La stanca litania
della riforma della PA, senza idee, senza efficacia
Sono quasi 30 anni che
periodicamente si auspica una riforma della PA per liberare lo Stato dalle
secche nelle quali essa lo blocca.
E’ toccato a Il Sole 24 ore del 3
marzo 2018 ripetere la solita litania, con l’articolo “Riformare la PA per crescere”, che
riprende le proposte di un gruppo di studio denominato “Giardino dei semplici”.
Un condensato di tutti gli slogan e tutte le idee inefficaci ed improduttive,
che in questi anni hanno continuato ad ispirare riforme “epocali” che non lo
erano della PA, senza risolvere mai i problemi e continuando a creare,
moltiplicare, complicare, avvitare su se stessi vincoli, procedure e cavilli,
ottenendo l’esatto opposto degli obiettivi strombazzati.
Ecco un elenco fior da fiore
degli slogan: “è necessario porsi, ora che la ripresa economica si è
consolidata, un ambizioso obiettivo di riduzione permanente dei costi della
pubblica amministrazione che permetta un allentamento della pressione fiscale e
una sostanziosa riduzione del debito pubblico nei prossimi cinque anni”;
cosa fattibile solo “attraverso una vera riforma della pubblica
amministrazione”; “La ristrutturazione della PA deve migliorare la
produttività nell'erogazione dei servizi, l'efficacia e l'efficienza
dell'azione amministrativa, incrementando il livello qualitativo delle
prestazioni; ridurre la durata dei procedimenti; ridefinire, nell'interesse dei
cittadini, delle imprese e delle formazioni sociali, il perimetro di attività
dell'amministrazione, compresa quella svolta tramite società partecipate o enti
strumentali”; ovviamente, “La ristrutturazione deve porsi obiettivi
misurabili in termini di risultati, secondo criteri predeterminati”; non
c’è, poi da dimenticare che “Il miglioramento della produttività e
dell'efficienza dell'azione amministrativa elimina gli ostacoli burocratici
allo sviluppo della società; prosciuga il brodo di coltura della corruzione,
che si nutre dell'inefficienza dell'apparato amministrativo”.
Tutte idee giustissime, certo.
Che hanno ispirato tutte le riforme “epocali” compiute dal 1993 in poi; quella del
’93, rivista nel ’95, modificata nel ’98, poi assestata nel 2001, ma in parte
modificata nel 2002, per essere aggiornata nel 2005, ma stravolta nel 2009, poi
un po’ aggiustata tra 2010 e 2011, allentata nel 2013, modificata in parte nel
2014, nuovamente profondamente riformata nel 2015 e nel 2017.
Peccato che al di là degli
slogan, non si riescano a cogliere due elementi fondamentali. Il primo consiste
nell’errore di prospettiva: che consiste nel ritenere che la PA sia la causa dei “lacci e
laccioli” nei quali è stretta l’economia del Paese. Sicchè è prevalentemente un
problema di produttività della PA, se essa non riesce ad offrire servizi
considerati utili.
E’ una visione erronea.
Sicuramente margini di miglioramento della produttività esistono, ma chi
continua dopo 30 anni a manifestare sempre queste liturgiche giaculatorie
omette, regolarmente, di prendere atto che le inefficienze, le lungaggini
burocratiche, le complicazioni operative, per la gran parte non dipendono da
scelte organizzative dei “burocrati”, il corpo vivente della PA, ma derivano
esattamente da Parlamento e Governo, coloro che legiferano e guidano proprio
l’attività amministrativa.
Il miglioramento della
produttività suggerisce il gruppo di studio, favorisce la lotta alla
corruzione? Ma, il gruppo di studio conosce la normativa intricatissima che è
derivata dalla giusta lotta alla corruzione? Le centinaia di adempimenti
formali con cui la legge e le indicazioni dell’Anac inondano le amministrazioni
di adempimenti formali, con i quali non è fin qui risultato in alcun modo si
sia prevenuto davvero un evento corruttivo?
