. Questo plusvalore consente di poter considerare l’interessato potenzialmente in grado di entrare temporaneamente nella carriera dirigenziale, senza passare per una procedura di accertamento della capacità, concorrenziale ed aperta a tutti, come il concorso.
Poi, si potrà opinare in merito alla capacità effettiva dei concorsi di selezionare davvero i migliori, si potrà discettare sull’autonomia del datore di lavoro privato che seleziona i dirigenti sulla base di personali valutazioni, lamentare, dunque, i lacci e laccioli che ingessano la funzione datoriale pubblica. Tutto possibile, ogni argomentazione è valida. Ma, lo è finchè riguardi la teoria generale del diritto e dell’azienda e il diritto da costruire come si vorrebbe fosse. Se si tratta di commentare il diritto come esso è, come la Costituzione lo disciplina e come la legge lo dettaglia, questi discorsi, interessanti su un piano astratto, in punto di diritto risultano oziosi e, comunque, non trovano spazio nella giurisprudenza costituzionale.
La Corte costituzionale continua nel suo meritorio processo di demolizione degli incarichi dirigenziali a funzionari delle amministrazioni conferenti, posto in essere dalle amministrazioni in modo sempre da violare gli stretti vincoli pur previsti dalle norme che li regolano. Norme come gli articoli 19, commi 6 e seguenti, del d.lgs 165/2001 e l’articolo 110, commi 1 e 2, del d.lgs 267/2000 che sarebbe opportuno abolire, comunque, al più presto, ma che invece con la legge delega di riforma della PA il Governo pare volersi tenere ben strette.
La Consulta ha considerato incostituzionale l’articolo 2, comma 9-bis della legge regionale della Basilicata 31/2010, introdotto dall’articolo 51, comma 4, della legge regionale 26/2014.
Il contenuto della norma incostituzionale è sostanzialmente identico alle disposizioni regolamentari adottate negli anni dalle Agenzie fiscali, per crearsi norme ad hoc per potere incaricare, ovviamente senza alcun concorso, propri funzionari come dirigenti: prassi incostituzionale e come tale censurata dalla Consulta nell’ormai celeberrima sentenza 37/2015.
Era chiarissimo che quest’ultima pronuncia non potesse considerarsi come circoscritta al sistema delle Agenzie: la Corte costituzionale, quale giudice delle leggi, tratta di principi generali, validi per l’intero ordinamento.
Amministrazioni statali, regioni ed enti locali avrebbero dovuto da subito trarre le conclusioni e correggere il tiro, ravvedendosi sul sistema di cooptazione degli incarichi, come si è avuto modo già di scrivere (vedasi La Settimana degli Enti Locali 11/2011, L. Oliveri, “Chiudere per sempre l’esperienza degli incarichi dirigenziali a funzionari”).
Sta di fatto che, invece, regioni ed enti locali non se lo sono nemmeno sognato e continuano come nulla fosse ad elargire incarichi dirigenziali senza concorsi.
La norma costituzionalmente illegittima della regione Basilicata, sintetizza la Consulta, “prevede la possibilità di attribuire, nelle more dell’espletamento dei concorsi pubblici per l’accesso alla qualifica dirigenziale e, comunque, per non oltre due anni, le funzioni dirigenziali a dipendenti a tempo indeterminato di ruolo dell’amministrazione regionale appartenenti alla categoria D3 giuridico del comparto Regioni-Enti locali in possesso dei requisiti per l’accesso alla qualifica dirigenziale, previo espletamento di apposite procedure selettive, stabilendo, altresì, che al dipendente incaricato spetti, per la durata dell’attribuzione delle funzioni, il trattamento tabellare già in godimento e il trattamento accessorio del personale con qualifica dirigenziale”. Esattamente lo stesso “trucco” escogitato dalle Agenzie: attribuire incarichi dirigenziali ai funzionari “nelle more” di concorsi che poi non si espletano mai, e costruirsi un apparato di dirigenti “fedeli”, che debbono sdebitarsi della qualifica dirigenziale “ottriata”, grazie alla dazione feudale dell’organo politico.
Il fenomeno della dirigenza a contratto, attribuita senza concorsi, nel sistema degli enti locali è diffusissimo ed ormai fuori controllo. La Corte dei conti, Sezione Autonomie, con la deliberazione 16/2015 ha attestato che su 8000 dirigenti presenti in regioni ed enti locali, 6038 sono di ruolo, assunti con concorso; 1962 sono quelli “a contratto”, per una percentuale complessiva pari al 32%. In particolare nelle province su 971 dirigenti di ruolo, 240 sono incaricati a contratto, il 24,7%; nelle regioni 1891 sono i dirigenti di ruolo e 261 quelli a contratto, per una percentuale del 13,8%; nei comuni i dirigenti di ruolo sono 3176, mentre quelli a contratto sono 1461: una percentuale del 46%!
Si capisce, dunque, perché il d.l. 90/2014, convertito in legge 114/2014 ha esteso per i comuni al 30% la percentuale di dirigenti incaricabili a contratto: è solo il tentativo di sanare la violazione dei limiti numerici imposta a seguito della riforma Brunetta.
Dei 1962 dirigenti a contratto non è noto quanti siano i funzionari beneficiati della cooptazione incostituzionale. Ma probabilmente sono in tanti, comunque troppi.
La pronuncia della Consulta 180/2015 è estremamente importante per una serie di ragioni, tali da chiarire moltissimi aspetti, furbescamente considerati controversi dalle amministrazioni.
In primo luogo, la Consulta richiama e conferma le statuizioni della sentenza 37/2015. E’ opportuno ricordarle: “nessun dubbio può nutrirsi in ordine al fatto che il conferimento di incarichi dirigenziali nell’ambito di un’amministrazione pubblica debba avvenire previo esperimento di un pubblico concorso, e che il concorso sia necessario anche nei casi di nuovo inquadramento di dipendenti già in servizio. Anche il passaggio ad una fascia funzionale superiore comporta «l’accesso ad un nuovo posto di lavoro corrispondente a funzioni più elevate ed è soggetto, pertanto, quale figura di reclutamento, alla regola del pubblico concorso» (sentenza n. 194 del 2002; ex plurimis, inoltre, sentenze n. 217 del 2012, n. 7 del 2011, n. 150 del 2010, n. 293 del 2009)”. Si tratta di indicazioni erga omnes, valevoli per l’intero ordinamento pubblico, anche se molte amministrazioni continuano a fare orecchie da mercante e a permanere nell’illegalità.
In secondo luogo, la Corte costituzionale si occupa del problema del rapporto che si innesca tra conferimento di incarichi dirigenziali a funzionari interni ed attribuzione di mansioni superiori.
La Consulta nega la possibilità di introdurre disposizioni normative (leggi regionali o regolamenti che siano) tendenti a qualificare il conferimento di incarichi dirigenziali un surrogato delle “mansioni superiori” per il fine di coprire posti della dotazione organica dirigenziale nelle more dei concorsi: “il comma 9-bis introdotto al citato art. 2 con la norma regionale ora impugnata (l’art. 51, comma 4, della legge regionale n. 26 del 2014) interviene a dettare norme specificamente in tema di assegnazione temporanea di personale ad altre mansioni (nella specie di rango dirigenziale), norme che, peraltro, risultano difficilmente riconducibili alle fattispecie delineate dal d.lgs. n. 165 del 2001. Esse, infatti, non configurano un’ipotesi di legittimo conferimento di mansioni superiori (di cui all’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001), in quanto, oltre a non soddisfare i requisiti prescritti dal citato decreto legislativo (e dal relativo contratto collettivo), delineano il conferimento di funzioni corrispondenti ad una diversa ‘carriera’ (quella dirigenziale, appunto), piuttosto che di mansioni superiori, sanzionato dall’art. 52, comma 5, del medesimo d.lgs. n. 165 del 2001. Nè si può ravvisare la fattispecie della reggenza, poichè quest’ultima ricorre solo in caso di vacanza di posto in organico, di temporaneità e straordinarietà, con la conseguenza che non si producono gli effetti retributivi propri del riconoscimento dello svolgimento di mansioni superiori. Nella specie, infatti, la norma regionale dispone che la temporaneità dell’incarico potrebbe espandersi fino a due anni e riconosce ai soggetti investiti del medesimo incarico sulla base di apposite procedure selettive il trattamento retributivo accessorio del personale con qualifica dirigenziale”.
