Il Ministero della Funzione Pubblica ha fatto conoscere ai media i contenuti della bozza delle Linee Guida, previste dall’articolo 1, comma 6, del DM 8.10.2021, per disciplinare il lavoro agile nella pubblica amministrazione.
Per fare un quadro (quasi) completo delle fonti poste a regolamentare l’istituto, si elenca quanto segue:
articolo 14 della legge 124/2015 e successive modifiche e integrazioni;
articolo 18 e seguenti della legge 81/2017;
Linee Guida di cui alla direttiva 3.7.2017, n. 3/2017;
articolo 87, comma 1, del d.l. 18/2020, convertito in legge 27/2020, e successive modifiche e integrazioni;
Decreto Ministeriale 19.10.2020;
Dpcm 23.9.2021;
DM 8.10.2021
emanande Linee Guida.
E mancano ancora all’appello i futuri contratti collettivi nazionali di lavoro, che a loro volta regolamenteranno la materia.
Insomma, un diluvio di norme, per altro di differenziata natura e forza cogente, per regolamentare uno stesso istituto: non un segno buonissimo di chiarezza, trasparenza e solidità normativa e regolatrice. Il pericolo di iper regolazione di cui parlava il professor Pietro Ichino sembra si sia concretizzato pienamente.
E’ un bene, o un male? Certo, ai fini della chiarezza e della linearità, un così ampio e vario insieme di norme non aiuta. Soprattutto, l’eccesso di regolazione dirigista evidenzia una scarsa fiducia nell’autonomia organizzative delle amministrazioni. E fa insorgere un altro rischio: quello di discipline poste, più che ad omogeneizzare, ad omologare regolamentazioni che, invece, dovrebbero essere lasciare appunto all’autonomia, considerando che le PA sono decine di migliaia e di natura estremamente diversa tra loro per dimensioni, dotazioni, competenze e funzioni: la regolazione del lavoro agile per l’Inps è diversa da quella che occorre ad una scuola, come anche da quella di un’autorità portuale, un parco naturalistico, un museo, una prefettura, un ente locale; e tra enti locali sono diversissime le esigenze di un capoluogo come Roma o Milano, una città metropolitana o una provincia, un comune di medie dimensioni, gli oltre 7.000 comuni con meno di 5.000 abitanti.
Tutto sta nel comprendere quale sia la forza cogente di Linee Guida: si tratta di atti vincolanti, tali da qualificare come illegittimi, ed anche forieri di eventuali danni erariali, attuazioni che ad esse non si conformino in modo pedissequo? Oppure, si tratta di indirizzi generali, che appunto forniscano una “guida”, quindi uno strumento e dei parametri dei quali avvalersi per poi disciplinare in modo autonomo e non vincolato la fattispecie?
Si torna a proporre il tema, ormai delicatissimo, del proliferare di fonti di produzione sconosciute alle “preleggi”, facenti parte di un sistema di soft law introdotto in maniera forzata nell’ordinamento da qualche anno a questa parte: si pensi, oltre che alle “linee guida” all’altro ircocervo costituito dalle Faq. Su queste, la sentenza 20 luglio 2021, n. 1275 del Consiglio di Stato, Sezione I ha chiarito che esse non sono fonti giuridiche e che non sono vincolanti: solo se l’amministrazione procedente abbia ritenuto di conformarvisi, ha il dovere di restare coerente con questa scelta.
In quanto alle “linee guida”, esse costituiscono da anni un problema interpretativo ed applicativo nel mondo degli appalti, ove sono approdate come fonte enunciata e disciplinata dal codice dei contratti, d.lgs 50/2016, e da esso individuate come di due nature: quelle vincolanti e quelle non vincolanti. Tuttavia, la malsicura formulazione delle norme ha scatenato un contenzioso infinito sull’esatta configurazione e forza cogente delle linee guida, sia vincolanti, sia non vincolanti, nel tentativo impossibile di rispondere alle domande quanto vincolanti siano le linee guida vincolanti e quanto vincolanti possano comunque essere le linee guida non vincolanti.
Nel caso del lavoro agile, non risultano disposizioni di legge che rinviino ad una soft law ed a linee guida, né è data una previsione specifica sulla loro possibile forza vincolante.
Si osserva, per altro, che la bozza fin qui circolata delle linee guida espressamente afferma che esse sono adottate allo scopo di anticipare “in parte quello che sarà previsto nei CCNL per tutti i comparti”.
Viene, insomma, introdotta l’inusitata fonte giuridica “a scadenza”, tesa ad anticipare i contenuti di una fonte, per altro, di natura completamente diversa e incompatibile. Infatti, le linee guida sono necessariamente di provenienza unilaterale del datore pubblico; i Ccnl, invece, frutto dell’autonomia negoziale e del consenso con le organizzazioni sindacali.