Hai voglia a proporre riforme
alla luce delle “esperienze compiute nel settore privato”, anche perché
il privato sarà virtuosissimo, ma non sono mancati i casi Enron, Cirio,
Parmalat, Embraco, come non sono mancati i fallimenti a catena delle banche
all’origine vera della crisi in cui ancora ci dibattiamo.
L’errore di prospettiva porta gli
autori a dettare la seguente proposta operativa “formulata in un disegno di
legge
(https://www.leoniblog.it/2015/05/30/riformare-la-pa-riducendo-la-spesa-corrente-il-giardinodei-semplici/),
i ministeri, le altre amministrazioni centrali gli enti pubblici nazionali
sottopongono al governo propri piani di ristrutturazione, entro termini
stringenti. I piani contengono un progetto organizzativo per migliorare la
produttività nell'erogazione dei servizi e il livello qualitativo delle
prestazioni, oltre che per ridefinire il perimetro dell'attività, selezionando
gli interessi sui quali concentrare attività e risorse, in un quadro di
sostenibilità di bilancio; identificano le esigenze di adattamento del quadro
normativo; verificano l'eccedenza di personale, strutture, risorse finanziarie.
La prima elaborazione è affidata alle stesse amministrazioni. Solo chi opera
all'interno conosce il labirinto nel quale occorre muoversi: senza la
collaborazione della struttura, nessuno potrebbe impostare rapidamente il lavoro
in modo efficace”.
Ma, gli autori evidentemente non
sanno o non prendono atto che si può ristrutturare tutto nei modi suggeriti.
Tuttavia, se, ad esempio, il codice dei contratti, che guida i processi per la
realizzazione di appalti di lavori, servizi e forniture, resta com’è,
continueranno contrasti tra giurisprudenza e tra questa e l’Anac su aspetti
operativi come se il dirigente del servizio cui afferisce l’appalto possa o
meno svolgere la funzione del presidente della commissione, su quali sono le
funzioni dei responsabili unici del procedimento, se questo responsabile possa
o no far parte della commissione, chi tra responsabile e commissione deve
curare la fase eventuale di verifica dell’anomalia dell’offerta, come
individuare i commissari di gara attraverso una procedura che quando andrà a
regime, tra richieste all’Anac, chiamata di questa agli iscritti ad un albo,
accettazione eventuale, invio delle liste di questi all’ente procedente,
verifica delle situazioni di eventuale incompatibilità, provvedimenti di nomina
ed accettazione, allungherà i tempi delle gare di almeno un mese; se tutto
resta così, non è per la volontà di nessun burocrate o “della PA”. E’ il
Legislatore che ha configurato in questo modo intricatissimo ed
iperburocratizzato gli appalti, accompagnato in ciò dalla soft law
dell’Anac quale elemento conclamato di complicazione.
Altri esempi potrebbero farsi.
Sempre per restare agli appalti, ma meglio dire, agli investimenti, una lunare
riforma della contabilità pubblica, che ha partorito l’ircocervo di una
contabilità che vorrebbe scimmiottare quella privata ma ha ancora mostruosi
elementi pubblicistici, impone di chiudere le gare con l’impegno definitivo
della spesa entro il 31 dicembre di ogni anno, pena conseguenze operative
assurde: la decadenza dell’impegno, la sua iscrizione in fondi pluriennali, che
se si tratta di spese di investimento vere e proprie almeno possono essere
facilmente reimpegnate, ma se si tratta di servizi o forniture, richiedono
riaccertamenti di residui attivi e passivi, inserimenti e prelievi in fondi
specifici con una congerie di provvedimenti di diversi organi, complicati,
incrociati, incoerenti, inestricabili se gli enti non hanno i bilanci
approvati: anche qui con enormi lungaggini, dovute al fatto che si scimmiotta
una gestione di cassa, senza cassa. Poi, ci si stupisce che gli investimenti
vadano a rilento e con essi anche i pagamenti.