E’ centrale il passaggio in neretto. La Consulta spiega, si spera una volta e per sempre, che il passaggio da funzionario a dirigente implica il salto da una carriera funzionale ad un’altra. Dunque, l’istituto delle mansioni superiori proprio non può minimamente applicarsi, in quanto la disciplina dell’articolo 52, comma 2, del d.lgs 165/2001, stabilisce che “il prestatore di lavoro può essere adibito a mansioni proprie della qualifica immediatamente superiore”. Ma, la dirigenza non è una qualifica immediatamente superiore a quella di funzionario, bensì, appunto, una diversa carriera, alla quale si può accedere esclusivamente per concorso.
L’unico aggancio tra carriera delle qualifiche nella posizione di funzionario e carriera dirigenziale è l’istituto della reggenza, diverso da quello delle mansioni superiori perché, come spiega sempre la Consulta, non comporta gli effetti retributivi propri delle mansioni superiori.
Terzo fondamentale insegnamento della Consulta: l’unica fonte che possa legittimamente disciplinare l’accesso alla dirigenza è la legge statale. Sancisce la Consulta: “E’ indirizzo costante di questa Corte quello secondo cui per effetto della ‘intervenuta privatizzazione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, che interessa, altresì, il personale delle Regioni, la materia è regolata dalla legge dello Stato e, in virtù del rinvio da essa operato, dalla contrattazione collettiva’ (sentenza n. 286 del 2013). Infatti, a seguito della suddetta privatizzazione, la materia cui va ricondotto il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni ivi comprese le Regioni è quella dell’ordinamento civile, che appartiene alla potestà del legislatore statale, il quale ‘ben può intervenire […] a conformare gli istituti del rapporto di impiego attraverso norme che si impongono all’autonomia privata con il carattere dell’inderogabilità, anche in relazione ai rapporti di impiego dei dipendenti delle Regioni (sent. n. 19 del 2013)’ (sentenza n. 228 del 2013). In altri termini, ‘la disciplina del rapporto lavorativo dell’impiego pubblico privatizzato è rimessa alla competenza legislativa statale di cui all’art. 117, secondo comma, lett. l), Cost., in quanto riconducibile alla materia ‘ordinamento civile’, che vincola anche gli enti ad autonomia differenziata (cfr. sentenza n. 151 del 2010; sentenza n. 95 del 2007)ª (sentenza n. 77 del 2013)”.
Dunque, le regioni (come le Agenzie) non dispongono di alcuna potestà normativa per “adeguare” a proprio uso e consumo la disciplina statale e crearsi regole particolari, per beneficiare i funzionari. Tanto meno lo possono gli enti locali, con fonti quali statuti e regolamenti, persino di rango inferiore alle leggi regionali, alle quali è precluso interpolare le leggi statali, data l’esclusività della potestà normativa in tema di ordinamento civile.
Chissà se il messaggio risulterà finalmente chiaro. C’è da dubitarne. Ciascun ente aspetterà una singola pronuncia della Corte costituzionale per rassegnarsi. E poiché le norme degli enti locali non passano per il vaglio della Consulta, c’è da scommettere che gli incarichi a contratto a funzionari interni continueranno a fioccare, complice la normativa apparentemente ambigua che li consente.
Non si finirà mai, tuttavia, di ricordare che l’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001 pone vincoli strettissimi per incaricare funzionari come dirigenti. Intanto, si pone il problema irrisolvibile della verifica dell’assenza di professionalità interne. La Corte dei conti ha formulato la “bugia pietosa, al medico concessa” che la verifica della professionalità debba limitarsi alla provvista di dirigenti e non all’intero ente, cosa, ovviamente, semplicemente assurda. Si prospetta, cioè, al tempo stesso l’assenza di professionalità, come presupposto per fornire un incarico dirigenziale ad una professionalità presente (che potrebbe perfettamente essere utilizzata con apposite deleghe). Un capolavoro di ipocrisia giuridica.
Poi, occorre ricordare che i requisiti soggettivi richiesti dall’articolo 19, comma 6, sono costruiti in modo tale da presupporre che detti requisiti siano non inferiori a quelli accertati in capo ai dirigenti pubblici per effetto del concorso. Gli incarichi dirigenziali a contratto, infatti, possono essere conferiti a “persone di particolare e comprovata qualificazione professionale”:
- a) che abbiano svolto attività in organismi ed enti pubblici o privati ovvero aziende pubbliche o private con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali;
- b) o che abbiano conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in posizioni funzionali previste per l'accesso alla dirigenza;
- c) o che provengano dai settori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato.
Scartata la possibilità che i funzionari delle amministrazioni possano rientrare nella fattispecie c), essi potrebbero essere destinatari dell’incarico dirigenziale solo a condizione che si accerti in capo a loro il possesso dei requisiti di cui alle lettere a) e b).
In particolare, i requisiti di cui alla lettera b) debbono essere posseduti in modo cumulato: non basta, cioè, la semplice circostanza di avere condotto con l’amministrazione conferente un’esperienza di lavoro di almeno 5 anni in posizione funzionale che consentano l’accesso alla dirigenza: questo è un requisito ordinario che vale per partecipare ai concorsi. Occorre qualcosa in più, per giungere al possesso della particolare e comprovata qualificazione professionale: il funzionario pubblico, per poter essere incaricato come dirigente senza concorso, deve disporre della formazione postuniversitaria e deve aver prodotto pubblicazioni scientifiche. Questo plusvalore consente di poter considerare l’interessato potenzialmente in grado di entrare temporaneamente nella carriera dirigenziale, senza passare per una procedura di accertamento della capacità, concorrenziale ed aperta a tutti, come il concorso.
Poi, si potrà opinare in merito alla capacità effettiva dei concorsi di selezionare davvero i migliori, si potrà discettare sull’autonomia del datore di lavoro privato che seleziona i dirigenti sulla base di personali valutazioni, lamentare, dunque, i lacci e laccioli che ingessano la funzione datoriale pubblica. Tutto possibile, ogni argomentazione è valida. Ma, lo è finchè riguardi la teoria generale del diritto e dell’azienda e il diritto da costruire come si vorrebbe fosse. Se si tratta di commentare il diritto come esso è, come la Costituzione lo disciplina e come la legge lo dettaglia, questi discorsi, interessanti su un piano astratto, in punto di diritto risultano oziosi e, comunque, non trovano spazio nella giurisprudenza costituzionale.
domenica 5 luglio 2015
Funzionari incaricati illegittimamente come dirigenti: le PA agiscono come nulla fosse
A seguito della sentenza 37/2015 della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che per quasi 15 anni hanno permesso di insediare i funzionari delle Agenzie come dirigenti, come è noto detti funzionari sono rientrati nei ranghi.
La sentenza ha chiarito non solo l’illegittimità costituzionale delle continue proroghe degli incarichi a contratto senza concorso, ma anche del sistema stesso di assegnazione di incarichi dirigenziali ai funzionari, secondo l’applicazione distorta dell’articolo 19, comma 6, che ne danno praticamente tutte le amministrazioni: è possibile assegnare incarichi dirigenziali a funzionari interni, sulla base del semplice presupposto che essi sono, appunto, funzionari.
E’ noto che il Ministro dell’economia, Carlo Padoan, aveva invitato i contribuenti a non perdere tempo e denaro con ricorso avverso gli atti dell’Agenzia sottoscritti dai dirigenti incostituzionalmente così incaricati, perché a suo dire gli atti adottati erano perfettamente legittimi.
E’ altrettanto noto che, invece, le Commissioni tributarie ed anche i tribunali ordinari hanno assunto ormai pacificamente l’orientamento opposto e considerano i provvedimenti dei dirigenti senza titolo addirittura radicalmente nulli. Ciò conferma almeno due elementi:
Premesso questo, in una Nazione qualsiasi a seguito di una sentenza come la 37/2015 si sarebbe immediatamente corsi ai ripari. Non certo nel senso di provare a realizzare una sanatoria, come invece il Governo sta tentando di fare sin qui senza successo, bensì di eliminare radicalmente dalle amministrazioni il seme dell’illegittimità, chiudendo per sempre con gli incarichi attribuiti ai funzionari senza concorso.