E’ pur vero che l’articolo 1, comma 6, del DM 8.10.2021 indica che le linee guida per le misure previste dal comma 3, lettere f) e h) (cioè per i contenuti dell’accordo individuale e per le misure di carattere sanitario), “sono oggetto di previo confronto con le organizzazioni sindacali”. Ma, il previo confronto non sostituisce la contrattazione, né le linee guida sostituiscono i contratti. Ed è una buona ventura che il Governo non subisca contestazioni dalle organizzazioni sindacali per un metodo manifestamente contrapposto alla contrattazione, tendente ad anticipare con atto amministrativo contenuti negoziali e destinato a orientare e vincolare questi ultimi.
Il Governo, probabilmente si è mosso in questa direzione, una volta maturata – trascorsa l’estate 2021 – la consapevolezza dell’impossibilità di raggiungere l’obiettivo indicato nell’articolo 263 del d.l. 34/2021, come da ultimo novellato dal d.l. 52/2021: sottoscrivere (ben 8) contratti collettivi nazionali di lavoro entro il 31.12.2021, coi quali appunto disciplinare il lavoro agile. Solo che utilizzare lo strumento delle linee guida al posto dei Ccnl perché ci si accorge in ritardo dell’impossibilità di sottoscriverli nei tempi immaginati, non appare oggettivamente motivazione convincente per, da un lato, modificare clamorosamente l’assetto della regolazione previsto dalla legge (l’articolo 263 citato demanda, infatti, solo alla contrattazione collettiva la regolazione del lavoro agile e non cita per nulla linee guida), dall’altro complicare l’assetto dell’ordinamento giuridico, introducendo l’ennesima fonte di produzione, per altro, lo si ribadisce, “a scadenza”.
Nel merito, le emanande linee guida presentano due punti di interesse. Il primo, concerne la previsione di condizioni ulteriori rispetto a quelle già poste dal DM 8.10.2021 per attivare lo smart working.
In particolare, ci si riferisce alle “condizioni tecnologiche(1)”. Si evidenzia che quel che fin qui è apparso come una possibilità, diviene un obbligo: l’amministrazione “deve fornire il lavoratore di idonea dotazione tecnologica”. Il tempo del lavoro agile prendendo a prestito pc o smartphone personale dei dipendenti, come avvenuto nella fase emergenziale, è finito. Il lavoro agile può essere attivato solo in funzione dell’investimento di ciascun ente della strumentazione tecnologica necessaria: l’individuazione di tale strumentazione (solo pc? Anche smartphone? Anche dei router?) pare spetti alla singola PA. D’altra parte, ragioni di sicurezza e privacy impediscono che uno strumento di lavoro possa essere condiviso, da un dipendente, con un altro membro della famiglia, per altro esponendo la macchina e anche la rete alla quale si connetta a virus o hackeraggi.
Sul cellulare di servizio, la bozza di linee guida è possibilista: prevede che “se” il dipendente ne abbia uno (dunque, come rilevato prima, spetta a ciascun ente valutare se sia necessario o meno) sarà consentito l’inoltro delle chiamate dall’interno dell’ufficio a detto cellulare.
Più problematiche sono le scarne indicazioni sulle connessioni. Da un lato, la bozza afferma che l’accesso agli applicativi di servizio è ammesso solo utilizzando “esclusivamente la connessione Internet fornita dal datore di lavoro”. La previsione introduce, dunque, un altro obbligo tecnologico “fisico”: assegnare al dipendente una connessione internet dedicata. Come? Con un router? Ragioni di sicurezza escluderebbero un minirouter con sim. Ma, se la rete fosse fornita solo attraverso l’aggancio a cavi fisici, lo smart working sarebbe possibile solo in limitati luoghi nei quali tali connessioni fisiche siano possibili. Di fatto, lo smart working risulterebbe impossibile e si potrebbe ripiegare solo nel telelavoro da casa o nel coworking, di cui tratta il punto 7 della bozza di linee guida.
Più propriamente, la bozza poi specifica che le applicazioni debbono essere raggiunte mediante:
cloud, invia principale;
oppure, in via subordinata:
Vpn;
Vdi.
La Vpn è probabilmente il sistema meno indicato. E’ una rete privata virtuale, ma aggredibile: l’ingresso di un hacker attraverso un punto della rete, che può essere anche un pc connesso, poi inonda la rete stessa.
