Apprendiamo che in questi giorni
il Ministro della funzione pubblica si sta apprestando a realizzare una
(l’ennesima) riforma della Pubblica Amministrazione priva di velleità “epocali”
(e sarebbe la prima volta), ma legata alla “concretezza”.
Un ottimo approccio, finalmente.
Non la ricerca della riforma sensazionale della quale pavoneggiarsi sui social
e nelle televisioni, bensì necessari correttivi operativi e mirati, per far
funzionare in modo dovuto la PA.
Se l’intento è encomiabile,
tuttavia, le premesse, almeno stando ad alcune notizie di stampa, non appaiono
delle migliori.
Su Il Messaggero del 10 agosto
2018 l’articolo “Roma, dirigenti pagati per sbloccare gli appalti” di dà conto
dell’idea che sarebbe emersa in un confronto tra il sindaco l’inquilina di
Palazzo Vidono per risolvere il problema dei dirigenti della Capitale restii a
presiedere le gare d’appalto: “L'idea di
incentivare economicamente la partecipazione a queste commissioni è stata
discussa nei giorni scorsi nell'incontro tra la sindaca Virginia Raggi e dal
ministro per la Pubblica
amministrazione Giulia Bongiorno. Da settembre l'inquilina di Palazzo Vidoni
metterà in pratica le sue idee per migliorare la macchina amministrativa: una
di queste potrebbe essere proprio l'introduzione
di premi per chi porta avanti le gare d'appalto pubbliche in maniera rapida ed
efficace, e al contempo corretta e trasparente”.
E’ da auspicare che si tratti di boatos di stampa, non corrispondenti
alle reali intenzioni della riforma “concretezza”.
Se così fosse, per l’ennesima
volta avremmo la conferma che i vertici politici e di governo non hanno ancora
chiaro in alcun modo in cosa consistano “produttività” e “risultati”.
Portare avanti le gare d’appalto
in modo corretto e trasparente non può essere considerato un prodotto da
premiare: è semplicemente un dovere d’ufficio, già compensato dallo stipendio.
Parlare solo di premiare la correttezza e trasparenza nella gestione delle gare
come “obiettivo” significa implicitamente ammettere che se tale obiettivo non è
dato, allora le gare possano essere gestite in via ordinaria in modo scorretto
ed opaco. Un’assurdità.
Né ha alcun senso commisurare il
premio ai dirigenti in base alla conduzione delle gare d’appalto “rapida” ed
“efficace”. Cosa vuol dire “rapida”? Ma, a Roma lo sanno che la scansione della
tempistica delle gare di appalto è integralmente ed inderogabilmente definita
dalla legge? E che questo implica che i tempi sono prescritti in modo
ultimativo? E cosa vuol dire “efficace”? Come si misura l’efficacia di una
gara? Dai tempi necessari? E se arrivano imprevisti, legittimamente attivati
dalle imprese, come ricorsi?
La reale concretezza dovrebbe
indurre chi ha la delicatissima responsabilità di adottare misure per il
funzionamento di una colonna portante del convivere civile e dell’economia,
qual è la PA , a
non incorrere per l’ennesima volta negli stessi errori di valutazione e nelle
stanche premesse errate.
Scrive Francesco Verbaro su Il
Sole 24 del 13 agosto (“Per la Pa serve una riforma su due
livelli”) che al posto di slogan ad effetto “servono invece interventi gestionali che partano dai processi” e
così “migliorare molto con un
investimento gestionale, puntando su informatizzazione e risorse umane
qualificate” e chiudendo sottolineando che “per affrontare la sfida servirebbe un governo consapevole a tutti i
livelli, e la fissazione di standard gestionali efficienti”.
Ecco, gli “standard gestionali”, i grandi assenti. Per provare a determinarli
era stata costituita la Civit ,
uno dei più grandi flop delle riforme “epocali” della PA.
