Il problema, però, sta nei dettagli e nella coerenza delle azioni. L'emergenza Covid-19 crea anche un immane problema per le entrate dei comuni. Hanno ottenuto 3 miliardi, ne chiedono almeno altri 3 a gran voce, ogni giorno, levando alti lamenti alla situazione delle proprie finanze.
C'è, allora, da chiedersi quale senso abbiano le previsioni degli articoli 54-56 del d.l. 34/2020, volti ad abilitare proprio i comuni, a valere su risorse proprie, a prevedere aiuti finanziari sotto forma di sussidi diretti, sgravi fiscali, garanzie di vario genere.
Come è possibile che tutto si tenga? Come è possibile che mentre osserva l'oggettivo picco delle entrate tributarie e patrimoniale dei comuni, talmente oggettivo che lo Stato prova a ripianarlo, allo stesso tempo, violando il riparto delle competenze amministrative (gli interventi per le imprese sono di competenza del Governo e in parte delle regioni) si inducono i comuni ad erogare contributi alle imprese, coi soldi che, però, non hanno e che chiedono allo Stato. Non è più lineare e corretto che ci pensi lo Stato? Non è assurdo che i comuni per erogare i 400 milioni dei buoni alimentari abbiano chiesto ai destinatari i requisiti più inutili ed improbabili (come anche dichiarazioni sulle idee politiche o la residenza), si stiano lanciando nel dare contributi alle imprese, come fosse una moda, senza fondi e senza chiedere nemmeno un requisito, senza nemmeno curarsi se già abbiano ottenuto sovvenzioni di altro genere?
Il d.l. 34/2020 doveva essere quello del rilancio. Di certo, non è il decreto che mette finalmente la parola fine alla confusione delle competenze ed un freno all'interventismo dei sindaci, troppo spesso generatore di spesa pubblica duplicata e inutile.
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