Basterebbe leggere con un minimo di attenzione le indicazioni chiarissime della Consulta, contenute nella sentenza 37/2015: “nessun dubbio può nutrirsi in ordine al fatto che il conferimento di incarichi dirigenziali nell’ambito di un’amministrazione pubblica debba avvenire previo esperimento di un pubblico concorso, e che il concorso sia necessario anche nei casi di nuovo inquadramento di dipendenti già in servizio. Anche il passaggio ad una fascia funzionale superiore comporta «l’accesso ad un nuovo posto di lavoro corrispondente a funzioni più elevate ed è soggetto, pertanto, quale figura di reclutamento, alla regola del pubblico concorso» (sentenza n. 194 del 2002; ex plurimis, inoltre, sentenze n. 217 del 2012, n. 7 del 2011, n. 150 del 2010, n. 293 del 2009) […] l’assegnazione di posizioni dirigenziali a un funzionario può avvenire solo ricorrendo al secondo modello, cioè all’istituto della reggenza, regolato in generale dall’art. 20 del d.P.R. 8 maggio 1987, n. 266 (Norme risultanti dalla disciplina prevista dall’accordo del 26 marzo 1987 concernente il comparto del personale dipendente dai Ministeri). La reggenza si differenzia dal primo modello perché serve a colmare vacanze nell’ufficio determinate da cause imprevedibili, e viceversa si avvicina ad esso perché è possibile farvi ricorso a condizione che sia stato avviato il procedimento per la copertura del posto vacante, e nei limiti di tempo previsti per tale copertura. Straordinarietà e temporaneità sono perciò caratteristiche essenziali dell’istituto (ex plurimis, Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenze 22 febbraio 2010, n. 4063, 16 febbraio 2011, n. 3814, 14 maggio 2014, n. 10413)[…] la regola del concorso non è certo soddisfatta dal rinvio che la stessa norma impugnata opera all’art. 19, comma 1-bis, del d.lgs. n. 165 del 2001, nella parte in cui stabilisce che gli incarichi dirigenziali ai funzionari «sono attribuiti con apposita procedura selettiva». In realtà, la norma di rinvio si limita a prevedere che l’amministrazione renda conoscibili, anche mediante pubblicazione di apposito avviso sul sito istituzionale, il numero e la tipologia dei posti che si rendono disponibili nella dotazione organica e i criteri di scelta, stabilendo, altresì, che siano acquisite e valutate le disponibilità dei funzionari interni interessati. I contratti non sono dunque assegnati attraverso il ricorso ad una procedura aperta e pubblica, conformemente a quanto richiesto dagli artt. 3, 51 e 97 Cost. (sentenze n. 217 del 2012, n. 150 e n. 149 del 2010, n. 293 del 2009, n. 453 del 1990”.
Traendo le inevitabili conclusioni indotte dalla sentenza, sarebbe stata evidente l’urgenza di correggere il testo dell’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001 ed eliminare il riferimento alla possibilità di conferire gli incarichi dirigenziali ai funzionari della medesima amministrazione. Anche perché questa discutibile prassi porta alla conseguenza davvero assurda che un medesimo dipendente possa condurre, con il medesimo datore di lavoro pubblico, due distinti rapporti di lavoro: uno sospeso per aspettativa, quello da funzionario; l’altro attivo ed efficace, quello da dirigente. Una situazione unica nel panorama giuridico, un cui un dipendente vanti due rapporti di lavoro contemporanei con il medesimo datore.
Cosa che, per altro, deresponsabilizza non poco i funzionari creati come dirigenti. Sia perché nella gran parte dei casi essi vengono cooptati in modo fiduciario dagli organi di governo per ragioni di “affinità” politica, ma soprattutto perché anche dovessero ricevere una valutazione negativa o subire le conseguenze di un cambio di maggioranza, non perderebbero il lavoro, ma tornerebbero a svolgere l’attività di funzionario, esercitando la qualifica professionale che hanno comunque proseguito a detenere, non avendo mai acquisito la qualifica dirigenziale per superamento del concorso.
In modo del tutto irrazionale, invece, i dirigenti di ruolo, coloro che, nel rispetto della Costituzione, la qualifica l’hanno ottenuta a seguito di concorso, se valutati negativamente rischiano il licenziamento. E lo schema di ddl delega di riforma della PA, per altro, prevede che essi possano decadere dal ruolo unico e, dunque, essere licenziati, per il mero effetto di essere lasciati privi di incarico, prevedendo, paradossalmente, per i dirigenti di ruolo a rischio di licenziamento l’opzione di chiedere di essere degradati a funzionari.
Qualsiasi altra Nazione sarebbe intervenuta per censire quanti siano i funzionari incaricati come dirigenti nelle amministrazioni pubbliche ed imporre l’immediata decadenza da tali incarichi, per evitare che anche i loro provvedimenti possano ricevere il crisma dell’illegittimità o nullità, ma soprattutto per riportare a normalità l’organizzazione.
Basti pensare a quanto diffuse possano essere queste situazioni di illegittimità. Nei soli enti locali, secondo la deliberazione della Corte dei conti, Sezione Autonomie, n. 16/SEZAUT/2015/FRG, sugli 8000 dirigenti presenti in regioni, province e comuni 6038 sono di rullo e a tempo indeterminato, mentre 1962 sono a tempo determinato incaricati a contratto, per una percentuale di incidenza media del 32,5%, persino superiore al 30% consentito dall’ordinamento locale; in effetti, tale percentuale nei comuni sale al 46%, mentre si riduce al 24,7% nelle province e al 13,8% nelle regioni.
Sta di fatto che dei quasi 2000 dirigenti a contratto operanti negli enti locali una quantità molto ampia è composta proprio da funzionari incaricati come dirigenti, senza concorso, soprattutto nell’ambito dei comuni.
Pur non essendovi una rilevazione ufficiale, si può certamente stimare che come minimo dei dirigenti a contratto il 50% siano funzionari, incaricati esattamente con le stesse modalità considerate incostituzionali dalla Consulta. A rischio c’è la legittimità degli atti adottati da circa 1000 dirigenti, la grande parte concentrata nei comuni.
Altrettanto paradossale è che il riordino caotico, sbagliato, antieconomico, raffazzonato e mal concepito, degli enti locali dovuto alla maldestra riforma delle province non sia l’occasione per porre un primo rimedio alla situazione. Circa il 40% dei 965 dirigenti provinciali, poco meno di 400, potrebbero essere assegnati a regioni e comuni alla direzione delle unità affidate alle cure di funzionari illegittimamente incaricati, così da evitare il più possibile vuoti di potere e permettere la complicatissima operazione di ricollocazione dei 20.000 dipendenti provinciali destinati al sovrannumero.
Invece, si riscontra la più totale inerzia. Il Parlamento ed il Governo non muovono un dito, perché se lo facessero avrebbero molti più imbarazzi ad adottare una sanatoria per i dirigenti delle Agenzie. Gli organi di governo che hanno affidato incarichi dirigenziali ai funzionari “affini” ovviamente si guardano bene dal rivedere le proprie decisioni, confidando sulla circostanza che nessuno presenti ricorsi sugli atti adottati dai funzionari stessi.
L’organizzazione amministrativa del Paese, dunque, continua a vivere nel caos e col fuoco che arde sotto la cenere, nell’attesa che qualche altra sentenza dirompente getti scompiglio.
La sentenza ha chiarito non solo l’illegittimità costituzionale delle continue proroghe degli incarichi a contratto senza concorso, ma anche del sistema stesso di assegnazione di incarichi dirigenziali ai funzionari, secondo l’applicazione distorta dell’articolo 19, comma 6, che ne danno praticamente tutte le amministrazioni: è possibile assegnare incarichi dirigenziali a funzionari interni, sulla base del semplice presupposto che essi sono, appunto, funzionari.
E’ noto che il Ministro dell’economia, Carlo Padoan, aveva invitato i contribuenti a non perdere tempo e denaro con ricorso avverso gli atti dell’Agenzia sottoscritti dai dirigenti incostituzionalmente così incaricati, perché a suo dire gli atti adottati erano perfettamente legittimi.
E’ altrettanto noto che, invece, le Commissioni tributarie ed anche i tribunali ordinari hanno assunto ormai pacificamente l’orientamento opposto e considerano i provvedimenti dei dirigenti senza titolo addirittura radicalmente nulli. Ciò conferma almeno due elementi:
- al Governo forse farebbe piacere riunire in sé oltre al potere legislativo che, di fatto ha acquisito tra decreti legge, maxiemendamenti e voti di fiducia, anche quello giudiziario, come dimostrato dalle pressioni enormi sulla Corte costituzionale in tema di blocco della contrattazione pubblica e, ora, giudizio sulla legge Severino; tuttavia, il potere giudiziario è ancora separato e totalmente autonomo e, dunque, i giudici conoscono liberamente delle questioni e non potevano che rilevare l’assoluta nullità degli atti sottoscritti da soggetti in totale carenza di potere;
- gli economisti, tra i quali si annovera anche il Ministro Padoan, sarebbe bene che limitassero le proprie competenze e dichiarazioni a questioni economiche, senza pretendere anche di fare i giuristi, e viceversa.