Cosa dovrebbe suggerire la
“concretezza”, allora, alla luce anche dei consigli di buon senso dispensati da
un grandissimo esperto di pubblica amministrazione come il Verbaro? Ci
permettiamo di fornire, non richiesti, a nostra volta alcuni suggerimenti.
Un primo passo decisivo
consisterebbe nell’andare, finalmente, oltre l’approccio “alla Brunetta”.
Non sarebbe male se si tornasse a
parlare di “risultato”, eliminando per sempre dall’ordinamento la cacofonica e
orrenda parola straniera “performance”: i dipendenti pubblici non sono né
attori che recitano su un palcoscenico, né sportivi chiamati a vincere medaglie
o battere record. L’orribile parola “performance” è solo un cascame dell’epoca
della “Milano da bere”: abbiamo già dato.
Altra buona cosa sarebbe
abbandonare definitivamente l’idea della valutazione della prestazione
individuale tramite “pagelle” dagli elementi valutativi bislacchi come la
“disponibilità” o “l’orientamento al cliente”. Il risultato non può che essere
complessivo; l’apporto dei singoli andrebbe commisurato in modo semplice al
risultato complessivo, meglio se sulla base di elementi valutativi non
suscettibili di interpretazioni (giorni di presenza, numero di prodotti
elaborati, come istruttorie, atti, colloqui, risposte)
L’insistenza eccessiva sul
risultato individuale è
controproducente e le aziende private legano la
valutazione del singolo sostanzialmente alla presenza in servizio, dando netta
prevalenza a pochi ma concreti risultati.
Anche la corsa affannosa alla
riduzione dei tempi dei procedimenti disciplinari non porta da nessuna parte.
La riduzione da 120 giorni (non si può oggettivamente nemmeno pensare che si
tratti di una durata eccessiva) a 30 dei tempi per il licenziamento dei
“furbetti del cartellino”, imposta dalla riforma Madia non ha per nulla
aumentato il numero dei licenziamenti, ma ha reso molto più complicata la
gestione di procedure di licenziamento plurisoggettive (la truffa sulle
timbrature è sempre portata avanti da più persone in complicità tra loro),
perché non vi sono letteralmente i tempi minimi necessari alle istruttorie.
Serve la tipizzazione certa delle
cause di licenziamento, così come una procedura agile, ma non dai tempi
insufficienti alle istruttorie.
Altra riforma molto concreta,
consisterebbe nell’eliminazione della funzione di “controllo collaborativo”
della Corte dei conti. Negli anni, il controllo è divenuto sempre meno
collaborativo e sempre più censorio, ed ha causato troppe volte cortocircuiti
operativi inestricabili e lunghi anni, come il conflitto tra magistratura
contabile e giudici ordinari sul diritto dei segretari comunali a percepire la
compartecipazione ai diritti di rogito negli enti privi di dirigenza, o
sull’analoga questione degli incentivi per le funzioni tecniche, o le prese di
posizione che ingiungono ai sindaci di utilizzare le convenzioni Consip per il
rifornimento del carburante, anche quando, per la logistica dei distributori,
ciò risulti antieconomico per i piccoli comuni.
I controlli servono e, per
evitare vizi procedurali, debbono essere preventivi. L’esperienza di oltre 20
anni di eliminazione dei controlli ha fatto dilagare ulteriormente corruzione e
mala gestione. Non che i Co.Re.Co. potessero impedirla, ma l’efficacia di
controlli a danno compiuto è ovviamente di gran lunga inferiore a controlli
posti in mezzo tra la produzione dell’atto e la sua efficacia.
Se la Corte dei conti, organo
giurisdizionale, non può essere chiamata a svolgere funzioni amministrative di
controllo puntuale, si riveda l’organizzazione per istituire organi di
controllo preventivo, oppure creare uffici regionali o provinciali indipendenti
che rispondano solo all’Anac.