Clud e Vdi (cioè i desktop virtuali) appaiono maggiormente sicuri, perché in entrambi i casi in sostanza si annulla il rischio che dalla macchina fisica di connessione si entri nella rete. Infatti, la Vdi segmenta i server in “macchine virtuali”, sulle quali risiedono “i desktop virtuali” dei dipendenti, ai quali è possibile accedere da remoto, con qualsiasi dispositivo; i dati risiedono sul server invece che sul dispositivo client dell'utente finale. Il Cloud è, piuttosto, una metodologia di distribuzione in una rete complessa di una serie di risorse, tra cui server, connessioni ed applicativi, ai quali accedere on demand utilizzando risorse variabili a seconda del tipo di ruolo e attività. Anche in questo caso i dati non risiedono nel dispositivo utilizzato per l’accesso e risulta molto complicato, quindi, trovare un sistema per intromissioni indebite.
Ma, al di là dei dettagli tecnici (che comunque condizionano l’attivazione dello smart working: in assenza di queste tre alternative, le PA non risulteranno legittimate ad attivarlo), se gli enti dispongono in particolare di cloud o Vdi, non si vede quale sia la ratio della fornitura di una connessione internet specifica.
A latere, il punto 2 della bozza evidenzia che “In nessun caso può essere utilizzato una utenza personale o domestica del dipendente per le ordinarie attività di servizio”. Dunque, agli applicativi si potrà accedere soltanto e solo una volta nel cloud o nella Cpn o Vdi. Vale lo stesso anche per le mail? Sembrerebbe di sì. Ma, allora, come operare con gli smartphone?
Il secondo aspetto di interesse è il già citato punto 7. Esso, nei fatti, regola il “lavoro da remoto”, ma di fatto altro non è se non un telelavoro 2.0, in forma di lavoro agile svolto esclusivamente da casa (o in coworking da una sede diversa da quella dell’ente, ma comunque fissa).
E’ legittimo che le linee guida disciplinino, aggiornandolo, il telelavoro, come si chiede, rispondendo affermativamente, il presidente dell’Aran? Certo che lo è. E bene si farà, anche con i contratti collettivi, ad aggiornare una regolamentazione vecchia di anni.
Pare, tuttavia, certamente rimarchevole la circostanza che l’attuale Ministro della funzione pubblica abbia inteso fortemente, e sotto molti aspetti con argomentazioni inconfutabili, chiudere col lavoro agile inteso come “lavoro da casa” e “senza obiettivi”, mentre contestualmente si lavora per aggiornare proprio il “lavoro da casa”, per altro privo della connotazione propria del lavoro agile, consistente, cioè, nella predeterminazione di obiettivi specifici, sì da modificare l’obbligazione del lavoratore, che si trasforma in una obbligazione prevalentemente da risultato, a fronte dell’autonomia operativa e dell’assenza di una sede precisa ed un segmento orario definito di lavoro.
Il “il lavoro da remoto con vincolo di tempo” come la bozza delle linee guida definisce efficacemente questo telelavoro 2.0, invece, non fa altro che considerare il lavoro a casa (o in sede fissa in coworking), come “modificazione del luogo di adempimento della prestazione lavorativa, che comporta la effettuazione della prestazione in luogo idoneo e diverso dalla sede dell'ufficio al quale il dipendente è assegnato”. Dunque, mancano del lavoro agile la smaterializzazione del luogo e dell’orario e la necessaria fissazione di obiettivi da raggiungere. Le condizioni tecnologiche per attivare questo telelavoro 2.0 saranno comunque le stesse richieste per il lavoro agile.
(1)“• Si deve fornire il lavoratore di idonea dotazione tecnologica.
• Per accedere alle applicazioni del proprio ente può essere utilizzata esclusivamente la connessione Internet fornita dal datore di lavoro.
• Se il dipendente ha un cellulare di servizio, è possibile inoltrare le chiamate dall’interno telefonico del proprio ufficio sul cellulare di lavoro.
• L’amministrazione deve prevedere apposite modalità per consentire la raggiungibilità delle proprie applicazioni da remoto. Se le applicazioni dell’ente sono raggiungibili da remoto, ovvero sono in cloud, il dipendente può accedere tranquillamente da casa ai propri principali strumenti di lavoro. Alternativamente si può ricorrere all’attivazione di una VPN (Virtual Private Network, una rete privata virtuale che garantisce privacy, anonimato e sicurezza) verso l’ente, oppure ad accessi in desktop remoto ai server. Inoltre, l’amministrazione, dovrà prevedere sistemi gestionali e sistema di protocollo raggiungibili da remoto per consentire la gestione in ingresso e in uscita di documenti e istanza, per la ricerca della documentazione, etc.”.
Dott. Oliveri potrebbe indicare il numero della sentenza del Consiglio di Stato sulle linee guida corretta? La n. 1275/2021 non è attinente. Grazie
RispondiEliminaRiguarda le Faq
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