Ogni volta che si prospetta una riforma che concerna anche i metodi di selezione di imprese, destinatari di contributi o dipendenti, si manifesta sempre qualche voce che perora la causa delle “migliori metodologie utilizzate nel settore privato”.
E’, questa volta, il turno di Vincenzo Luciani, che su Il Sole 24 Ore, nell’articolo “La selezione dei migliori nella Pa inizia da commissari competenti e di valore”, muove questo suggerimento, alla luce della considerazione che “Per selezionare i migliori non basta essere esperti solo nelle aree oggetto delle procedure, ma occorre conoscere le tecniche di selezione, prendendo come modello le migliori metodologie utilizzate nel settore privato”.
Finchè le riforme della PA saranno condizionate dall’incombente tensione ad estendere al mondo del lavoro e dell’organizzazione pubblica strumenti operativi di un mondo totalmente diverso, in modo sostanzialmente acritico e basato, per altro, su modelli teorici che raramente nel mondo privato in effetti attecchiscono, si continuerà negli stessi errori metodologici. Che condannano, poi, le riforme, al fallimento.
Non si riesce a capire che la missione del sistema pubblico è totalmente diversa da quella del privato.
L’insistenza sulle “competenze trasversali”, come se l’analisi di questi elementi fosse la panacea, è totalmente fuori luogo.
Non che dette competenze non servano, anzi: ben venga la possibilità di analizzarle e pesarle adeguatamente, ai fini della costituzione del rapporto di lavoro.
Tuttavia, moltissime delle competenze operative nella PA, a normativa invariata, sono comunque fortemente verticali.
Vi sono dei versanti che non possono essere trascurati. Nel caso di assunzioni in amministrazioni come ministeri, regioni, comuni, province, non possono non essere chieste nozioni sull’organizzazione, competenze e funzionamento degli organi: il dipendente pubblico non può non sapere come funziona la macchina. Non è nozionismo: è un investimento necessario nella fluidità organizzativa, visto che in generale il dipendente per altro viene assunto per tempi lunghi. Non può certo essere causa di blocco del sistema perché il suo compito invece di essere uno snodo, divenga un blocco perché non sa dove si trova e come procedere.
Vi sono, poi, competenze anch’esse “trasversali” ma necessarie e specializzate: il dipendente pubblico non può non avere cognizioni di alcune disposizioni della Costituzione; deve conoscere bene le principali regole dell’impianto normativo del rapporto di lavoro, molto difformi da quelle del sistema privato. Deve conoscere, imprescindibilmente ed in maniera per nulla sommaria o basica, le regole sul procedimento amministrativo, perché da esse dipende la correttezza e la speditezza dell’azione. Anche i super tecnici debbono forzarsi a conoscere queste regole, che corrisponderebbero, un un’azienda, alle disposizioni organizzative specifiche da seguire. Anche un super tecnico può essere destinatario di una domanda di accesso agli atti: non può non avere l’idea della differenza tra accesso documentale, accesso civico ed accesso civico generalizzato. Vi è poi tutta la disciplina della trasparenza e dell’anticorruzione, anch’essa fondamentale, come, del resto, quella della contabilità di Stato o della contabilità specifica dell’ente, visto che in ogni caso l’attività è partecipe di modalità di gestione di fasi della spesa. Una gestione, quella pubblica, anch’essa totalmente ignota al privato e sideralmente difforme dalle concezioni ordinarie di chi vive nel sistema privato.
Tutte queste cognizioni potrebbero non essere considerate necessarie e sostituite dalle sole soft skills, solo a condizione che ogni amministrazione disponesse di un apparato amministrativo fortissimo, tale da intervenire in maniera sussidiaria al posto del soggetto operante.
Ma, nell’attuale sistema definito dalle norme, a partire dalla legge 241/1990, ciò non è nemmeno possibile: il responsabile del procedimento non è, purtroppo, solo un project manager: deve essere anche colui che assicura anche il fluire corretto proprio delle procedure, che deve conoscere anche risalendo ai principi. E perfino i tecnici, o, per essere più chiari, coloro che hanno titoli di studi non giuridici o economici, dunque ingegneri, architetti, psicologi, e quant’altro, se posti alla direzione operativa gestiscono spese, acquisti e dunque appalti: qui l’altro Moloch normativo che difficilmente può essere trascurato.
Queste cognizioni vanno conosciute prima della costituzione del rapporto di lavoro, perché sono la cassetta degli attrezzi basilare, senza la quale nessuna scelta sarebbe efficace.
C’è un certo rischio di nozionismo? Certo. Ma, non lo si risolve trasformando il concorso in una selezione colloquiale, come quella che si utilizza in generale nel privato.
Un elemento che forse non risulta chiaro è che i privati, in generale (non sempre), quando effettuano le loro selezioni non pongono in essere procedure “competitive”, consistenti cioè in un confronto di ciascun “concorrente” con tutti gli altri, allo scopo di selezionare quale sia il migliore nell’ambito di una graduatoria (id est: concorso).
I privati selezionano ciascun candidato a sé, senza alcun confronto con altri, senza dover formalizzare e spiegare le ragioni della valutazione che ne danno, senza formare alcuna graduatoria, senza nemmeno dover quindi spiegare a qualcuno che è stato scelto qualcun altro.
Non solo. I privati hanno alcune possibili flessibilità che consentono di valutare, poi, sul campo l’analisi predittiva delle competenze trasversali: tirocini, somministrazione a tempo determinato, assunzioni inizialmente con contratti a termine. Strumenti, questi, dei quali la PA è praticamente priva e che consentono, sul campo, di correggere l’eventuale errore valutativo.
In effetti, la PA potrebbe disporre di un modo utile per verificare sul campo le competenze trasversali che siano state anche oggetto di valutazione nella selezione. Si tratta dei contratti a valenza anche formativa.
Uno è esistente, ma utilizzato pochissimo: il contratto di formazione e lavoro. L’altro, è solo previsto in astratto dal d.lgs 81/2015 e prima ancora dal d.lgs 167/201: l’apprendistato. Mai visti i decreti attuativi che lo sbloccherebbero anche nella PA (per altro, l’apprendistato è utilizzato pochissimo anche nel settore privato, proprio perché “fagocitato” dalle forme di flessibilità negli ingressi elencate sommariamente prima).
Piuttosto che cercare, come troppo spesso avviene, la pietra filosofale, è necessario essere consapevoli del quadro concreto, lasciando stare i voli pindarici.
E meglio ancora sarebbe anche abbandonare l’idea che le riforme della PA siano l’occasione per creare nicchie di piccole lobby. Sempre l’Autore, nell’articolo citato, suggerisce “la costituzione di un albo che, diviso per materie, preveda l'iscrizione di soggetti esperti nell'impiego delle tecniche di selezione, imponendo periodiche fasi formative per insegnare e aggiornare le procedure”.
Questo intento lo si è già visto, identico, nell’ambito degli appalti. Gli ordini professionali hanno parecchio insistito, a suo tempo, perché si obbligassero le stazioni appaltanti a selezionare i commissari di gara extra ufficio, attingendoli da un albo. E’ stata un’idea fallimentare. L’albo è stato poco attrattivo, i decreti attuativi hanno previsto tariffe semplicemente inconcepibili, per quanto sono care, ed è sospeso da sempre. Perché, allora, la coazione a ripetere sempre esperienze fallimentari?
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