Sempre restando ai contratti, la
“concretezza” imporrebbe di adottare sistemi davvero semplici per quantificare
i fondi. Le formule adottate dall’ultima ondata pre elettorale di Ccnl sono
ancora quelle vecchie, criptiche e causa di contenziosi. Molto più concreto
sarebbe (come avvenuto in Friuli Venezia Giulia) individuare cifre certe di
valore del trattamento accessorio a seconda della categoria dei dipendenti;
oppure, fissare parametri finanziari: percentuali ponderate sulla spesa
corrente o sulla spesa di personale, che si riducano magari in presenza di
indicatori via via crescenti di poca solidità dei bilanci.
Determinati in modo chiaro i
fondi della contrattazione ed avviate le certificazioni della Corte dei conti,
si potrebbero a questo punto incrementare di molto i poteri datoriali dei
dirigenti ed accrescere finalmente l’autonomia
di diritto privato delle amministrazioni, consentendo reali relazioni
sindacali e possibilità effettive di misure organizzative mirate e specifiche, abbandonando
definitivamente l’idea che le misure organizzative possano essere le stesse per
il comune di Roma e per il comunello con 5 dipendenti.
Altro tema relativo alla
concretezza: inutile ululare alla luna per i dirigenti che non si rendono
disponibili a presiedere le commissioni di gara. Basterebbe coniugare ad
efficaci controlli preventivi la realizzazione (per nulla impossibile) di una
piattaforma telematica governativa da utilizzare obbligatoriamente per la
gestione delle procedure. Il Me.Pa. sottosoglia già, di fatto, è un genere di
questa piattaforma; non si capisce cosa osti alla creazione di un’analogo
sistema gestionale anche per il sopra soglia.
Ancora, è concretezza abbandonare
per sempre il sistema
complicatissimo di definizione delle capacità assunzionali. Che si
stabilisca quale può essere la percentuale di spesa, su un aggregato definito
(la spesa corrente? Una certa categoria di entrate?) attivabile e si lascino le
amministrazioni determinare da sé i posti da ricoprire. Altrimenti, a cosa
serve il tendenziale abbandono della dotazione organica?
Sempre la concretezza dovrebbe
indurre a fissare, una volta e per sempre, un elenco tassativo ed inviolabile
di incarichi dirigenziali a contratto in staff agli organi politici: al livello
ministeriale il consigliere economico, quello giuridico, quello per i rapporti
internazionali, il capo di gabinetto, il portavoce ed il capo della segreteria,
nonché i segretario generale (se i regolamenti lo coinvolgano anche nella
determinazione delle politiche); al livello locale, il capo della segreteria,
il portavoce, il capo di gabinetto ma solo per le regioni (nei comuni non
serve, come non serve il direttore generale: il segretario comunale basta e
avanza).
Si elimini, quindi,
definitivamente ogni spazio allo spoil system, cancellando l’articolo 19, comma
6, del d.lgs 165/2001 e l’articolo 110 del d.lgs 267/2000, fonti di continue
illegittimità (chiamate dirette senza selezioni o con selezioni fasulle di
short list nelle quali sono presenti quelli che già si sa saranno incaricati,
mancanza di titoli di studio, durate oltre i limiti, quantità di contratti
superiori ai vincoli percentuali) e via così.
La riforma della dirigenza
elimini il trattamento economico da risultato, accorpandolo a quello di
posizione e, semmai, si introducano indicatori “spie” che riducano il
trattamento nel caso di obiettivi complessivi non raggiunti: tempi di
liquidazione troppo lunghi, impegni di spesa senza fondi, esecuzione dei
contratti non vigilata, durata media dei procedimenti oltre i limiti.
Contestualmente, si eliminino per sempre le mere responsabilità formali per
mancata pubblicazione di dati insignificanti di nessun interesse, o per
forzature alla “diversificazione” dei premi.
Ancora: si rinunci all’ideologia
che nella PA l’unica forma di contratto di lavoro ammissibile sia quello a
tempo indeterminato: esigenze di flessibilità sono proprie anche del lavoro
pubblico e l’eliminazione delle causali per il primo contratto consentirebbe di
scongiurare tanti contenziosi.