Premesso questo, in una Nazione qualsiasi a seguito di una sentenza come la 37/2015 si sarebbe immediatamente corsi ai ripari. Non certo nel senso di provare a realizzare una sanatoria, come invece il Governo sta tentando di fare sin qui senza successo, bensì di eliminare radicalmente dalle amministrazioni il seme dell’illegittimità, chiudendo per sempre con gli incarichi attribuiti ai funzionari senza concorso.
Basterebbe leggere con un minimo di attenzione le indicazioni chiarissime della Consulta, contenute nella sentenza 37/2015: “nessun dubbio può nutrirsi in ordine al fatto che il conferimento di incarichi dirigenziali nell’ambito di un’amministrazione pubblica debba avvenire previo esperimento di un pubblico concorso, e che il concorso sia necessario anche nei casi di nuovo inquadramento di dipendenti già in servizio. Anche il passaggio ad una fascia funzionale superiore comporta «l’accesso ad un nuovo posto di lavoro corrispondente a funzioni più elevate ed è soggetto, pertanto, quale figura di reclutamento, alla regola del pubblico concorso» (sentenza n. 194 del 2002; ex plurimis, inoltre, sentenze n. 217 del 2012, n. 7 del 2011, n. 150 del 2010, n. 293 del 2009) […] l’assegnazione di posizioni dirigenziali a un funzionario può avvenire solo ricorrendo al secondo modello, cioè all’istituto della reggenza, regolato in generale dall’art. 20 del d.P.R. 8 maggio 1987, n. 266 (Norme risultanti dalla disciplina prevista dall’accordo del 26 marzo 1987 concernente il comparto del personale dipendente dai Ministeri). La reggenza si differenzia dal primo modello perché serve a colmare vacanze nell’ufficio determinate da cause imprevedibili, e viceversa si avvicina ad esso perché è possibile farvi ricorso a condizione che sia stato avviato il procedimento per la copertura del posto vacante, e nei limiti di tempo previsti per tale copertura. Straordinarietà e temporaneità sono perciò caratteristiche essenziali dell’istituto (ex plurimis, Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenze 22 febbraio 2010, n. 4063, 16 febbraio 2011, n. 3814, 14 maggio 2014, n. 10413)[…] la regola del concorso non è certo soddisfatta dal rinvio che la stessa norma impugnata opera all’art. 19, comma 1-bis, del d.lgs. n. 165 del 2001, nella parte in cui stabilisce che gli incarichi dirigenziali ai funzionari «sono attribuiti con apposita procedura selettiva». In realtà, la norma di rinvio si limita a prevedere che l’amministrazione renda conoscibili, anche mediante pubblicazione di apposito avviso sul sito istituzionale, il numero e la tipologia dei posti che si rendono disponibili nella dotazione organica e i criteri di scelta, stabilendo, altresì, che siano acquisite e valutate le disponibilità dei funzionari interni interessati. I contratti non sono dunque assegnati attraverso il ricorso ad una procedura aperta e pubblica, conformemente a quanto richiesto dagli artt. 3, 51 e 97 Cost. (sentenze n. 217 del 2012, n. 150 e n. 149 del 2010, n. 293 del 2009, n. 453 del 1990”.
Traendo le inevitabili conclusioni indotte dalla sentenza, sarebbe stata evidente l’urgenza di correggere il testo dell’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001 ed eliminare il riferimento alla possibilità di conferire gli incarichi dirigenziali ai funzionari della medesima amministrazione. Anche perché questa discutibile prassi porta alla conseguenza davvero assurda che un medesimo dipendente possa condurre, con il medesimo datore di lavoro pubblico, due distinti rapporti di lavoro: uno sospeso per aspettativa, quello da funzionario; l’altro attivo ed efficace, quello da dirigente. Una situazione unica nel panorama giuridico, un cui un dipendente vanti due rapporti di lavoro contemporanei con il medesimo datore.
Cosa che, per altro, deresponsabilizza non poco i funzionari creati come dirigenti. Sia perché nella gran parte dei casi essi vengono cooptati in modo fiduciario dagli organi di governo per ragioni di “affinità” politica, ma soprattutto perché anche dovessero ricevere una valutazione negativa o subire le conseguenze di un cambio di maggioranza, non perderebbero il lavoro, ma tornerebbero a svolgere l’attività di funzionario, esercitando la qualifica professionale che hanno comunque proseguito a detenere, non avendo mai acquisito la qualifica dirigenziale per superamento del concorso.
In modo del tutto irrazionale, invece, i dirigenti di ruolo, coloro che, nel rispetto della Costituzione, la qualifica l’hanno ottenuta a seguito di concorso, se valutati negativamente rischiano il licenziamento. E lo schema di ddl delega di riforma della PA, per altro, prevede che essi possano decadere dal ruolo unico e, dunque, essere licenziati, per il mero effetto di essere lasciati privi di incarico, prevedendo, paradossalmente, per i dirigenti di ruolo a rischio di licenziamento l’opzione di chiedere di essere degradati a funzionari.
Qualsiasi altra Nazione sarebbe intervenuta per censire quanti siano i funzionari incaricati come dirigenti nelle amministrazioni pubbliche ed imporre l’immediata decadenza da tali incarichi, per evitare che anche i loro provvedimenti possano ricevere il crisma dell’illegittimità o nullità, ma soprattutto per riportare a normalità l’organizzazione.
Basti pensare a quanto diffuse possano essere queste situazioni di illegittimità. Nei soli enti locali, secondo la deliberazione della Corte dei conti, Sezione Autonomie, n. 16/SEZAUT/2015/FRG, sugli 8000 dirigenti presenti in regioni, province e comuni 6038 sono di rullo e a tempo indeterminato, mentre 1962 sono a tempo determinato incaricati a contratto, per una percentuale di incidenza media del 32,5%, persino superiore al 30% consentito dall’ordinamento locale; in effetti, tale percentuale nei comuni sale al 46%, mentre si riduce al 24,7% nelle province e al 13,8% nelle regioni.
Sta di fatto che dei quasi 2000 dirigenti a contratto operanti negli enti locali una quantità molto ampia è composta proprio da funzionari incaricati come dirigenti, senza concorso, soprattutto nell’ambito dei comuni.
Pur non essendovi una rilevazione ufficiale, si può certamente stimare che come minimo dei dirigenti a contratto il 50% siano funzionari, incaricati esattamente con le stesse modalità considerate incostituzionali dalla Consulta. A rischio c’è la legittimità degli atti adottati da circa 1000 dirigenti, la grande parte concentrata nei comuni.
Altrettanto paradossale è che il riordino caotico, sbagliato, antieconomico, raffazzonato e mal concepito, degli enti locali dovuto alla maldestra riforma delle province non sia l’occasione per porre un primo rimedio alla situazione. Circa il 40% dei 965 dirigenti provinciali, poco meno di 400, potrebbero essere assegnati a regioni e comuni alla direzione delle unità affidate alle cure di funzionari illegittimamente incaricati, così da evitare il più possibile vuoti di potere e permettere la complicatissima operazione di ricollocazione dei 20.000 dipendenti provinciali destinati al sovrannumero.
Invece, si riscontra la più totale inerzia. Il Parlamento ed il Governo non muovono un dito, perché se lo facessero avrebbero molti più imbarazzi ad adottare una sanatoria per i dirigenti delle Agenzie. Gli organi di governo che hanno affidato incarichi dirigenziali ai funzionari “affini” ovviamente si guardano bene dal rivedere le proprie decisioni, confidando sulla circostanza che nessuno presenti ricorsi sugli atti adottati dai funzionari stessi.
L’organizzazione amministrativa del Paese, dunque, continua a vivere nel caos e col fuoco che arde sotto la cenere, nell’attesa che qualche altra sentenza dirompente getti scompiglio.
sabato 20 giugno 2015
Incarichi a contratto? Vietati dalla legge 190/2014
Non in pochi hanno esultato, quando hanno letto l’originale “non luogo a deliberare” deciso dalla Corte dei conti, Sezione Autonomie, con la deliberazione 19/2015, eludendo, dunque, di risolvere la questione di massima “E’ possibile conferire un incarico dirigenziale ai sensi dell’art. 110, comma 1, del TUEL?”
Certo, sarebbe stato molto meglio se la Sezione Autonomie si fosse pronunciata, visto che anche per le interpretazioni ovvie, ancorchè articolate, occorre sempre un pronunciamento dell’ “ipse dixit”.