Per non parlare, poi, delle
recentissime disfunzioni alle elezioni del 4 marzo 2018: file lunghissime ed
ore di attesa, una complicazione che non è stata decisa dalla PA o dai “burocrati”,
ma da un legislatore causa prima, sempre, degli aggravamenti procedurali, delle
sovrapposizioni, dei bizantinismi, del caos. Come la devastante riforma delle
province avrebbe dovuto chiarire a tutti. Tutti, ma non, evidentemente, i
componenti del Giardino dei semplici.
Il secondo errore, dunque, è il
metodo. Accanto ai piani di ristrutturazione, occorrerebbe Ecco i geni che
dobbiamo ringraziare per le lungaggini al voto #elezioni2018
https://prnt.sc/imze4c Ma, anche in questo caso, la diagnosi proposta è del
tutto erronea e rivela il vero intento, perseguito da decenni: il tentativo di
scalzare la dirigenza di ruolo, per piazzare al suo posto una dirigenza
totalmente sotto il controllo partitico (era l’obiettivo della riforma Madia
naufragata sotto i colpi della Corte costituzionale), oppure con la creazione
di una struttura parallela di “consulenti”. Ecco il pensiero della proposta in
commento: “I dirigenti pubblici,
tuttavia, sono spesso privi delle necessarie competenze in tema di
organizzazione e gestione, anche in ragione della loro formazione prevalente.
Non possono essere lasciati soli: vanno aiutati. La proposta prevede perciò che
vengano affiancati da un organo tecnico, che assicuri l'apporto di
professionalità di adeguata esperienza, maturata in processi analoghi, nel
settore privato e nell'amministrazione, in Italia o all'estero”.
Il solito attacco contro i
dirigenti pubblici, la solita esaltazione di “esperti del privato”, che non
conoscono la contabilità pubblica, le regole del lavoro pubblico, le regole
degli appalti ed approvvigionamenti pubblici, l’assenza dell’autonomia di
diritto privato, la quantità estrema di vincoli per meri adempimenti formali,
il peso della responsabilità erariale che nel privato non esiste. Professionisti
come Bondi, Cottarelli, Perotti, tanto per citarne alcuni, “scesi in campo” per
produrre spending review clamorose,
partorendo solo topolini o idee, come la centralizzazione degli appalti, buone
solo per bloccare ulteriormente gli investimenti e consentire più facilmente la
corruzione nei pochi mega appalti gestiti, come insegna il caso Consip. Per non
parlare della inutilissima e costosissima esperienza dei direttori generali
esterni, (scusate, city manager, perché
un po’ di sano italiese non guasta mai) nei comuni: alieni che non hanno
minimamente contribuito ad alcun miglioramento, organizzativo ed operativo, ma
a costi molto salati.
L’altra idea è, poi, quella dell’ulteriore
contenimento del personale pubblico. “La
ristrutturazione di un apparato amministrativo obsoleto produce naturali
ricadute sul personale. Gli esuberi vanno gestiti con ragionevolezza. La
proposta combina soluzioni di mobilità interna, anche tra amministrazioni e
società partecipate, e un ammortizzatore sociale a carico delle amministrazioni
ristrutturate, coerente con l'esigenza di garantire rapidamente il recupero di
produttività perseguito”.
Evidentemente nessuno ha
informato il Giardino dei semplici che l’Italia, con 3 milioni di dipendenti
pubblici, anche considerando i circa 400.000 delle società pubbliche, non si
avvicina nemmeno lontanamente agli oltre 5 milioni di Francia e Gran Bretagna e
agli oltre 4 milioni della Germania. Nessuno ha ricordato loro che entro il
2021 quei 3 milioni diventeranno 2,5 milioni per una gobba di pensionamenti di
500.000 unità. I dipendenti saranno largamente insufficienti quantitativamente
e con età molto avanzata.
Le proposte di riforma della PA
ancora incentrate su ricette vecchie di 30 anni, parzialmente attuate in modo
fallimentare, sono oggettivamente quasi surreali. Come surreale è che vi possa
essere ancora della stampa che le rilanci.
Il post è dedicato al suo prezioso ed inesauribile lavoro. Saluti
RispondiEliminahttps://www.linkedin.com/pulse/exhaustive-lullaby-reforming-italian-public-paola-sabatelli-amato/