Un intervento sul tempo
determinato imprescindibile e che dovrebbe avere valore di interpretazione
autentica retroattiva è chiare che non si cumulano i periodi di lavoro a
termine interrotti da procedure concorsuali inframezzate tra un’assunzione e
l’altra frutto dell’utile piazzamento in un concorso: in questo caso, non vi
può essere “rinnovo” e non ha nessun senso imporre limitazioni che poi
impediscano al cittadino di aspirare ad un lavoro pubblico, in pieno contrasto
con l’articolo 51 della Costituzione.
Sempre la concretezza dovrebbe
indurre ad accelerare definitivamente il passo con la tecnologia on line.
Mentre si aspetta il Godot del “pin unico” e dello “Spid”, basterebbero poche
norme tecniche per riconoscere la legittimità delle comunicazioni e notifiche
anche tramite mail ordinaria, caricando i cittadini dell’onere – non certamente
insostenibile – di indicare un domicilio digitale obbligatorio per qualsiasi comunicazione
con la PA ; del
resto, per i concorsi da tempo ormai immemorabile si ammette che le
comunicazioni ufficiali avvengano tramite pubblicazione sui siti delle PA. Non
mancano, dunque, i mezzi giuridici per indurre alla digitalizzazione. Mancano,
forse, i mezzi tecnici: si potrebbero offrire, in modo concreto, allora,
sportelli automatizzati diffusi nei comuni per l’accesso alle mail a chi non
disponga di pc o smartphone, oltre a corsi formativi sull’utilizzo degli
strumenti digitali di comunicazione; si pensi a quanto si potrebbe risparmiare
in termini consumo di carta e di tempi procedurali.
Ancora, sarebbe molto concreto
abolire definitivamente la “progressione orizzontale” fonte solo di contenzioso
o di procedure solo formalmente selettive, che alla fine conducono solo alla
valorizzazione dell’anzianità: costa molto meno reintrodurre lo scatto di
anzianità, semplicemente vincolandolo alla condizione della capienza del fondo
del salario accessorio.
Sempre la concretezza dovrebbe
far comprendere la necessità di abolire il capestro rappresentato dall’articolo
23, comma 2, del d.lgs 75/2017, che assoggetta i fondi del salario accessorio
al tetto del 2016, finchè non si completi il processo di armonizzazione dei
trattamenti economici tra i vari comparti: lo stesso che dire, quindi, di
condizionare lo sblocco dei fondi ad un problema, quello della giungla
retributiva pubblica, nato nel 1861, insieme col Regno d’Italia e che non sarà
mai risolto.
Altri capestri sono contenuti
nelle assurde ed ipertrofiche normative finanziarie, spesso connesse alla
gestione del personale, che hanno finito per convincere davvero che quando un
ente acquisisca un dipendente tramite mobilità non lo assuma (solo perché la
mobilità è finanziariamente neutra), oppure prevedano una quantità
semplicemente pazzesca di verifiche formali ed adempimenti solo per effettuare
un’assunzione; oppure nella normativa sui contratti pubblici o sulle società
partecipate. Tutti temi affrontati, purtroppo senza nessuna concretezza e con
risultati oggettivamente scarsi, dai governi degli ultimi 15 almeno.
Altre idee potrebbero essere
proposte. Ma, un decreto “concretezza” che almeno si ponesse l’obiettivo di
centrare questi semplici risultati si rivelerebbe davvero utile ed in
controtendenza rispetto ad un quarto di secolo di mortificazione della PA.
Sperare forse è troppo. Ma non costa nulla.
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
RispondiEliminaD'accordo (quasi) su tutto, ma passare dal "controllo collaborativo" della Corte dei conti ad organi di controllo che rispondano solo all’Anac (magari simile ai protocolli di "vigilanza collaborativa" così di moda all'Anac quanto inutili e inefficienti) non mi pare il massimo. Anac ha bisogno della propria soppressione non di altri compiti che ha dimostrato di non essere in grado di svolgere.
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