Tuttavia, la questione ha una unica e semplice soluzione: le assunzioni ai sensi dell’articolo 110, comma 1, del d.lgs 267/2001, ancorchè a tempo determinato, certamente non sono consentite dall’articolo 1, comma 424, della legge 190/2014.
Inorridiranno coloro i quali si abituano ad interpretare le leggi in modo che esse siano adeguate al proprio pensiero preconcetto e cavillino sulle virgole e i punti, osservando che il comma 424 vieta le sole assunzioni a tempo indeterminato, ma non quelle a tempo determinato. Sicchè, il sillogismo suggerisce che se le assunzioni ai sensi dell’articolo 110, comma 1, sono a tempo determinato, esse sono da considerare ammissibili “e più non dimandare”.
Ma, si tratta di una conclusione utilitaristica e non corretta. Che certamente non può considerarsi rafforzata dal “non luogo a deliberare” della Sezione Autonomie. Al contrario, il parere della sezione 19/2015 contiene una specifica e chiara indicazione che sorregge le ragioni dell’illegittimità, anzi nullità, degli incarichi a contratto.
Tuttavia, prima di esporle brevemente, facciamo qualche piccola domanda e considerazione. In presenza di circa 500 dirigenti provinciali destinati alla mobilità, nonché di qualche migliaia di funzionari di categoria D provinciali, quale sarebbe esattamente la ratio che considera prevalente un incarico a contratto, per cooptazione, senza concorso, di soggetti esterni alla PA?
In altre parole, come è possibile che essendo disponibile un plafond di dirigenti e funzionari certamente testati e dotati di esperienza, i comuni possano considerare lecito, corretto e conveniente rivolgersi a soggetti esterni, le cui capacità e competenze sono tutte da dimostrare?
Sì perché è perfettamente noto che nonostante l’articolo 110, comma 1, debba applicarsi in stretta combinazione con l’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001, spessissimo i comuni chiamino a contratto dei quilibet qualsiasi, completamente privi dei requisiti di elevatissima professionalità imposti dall’articolo 19, comma 6, almeno per la dirigenza e cioè, in sintesi: essere magistrati, avvocati dello Stato, professori o ricercatori universitari, dirigenti in altre pubbliche amministrazioni, dipendenti pubblici che abbiano un curriculum post universitario e vantino pubblicazioni scientifiche, oppure soggetti provenienti dal privato che, disponendo comunque della laurea, vantino almeno 5 anni di esperienza in funzioni dirigenziali.
Nella pratica, sostanzialmente mai gli incaricati ai sensi dell’articolo 110, comma 1, dispongono di questi requisiti, necessari per giustificare l’eccezione alla regola della selezione concorsuale (se qualcuno è già dirigente o è magistrato, non è certo utile un nuovo concorso, dovrebbe risultare chiaro).
Ma, i dirigenti ed i funzionari delle province hanno, come visto prima, vinto un concorso e dispongono di esperienza pregressa chiara e certificabile e per la loro assunzione basta una semplice mobilità, senza nemmeno scomodare la complessa, soprattutto sul piano motivazionale, procedura di cui all’articolo 110, comma 1. E, allora, si ribadisce: perché in questa fase continuare a ritenere possibile ed utile avvalersi di questo tipo di assunzioni?
Andiamo, ora, alla delibera 19/2015 della Sezione Autonomie. Essa, è vero, non si pronuncia sul tema dell’articolo 110, ma nel negare ammissibilità alla mobilità neutra, spiega bene che non possono considerarsi corrette interpretazioni dell’articolo 1, comma 424, della legge 190/2014, in contrasto con il suo fine. Il quale fine è: dare priorità alle assunzioni dei dipendenti provinciali in sovrannumero, utilizzando gli spazi assunzionali previsti.
Qui sta il punto. Le assunzioni a tempo determinato non sono vietate dal comma 424. Ma quali assunzioni? E’ evidente: quelle che non erodono risorse e spazi assunzioni per il tempo indeterminato, non occupando posti della dotazione organica.
Tutti i contratti a tempo determinato, per loro natura, sono fuori della dotazione, in quanto essa elenca il fabbisogno ordinario e continuativo degli enti; è noto che il d.lgs 165/2001 ammette il tempo determinato solo per fabbisogni esclusivamente temporanei o eccezionali.
Non è il caso dell’articolo 110, comma 1, che, in deroga al sistema generale, consente di effettuare le assunzioni di dirigenti e responsabili di servizio “a contratto” occupando posti della dotazione organica.
Ogni assunzione ai sensi dell’articolo 110, comma 1, dunque, sottrae posti disponibili alla ricollocazione dei dipendenti provinciali, ancorchè sia a tempo determinato; un tempo determinato di non oltre 5 anni, che va comunque oltre il blocco biennale delle assunzioni imposto dalla legge 190/2014, allo scopo di consentire la ricollocazione del personale provinciale.
Allora, il corretto sillogismo è: se un contratto anche a termine rende indisponibile un posto vacante della dotazione organica alla ricollocazione dei dipendenti provinciali, esso si pone in contrasto con i fini della legge 190/2014, esplicitati dalla Sezione Autonomie, sicchè esso è non solo illegittimo, ma nullo.
Non basta per convincere i sindaci che le loro pulsioni per cooptare dirigenti e funzionari “di fiducia” non sono attualmente sostenibili nemmeno da parte di quei direttori generali e segretari comunali molto preoccupati di seguire sempre e comunque qualsiasi pulsione sindacale?
Mettiamola così: come si fa a giustificare davanti alla Corte dei conti la maggior spesa pubblica derivante da assunzioni ai sensi dell’articolo 110, comma 1, quando con la mobilità imposta dall’articolo 1, comma 424, della legge 190/2014, non si crea nuova e maggiore spesa pubblica?
Si tratta di argomentazioni, quelle esposte sopra poste a sottolineare che attualmente gli incarichi a contratto rotazionali non sono ammissibili, appena banali, ovvie, semplici. Non serve alcun “ipse dixit”. Basta un attimo richiamarsi a Charles Louis de Secondat barone di Montesquieu, e saper cogliere “l’esprit des lois”, evitando per una volta le interpretazioni di comodo, utili, spesso, ma non contemplate dalle preleggi.
Certo, sarebbe stato molto meglio se la Sezione Autonomie si fosse pronunciata, visto che anche per le interpretazioni ovvie, ancorchè articolate, occorre sempre un pronunciamento dell’ “ipse dixit”.
Tuttavia, la questione ha una unica e semplice soluzione: le assunzioni ai sensi dell’articolo 110, comma 1, del d.lgs 267/2001, ancorchè a tempo determinato, certamente non sono consentite dall’articolo 1, comma 424, della legge 190/2014.
Inorridiranno coloro i quali si abituano ad interpretare le leggi in modo che esse siano adeguate al proprio pensiero preconcetto e cavillino sulle virgole e i punti, osservando che il comma 424 vieta le sole assunzioni a tempo indeterminato, ma non quelle a tempo determinato. Sicchè, il sillogismo suggerisce che se le assunzioni ai sensi dell’articolo 110, comma 1, sono a tempo determinato, esse sono da considerare ammissibili “e più non dimandare”.
Ma, si tratta di una conclusione utilitaristica e non corretta. Che certamente non può considerarsi rafforzata dal “non luogo a deliberare” della Sezione Autonomie. Al contrario, il parere della sezione 19/2015 contiene una specifica e chiara indicazione che sorregge le ragioni dell’illegittimità, anzi nullità, degli incarichi a contratto.
Tuttavia, prima di esporle brevemente, facciamo qualche piccola domanda e considerazione. In presenza di circa 500 dirigenti provinciali destinati alla mobilità, nonché di qualche migliaia di funzionari di categoria D provinciali, quale sarebbe esattamente la ratio che considera prevalente un incarico a contratto, per cooptazione, senza concorso, di soggetti esterni alla PA?
In altre parole, come è possibile che essendo disponibile un plafond di dirigenti e funzionari certamente testati e dotati di esperienza, i comuni possano considerare lecito, corretto e conveniente rivolgersi a soggetti esterni, le cui capacità e competenze sono tutte da dimostrare?
Sì perché è perfettamente noto che nonostante l’articolo 110, comma 1, debba applicarsi in stretta combinazione con l’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001, spessissimo i comuni chiamino a contratto dei quilibet qualsiasi, completamente privi dei requisiti di elevatissima professionalità imposti dall’articolo 19, comma 6, almeno per la dirigenza e cioè, in sintesi: essere magistrati, avvocati dello Stato, professori o ricercatori universitari, dirigenti in altre pubbliche amministrazioni, dipendenti pubblici che abbiano un curriculum post universitario e vantino pubblicazioni scientifiche, oppure soggetti provenienti dal privato che, disponendo comunque della laurea, vantino almeno 5 anni di esperienza in funzioni dirigenziali.
Nella pratica, sostanzialmente mai gli incaricati ai sensi dell’articolo 110, comma 1, dispongono di questi requisiti, necessari per giustificare l’eccezione alla regola della selezione concorsuale (se qualcuno è già dirigente o è magistrato, non è certo utile un nuovo concorso, dovrebbe risultare chiaro).
Ma, i dirigenti ed i funzionari delle province hanno, come visto prima, vinto un concorso e dispongono di esperienza pregressa chiara e certificabile e per la loro assunzione basta una semplice mobilità, senza nemmeno scomodare la complessa, soprattutto sul piano motivazionale, procedura di cui all’articolo 110, comma 1. E, allora, si ribadisce: perché in questa fase continuare a ritenere possibile ed utile avvalersi di questo tipo di assunzioni?
Andiamo, ora, alla delibera 19/2015 della Sezione Autonomie. Essa, è vero, non si pronuncia sul tema dell’articolo 110, ma nel negare ammissibilità alla mobilità neutra, spiega bene che non possono considerarsi corrette interpretazioni dell’articolo 1, comma 424, della legge 190/2014, in contrasto con il suo fine. Il quale fine è: dare priorità alle assunzioni dei dipendenti provinciali in sovrannumero, utilizzando gli spazi assunzionali previsti.
Qui sta il punto. Le assunzioni a tempo determinato non sono vietate dal comma 424. Ma quali assunzioni? E’ evidente: quelle che non erodono risorse e spazi assunzioni per il tempo indeterminato, non occupando posti della dotazione organica.
Tutti i contratti a tempo determinato, per loro natura, sono fuori della dotazione, in quanto essa elenca il fabbisogno ordinario e continuativo degli enti; è noto che il d.lgs 165/2001 ammette il tempo determinato solo per fabbisogni esclusivamente temporanei o eccezionali.
Non è il caso dell’articolo 110, comma 1, che, in deroga al sistema generale, consente di effettuare le assunzioni di dirigenti e responsabili di servizio “a contratto” occupando posti della dotazione organica.
Ogni assunzione ai sensi dell’articolo 110, comma 1, dunque, sottrae posti disponibili alla ricollocazione dei dipendenti provinciali, ancorchè sia a tempo determinato; un tempo determinato di non oltre 5 anni, che va comunque oltre il blocco biennale delle assunzioni imposto dalla legge 190/2014, allo scopo di consentire la ricollocazione del personale provinciale.
Allora, il corretto sillogismo è: se un contratto anche a termine rende indisponibile un posto vacante della dotazione organica alla ricollocazione dei dipendenti provinciali, esso si pone in contrasto con i fini della legge 190/2014, esplicitati dalla Sezione Autonomie, sicchè esso è non solo illegittimo, ma nullo.
Non basta per convincere i sindaci che le loro pulsioni per cooptare dirigenti e funzionari “di fiducia” non sono attualmente sostenibili nemmeno da parte di quei direttori generali e segretari comunali molto preoccupati di seguire sempre e comunque qualsiasi pulsione sindacale?
Mettiamola così: come si fa a giustificare davanti alla Corte dei conti la maggior spesa pubblica derivante da assunzioni ai sensi dell’articolo 110, comma 1, quando con la mobilità imposta dall’articolo 1, comma 424, della legge 190/2014, non si crea nuova e maggiore spesa pubblica?
Si tratta di argomentazioni, quelle esposte sopra poste a sottolineare che attualmente gli incarichi a contratto rotazionali non sono ammissibili, appena banali, ovvie, semplici. Non serve alcun “ipse dixit”. Basta un attimo richiamarsi a Charles Louis de Secondat barone di Montesquieu, e saper cogliere “l’esprit des lois”, evitando per una volta le interpretazioni di comodo, utili, spesso, ma non contemplate dalle preleggi.
domenica 15 marzo 2015
#PA #spoilsystem Illegittimi incarichi oltre i limiti percentuali

Le due sentenze del Tar Lazione, Sezione I ter, 3 marzo 2015, nn. 3658 e 3670, sono state salutate come un importante chiarimento sulla disciplina della dirigenza e, comunque, una sorta di stop giurisdizionale al progetto di riforma della dirigenza, contenuto nel disegno di legge di riforma della PA, all’attenzione del Senato.
L’esame approfondito delle due sentenze ne rivela, piuttosto, una portata molto più modesta e svela molta confusione proprio sulla procedura di conferimento degli incarichi esterni.
Inoltre, è da evidenziare che gli arresti giurisprudenziali ovviamente si riferiscono al diritto attualmente vigente. Certo, confermano i mali del ricorso senza controllo agli incarichi dirigenziali esterni, causa di uno spoil system all’italiana sostanzialmente illegittimo, ma non possono, da soli, impedire al Parlamento di approvare una riforma improntata esattamente alla volontà di estendere lo spoil system, per altro in modo estremamente surrettizio. Infatti, nel disegno di legge il tema non è tanto il limite numerico ai dirigenti esterni, quanto, invece, la possibilità di lasciare i dirigenti di ruolo privi di incarico senza nessuna specifica motivazione. Il che consente agli organi di governo di non dover nemmeno affrontare il problema di ricorsi legati all’illegittimità delle decisioni, le quali a loro volta dovrebbero basarsi sulla valutazione dei risultati. Ovviamente, la possibilità di lasciare a casa senza particolari forme i dirigenti di ruolo apre le porte agli incarichi esterni: sarà molto facile, infatti, evidenziare l’assenza nei ruoli delle professionalità necessarie, per quanto tali assenze si riveleranno cagionate esattamente dall’intento attuato di disfarsi dei dirigenti di ruolo.
Detto questo, andiamo con ordine. Le due sentenze del Tar Lazio hanno avuto molto risalto anche sulla stampa generalista, perché dipinte, appunto, come uno stop allo spoil system attuato dalla Regione Lazio (per altro, per nulla nuova ad applicazioni degli incarichi dirigenziali a dir poco disinvolte).
Oggettivamente, se si va al contenuto delle decisioni, c’è da restare meravigliati che in Italia possa destare meraviglia ed essere considerata “notizia” clamorosa sui giornali la semplice, banalissima, applicazione delle leggi.
Andiamo alla sentenza 3658/2015. La questione affrontata concerne (come per l’altra decisione del Tar) l’affidamento di incarichi esterni senza il rispetto delle procedure normative e, soprattutto, al di là dei limiti percentuali stabiliti dalle norme e, segnatamente, dall’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001 nonché dalle leggi regionali assunte come violate, in gran parte ripetitive della norma nazionale citata e contenenti, inoltre, particolari iter per assicurare la selezione dei destinatari degli incarichi.
La sentenza 3658/2015 ritiene “fondata la censura con la quale è stato dedotto il superamento dei limiti previsti dalla legge per il conferimento degli incarichi dirigenziali a soggetti esterni all’Amministrazione”. La cosa è semplicissima. Osservano i giudici:
- “a disciplina relativa all’attribuzione degli incarichi dirigenziali a soggetti esterni all’Amministrazione è contenuta nell’art. 19 comma 6 del D.Lgs. 165/01 in base al quale per la prima fascia dirigenziale è possibile disporre il conferimento dell’incarico a soggetti esterni nei limiti del 10% della relativa dotazione organica; identica previsione è contenuta nell’art. 20 comma 7 della L.R. n. 6/2002 secondo cui gli incarichi dirigenziali possono essere conferiti “entro il limite del 10% della dotazione organica dei dirigenti appartenenti alla prima fascia”. Le norme sono chiarissime e non si prestano ad interpretazioni diverse da quella letterale”;
- dunque occorre applicare separatamente le percentuali in modo che il 10% valga per la dirigenza di prima fascia e l’8% per la dirigenza di seconda fascia;
- i dirigenti di prima fascia, nella Regione Lazio, al momento dell’avvio della selezione dei dirigenti esterni, erano 17; il 10%, il che significa che al massimo potessero esserne assunti 2 dall’esterno; invece risultavano attribuiti ben 6 incarichi di dirigenti apicali, il triplo di quanto consentito dalla legge;
- si evince dalla sentenza che l’organico dei dirigenti della Regione Lazio sia di 320 unità; dunque, la dirigenza di seconda fascia sarebbe composta da 317 dirigenti, per cui applicando la percentuale di assunzione dell’8% potevano essere acquisiti al massimo 25 dirigenti esterni, per un totale, tra dirigenti di prima e seconda fascia, di non oltre 27 dirigenti esterni;
- anche se si accogliesse la tesi sostenuta dalla Regione Lazio, secondo cui, per effetto di modifiche al proprio assetto normativo, tali da escludere la divisione della dirigenza in due fasce, si debba applicare la percentuale dell’8% all’intera dotazione, il risultato non cambierebbe di molto: al massimo la Regione avrebbe potuto acquisire 26 dirigenti esterni;
- notano i giudici del Tar Lazio che, invece, “sono attualmente in servizio presso la Regione Lazio 68 dirigenti esterni, di cui 6 apicali, 42 dirigenti sub-apicali e 20 dirigenti di strutture di diretta collaborazione”.
In conclusione, i dirigenti esterni in servizio presso la Regione Lazio sono 68 invece di 27 o 26: 2,5 volte quanto permesso, al massimo, dalla legge.
Appare uno strano Paese quello nel quale, allora, desta scalpore una decisione giudiziale con la quale il Tar si sia sostanzialmente limitato a mettersi a far di conto, per constatare che determinate percentuali numeriche siano state violate.
C’è da chiedersi seriamente a cosa servano le strutture di controllo interno, se lasciano passare violazioni così marchiane a semplicissime regole aritmetiche. O, forse, occorre prendere atto che le strutture di controllo interno servono, molto spesso, proprio a non controllare certe vicende.
L’ultimo dato disponibile del rapporto tra dirigenti di ruolo e dirigenti a tempo indeterminato ci è dato dalla Corte dei conti, Sezioni Riunite, Relazione 2012 sul costo del lavoro, secondo il quale al 2010 erano in servizio nel comparto regioni enti locali 6884 dirigenti a tempo indeterminato e 2199 dirigenti a termine, con un rapporto del 24% sul totale dei 9083 dirigenti in servizio. Nel 2012 il numero totale si è ridotto a 8.249, ma non risultano dati certi sul numero dei dirigenti a tempo determinato, che, comunque, è piuttosto stabile, negli anni, intorno a 2.200.
L’intero comparto, insomma, denuncia una presenza di circa il 25%, un quarto, di dirigenti a tempo determinato, nonostante l’articolo 19, comma 6, del d.lgd 165/2001 preveda soglie estremamente più basse.
Si capisce, allora, il perché dell’innalzamento, riguardante però i soli enti locali e non le regioni, al 30% del personale dirigente di ruolo, disposto dal d.l. 90/2014: si è trattato di una vera e propria sanatoria di fatto alla persistente violazione dei limiti alla quantità di dirigenti, per altro nonostante numerosissime sentenze della Consulta che hanno dichiarato l’incostituzionalità di altrettante leggi regionali, per aver esse leggi fissato appunto la soglia dei dirigenti a tempo determinato nel 30%.
In ogni caso, comunque, la Regione Lazio ha dato corso a procedure di conferimento di incarichi dirigenziali esterni illegittime, per aperta violazione dei limiti numerici posti in maniera inequivocabile dalla legge.
Più controverse le indicazioni traibili dalla sentenza 3670/2015, fonte di notevole confusione.
In primo luogo, non merita condivisione la decisione del Tar Lazio di accogliere l’eccezione di giurisdizione in merito ai provvedimenti concreti di attribuzione degli incarichi dirigenziali, fondata sulla circostanza che essi hanno natura privatistica. Il Tar continua nella confusione, troppo presente nella magistratura amministrativa, tra procedimento di assunzione e conferimento dell’incarico. E’ vero che nel caso del conferimento di “incarichi” esterni le due fattispecie paiono coincidere. Ma, in realtà l’assunzione a tempo determinato è atto distinto, logicamente e temporalmente precedente all’assegnazione dell’incarico. La prima è sottratta alla giurisdizione amministrativa. L’incarico, quale atto di organizzazione espressione, per altro, di discrezionalità, è un provvedimento amministrativo vero e proprio. Tanto è vero che l’articolo 19, comma 2, del d.lgs qualifica senza alcuna possibilità di equivoco l’incarico come “provvedimento”.
In ogni caso, il Tar considera, invece, sussistente la posizione di interesse legittimo dei dirigenti, ma anche dei funzionari di categoria D (qui stanno il vizio e la confusione della sentenza) rispetto alla scelta discrezionale dell’amministrazione regionale, attuata mediante atti di macro organizzazione, di non conferire gli incarichi dirigenziali a personale interno. Pertanto, questo è un dato da accogliere favorevolmente, non esiste un terreno nel quale l’amministrazione possa decidere se e come acquisire dirigenti esterni, senza che la propria decisione non sia sottoponibile al vaglio di legittimità.
La sentenza ripercorre i passi di quella commentata in precedenza, rilevando l’illegittimità dell’azione della Regione Lazio, per il superamento dei limiti numerici al reclutamento di dirigenti esterni. Il Tar afferma: “Non è contestato in giudizio che l a dotazione organica del l a Regione Lazio prevede 240 posizioni dirigenziali di seconda fasci a e, quindi , il numero massimo di incarichi conferibili a soggetti esterni avrebbe dovuto considerarsi pari a 19 unità (8% di 240 = 19,2), mentre, l a Regione Lazio ha adottato 38 avvisi di ricerca di professionalità esterne (che si vanno a sommare ai 4 incarichi dirigenziali conferiti prima della proposizione del ricorso introduttivo del giudizio)”.
Pazienza se i numeri riportati in questa decisione non collimino con quelli evinti dalla precedente. Conta la riaffermazione dell’illegittimità del superamento dei limiti percentuali fissati dalla legge.
Clamoroso, poi, è il vizio di legittimità rilevato dalla sentenza 3670 relativo all’assenza della programmazione triennale delle assunzioni, altra causa (imperdonabile) di irrimediabile illegittimità delle assunzioni.
Il Tar Lazio, tuttavia, accoglie un ulteriore motivo di ricorso, che assume la procedura viziata per la mancata escussione dei funzionari di categoria D, considerata come obbligatoriamente preventiva all’avvio della ricerca di dirigenti esterni.
La decisione del Tar Lazio appare francamente contraddittoria e confusionaria laddove sostiene la sussistenza del diritto dei funzionari ad essere coinvolti nella procedura interna ai fini dell’attribuzione degli incarichi dirigenziali “anche in considerazione del loro interesse alla progressione di carriera”. Questo inciso della sentenza è un gravissimo errore, che ammette indirettamente come incarichi “esterni” ai funzionari siano, a ben vedere, appunto “progressioni verticali”. Ma, le progressioni verticali sono istituto abolito e sostituito, dal d.lgs 150/2009, appunto con le progressioni di carriera, che consistono esclusivamente in concorsi pubblici con limitata riserva di posti.
Ciò conferma che l’unico modo legittimo per i funzionari di accedere alla dirigenza è partecipare ai concorsi pubblici, ai sensi dell’articolo 28 del d.lgs 165/2001. L’assegnazione di “incarichi” è solo evento straordinario e remoto, non potendo mai configurarsi come normale evento di progressione di carriera, posto che tra la carriera di funzionari e quella dirigenziale per altro esiste una rilevante e piena cesura.
Risulta, di conseguenza, ulteriormente erronea la sentenza del Tar laddove ritiene che occorra cercare “tra il personale di cat. D (quali i ricorrenti) le professionalità cui conferire gli incarichi dirigenziali”.
Il Tar commette l’errore di non considerare che la procedura prevista dall’articolo 10, commi da 1 a 2, per l’attribuzione degli incarichi dirigenziali è riservata in via esclusiva al personale di qualifica dirigenziale e non si estende affatto ai funzionari di categoria D. I quali, come detto, possono solo accedere, in ipotesi assolutamente eccezionali, all’eventuale selezione di personale esterno.
La sentenza esplicita questa erronea posizione nella parte in cui evidenzia il “mancato rispetto della procedura volta alla ricognizione delle professionalità interne, nella parte in cui tale ricognizione non è stata rivolta anche ad individuare la sussistenza di funzionari direttivi” aggiungendo “la procedura deve ritenersi viziata in quanto rivolta in via esclusiva nei confronti del personale dirigenziale, e non anche di quello direttivo”.
Ma, è esattamente corretto il contrario; l’indagine sulla presenza delle professionalità meritevoli di ottenere l’incarico non può che essere rivolta in via esclusiva ai dirigenti di ruolo. Solo la motivata rilevazione dell’assenza, può far scattare il meccanismo dell’articolo 19, comma 6, a sua volta possibile fonte di destinazione degli incarichi ai funzionari.
Ritiene il Tar: “a parere del Collegio, l’impossibilità di rinvenire professionalità nei ruoli dell’Amministrazione deve intendersi nel senso che la ricerca all’esterno deve seguire l’accertamento del possesso dei requisiti richiesti in capo a soggetti già appartenenti ai ruoli dell’Amministrazione e, quindi, anche tra i funzionari direttivi di cat. D in caso di vacanza in organico di personale dirigenziale”. La necessità di estendere la ricerca anche ai funzionari, secondo il tar, è dimostrata dall’utilizzo al plurale della parola “ruolo”.
Si tratta di una posizione per nulla condivisibile. E’, infatti, evidente che l’articolo 19, comma 6, del d.lgs 165/2001, parla di “ruoli” perché si riferisce ai molteplici ruoli dirigenziali esistenti nella PA. Tanto ciò è vero, che intento della riforma attualmente al Senato ha come oggetto proprio la creazione del “ruolo unico” della dirigenza. L’articolo 19, comma 6, dunque, parla di una pluralità di ruoli dirigenziali, dovendo riferirsi ai tanti ruoli dei vari comparti; non può essere letta la visione molteplice dei ruoli come promiscuità tra ruoli dirigenziali e non dirigenziali.
Il personale dotato delle competenze necessarie all’incarico dirigenziale da conferire non può che essere esclusivamente dirigenziale. Infatti, laddove motivatamente la professionalità non fosse rinvenibile nelle fila dei dirigenti di ruolo, l’articolo 19, comma 6, consente di ricorrere ai funzionari di categoria D come soggetti tra i quali è astrattamente possibile coloro che dall’esterno dell’amministrazione (sia pure per mera fictio iuris) posseggano i requisiti non reperiti tra i dirigenti.
Questo significa, allora, che i funzionari di categoria D non possono essere escussi ai fini dell’attribuzione dell’incarico dirigenziale come se fossero dirigenti, sebbene – come suggerisce il Tar – dopo aver verificato che innanzitutto la professionalità risulti carente tra la dirigenza. Se così fosse, i funzionari di categoria D potrebbero vantare una posizione differenziata e tutelabile dal diritto, per aspirare ad ottenere incarichi dirigenziali. Ma, proprio questo è l’errore in cui cade il Tar.
I dirigenti possono accedere agli incarichi dirigenziali in razione della corrispondenza tra qualifica posseduta ed oggetto dell’incarico stesso. L’eventuale cesura tra qualifica e incarico scatta solo laddove si dimostri che occorra una professionalità particolare, non rinvenuta in nessuno dei soggetti che, dotati, della qualifica dirigenziale, coprano i ruoli.
E’ un’ipotesti, questa, oggettivamente da considerare recessiva e straordinaria. Non si vede come, infatti, una pubblica amministrazione possa avere una provvista di dipendenti costruita in modo che siano normalmente privi della necessaria professionalità.
Solo laddove possa accedere un evento che per forza di cose non potrebbe che essere se non raro ed eccezionale, allora può attivarsi il meccanismo di cui all’articolo 19, comma 6, che permette alle amministrazioni di non coprire una vacanza d’organico attraverso un’assunzione a tempo indeterminato e, quindi, con l’immissione in ruolo, bensì di coprire temporaneamente un’assenza di professionalità, che potrebbe ipoteticamente anche riferirsi ad un incarico considerato rilevante per un limitato periodo di tempo in relazione ad un certo programma politico, ma non destinato a durare nel tempo oltre la fine del mandato politico.
In questo caso, allora, l’articolo 19, comma 6, permette di non ricorrere al sistema ordinario del reclutamento tramite concorso pubblico in ragione di una spiccatissima e peculiare professionalità riconosciuta in capo ai soggetti che possono essere incaricati a contratto: si tratta proprio di quel tasso di professionalità, così spiccata e particolare, che non si è riusciti a reperire tra soggetti, i dirigenti di ruolo, che per natura sono comunque dotati di una professionalità di per sé elevata.
L’articolo 19, comma 6, è pensato per consentire alle amministrazioni di supplire a possibili carenze non di professionalità “ordinaria”, connessa, cioè, alle normali (elevate) competenze che si richiedono in capo alla dirigenza, bensì per acquisire livelli o tipi di professionalità peculiari, che non risulta facile individuare nei ruoli.
Dunque, i destinatari dell’articolo 19, comma 6, debbono dimostrare di avere un curriculum tale da evidenziare di per sé il possesso di quelle peculiari e particolarissime competenze aggiuntive rispetto all’ordinario.
Infatti, le categorie di soggetti ai quali è possibile conferire incarichi esterni sono per loro natura caratterizzate da evidenze di elevatissima professionalità, poiché si tratta:
a) che abbiano svolto attività in organismi ed enti pubblici o privati ovvero aziende pubbliche o private con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali;
b) che abbiano conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in posizioni funzionali previste per l'accesso alla dirigenza:
c) che provengano dai settori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato.
Nel caso della lettera a) gli interessati debbono aver già svolto funzioni dirigenziali, non bastando aver svolto attività in funzioni per l’accesso alla dirigenza. Nel caso della lettera c) occorre che i destinatari siano ricercatori universitari, oppure docenti universitari, oppure ancora magistrati o avvocati o procuratori dello Stato.
I funzionari di categoria D potrebbero rientrare, allora, esclusivamente nell’ambito della seconda delle catalogazioni previste dall’articolo 19, comma 6, ed aspirare – da esterni – ad incarichi dirigenziali, laddove dal loro curriculum la spiccatissima professionalità sia dimostrata dal possesso di formazione post-universitaria (titoli ulteriori e successivi alla laurea), oppure (ma meglio sarebbe in aggiunta) da pubblicazioni scientifiche, quindi riconosciute dalla comunità operante nel ramo specifico della professionalità richiesta e che, in aggiunta, abbiano anche svolto concrete esperienze di lavoro di almeno 5 anni in funzioni per l’accesso alla dirigenza, anche alle dipendenze della medesima amministrazione che conferisce l’incarico.
Dunque, non possono esservi dubbi. Il d.lgs 165/2001 non ammette in alcun modo promiscuità tra dirigenza e funzionari. Gli incarichi in via ordinaria possono essere attribuiti solo ai dirigenti, visto che la qualifica dirigenziale è la ragion d’essere degli incarichi.
Solo una volta dimostrato che tra i dirigenti non vi sono professionalità spiccatissime per un particolare incarico, possono entrare in gioco anche i funzionari, ai sensi dell’articolo 19, comma 6, in quanto si tratta di coloro che lavorano in posizioni funzionali per l’accesso alla dirigenza.
E’, dunque da escludere che:
- ai funzionari di categoria D l’amministrazione possa rivolgersi per attribuire incarichi dirigenziali al mero scopo di allargare la platea dei soggetti destinatari: gli incarichi dirigenziali debbono essere assegnati solo ai dirigenti;
- acclarato che sussistano le condizioni di cui all’articolo 19, comma 6, perché l’amministrazione possa reclutare dirigenti a contatti i funzionari possano avere una posizione differenziata rispetto a quella di qualsiasi altra categoria di soggetti contemplata dall’articolo 19, comma 6, stesso: debbono concorrere, nelle selezioni, con gli altri;
- i funzionari di categoria D possano ottenere l’incarico dirigenziale per la semplice circostanza del possesso della posizione prevista per il successivo accesso (che avverrebbe per concorso) alla dirigenza, in quanto il comma 6 dell’articolo 19 ammette questa eccezione all’assetto normale ed ordinario dell’organizzazione pubblica del lavoro e delle competenze, solo in quanto detti funzionari dimostrino il possesso della spiccatissima professionalità non reperita tra la dirigenza, proprio perché oltre alla prestazione della loro ordinaria attività lavorativa abbiano titoli postuniversitari e pubblicazioni scientifiche tali da dimostrare una competenza verticale molto approfondita e riconosciuta su quella particolare competenza richiesta dal programma politico.
Sbaglia, quindi, il Tar Lazio nel concludere che “i funzionari direttivi di cat. D, in possesso dei requisiti richiesti, avrebbero dovuto essere considerati dall’Amministrazione ai fini del conferimento degli incarichi dirigenziali prima di rivolgersi a personale esterno” in quanto ai sensi dell’articolo 19, comma 6, i funzionari sono personale esterno. Dunque, con gli esterni debbono concorrere nelle selezioni, non esistendo nella norma alcuna riserva o priorità nei loro riguardi.
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