domenica 2 gennaio 2022

La soggezione dei funzionari alla politica come giustificazione della riduzione del danno erariale – I danni devastanti dello spoil system (altro che paura della firma)

 La sostanziale eliminazione di controlli preventivi di legittimità da parte di autorità terze e la diffusione estrema dello spoil system o, comunque, la durata precaria degli incarichi di vertice, connessi alla contingente maggioranza, hanno ormai toccato l’acme dei paradossi e della dannosità per la convivenza civile.

Ne è prova la sentenza della Corte dei conti, Sezione III giurisdizionale centrale d’appello 15 dicembre 2021, n. 603. Una pronuncia volta a confermare la corretta applicazione del potere di riduzione del risarcimento del danno erariale da parte del giudice di prime cure, riduzione connessa alla “posizione di soggezione, imbarazzo, disagio e dipendenza” che un funzionario comunale possa avere nei confronti del sindaco che gli chiede di adottare un atto illegittimo e causa di danno erariale.

La sentenza certifica indirettamente una situazione in realtà nota a tutti: il sistema di assegnazione degli incarichi di direzione delle strutture amministrative, fondato su provvedimenti a tempo determinato adottati dagli organi di governo, crea una deleteria precarizzazione di detti vertici, tale da assoggettarli alle volontà dell’organo dotato del potere di conferire, ma anche revocare gli incarichi di vertice, ed annullarne ogni obiettività e capacità di agire con autonomia, nel perseguimento del fine che dovrebbe essere solo ed esclusivamente l’interesse pubblico.

Una circostanza di una gravità enorme, che emerge da una vicenda giudiziaria che potrebbe apparire meramente bagatellare, se non fosse, invece, semplicemente la punta di un immenso iceberg, composto da migliaia e migliaia di violazioni normative e danni all’erario dovuti esattamente a questo perverso rapporto tra politica e apparto amministrativo, creato sciaguratamente negli anni ’90.

Per comprendere meglio di cosa si stia parlano, occorre riassumere brevemente i fatti da cui è scaturita la controversia e la decisione della Sezione di appello.

Il sindaco pro tempore di un comune venne coinvolto in alcuni procedimenti penali, dai quali risultò assolto, ma non in tutti con formula assolutoria piena. All’epoca, non erano ancora vigenti le norme (introdotte nel 2015) poste a fondare il rimborso delle spese legali per gli amministratori locali.

Nonostante ciò, il sindaco chiese, evidentemente con risolutezza, al funzionario posto al vertice dei servizi amministrativi di adottare comunque il provvedimento di liquidazione delle spese legai; tale funzionario adottò il provvedimento e l’altro funzionario di vertice preposto alla direzione degli uffici finanziari appose il visto di regolarità contabile sul provvedimento, senza eccepire nulla.

La Procura della corte dei conti, quindi, appreso l’evento attivò il procedimento giurisdizionale che in primo grado si concluse con la condanna dei due funzionari al risarcimento del danno erariale, dovuto ad un esborso non ammesso, all’epoca, dalla legge. Ma, il giudice di primo grado adottò il potere riduttivo, chiedendo quindi una somma risarcitoria inferiore all’importo complessivo del danno accertato “avuto riguardo alla circostanza che la richiesta di rimborso è stata avanzata alla convenuta direttamente dal sindaco in carica, organo di vertice dell'Amministrazione comunale ex art. 50 del Tuel, nonchè titolare dei poteri di nomina e revoca dei responsabili degli uffici e servizi (artt. 50, comma 10 e 109 delTuel), tra i quali figurava la convenuta”.

Una sentenza singolare e di per sé rappresentativa appunto della gravissima situazione che coinvolge non solo le amministrazioni locali, ma l’intero apparato pubblico. E’ come l’arrendevole presa d’atto di un sistema nel quale i titolari dei poteri di nomina e revoca dei dirigenti e funzionari preposti alla direzione degli uffici possono pretendere, sulla base proprio di tale potere, l’adozione di provvedimenti illegittimi e dannosi per le casse pubbliche, risultando normale e anzi meritevole di riduzione del danno arrecato, la soggezione dei vertici amministrativi che per non porsi in contrasto con chi li incarica adottano atti contrari a legge e all’interesse pubblico.

Alla Procura contabile non è sfuggita la singolarità della decisione del giudice di primo grado. Nella parte narrativa della sentenza di appello, i giudici evidenziano appunto che l’accusa “ha ritenuto che la motivazione della riduzione del quantum debeatur alla luce della posizione ricoperta dal soggetto che ha avanzato, nei confronti della condannata, la pretesa di pagamento, poi riconosciuta illecita, possa far immaginare una sorta di metus potestatis subito dalla dirigente […] da parte dell’organo politico, così paventando una tacita minaccia di un male ingiusto che la stessa avrebbe dovuto, altrimenti, subire”.

La Sezione di appello, però, non ha ritenuto di accogliere il gravame proposto dalla Procura, sulla base di un ragionamento che potrebbe apparire specioso, ma fondato su questioni specificamente procedurali.

Non ha accolto la richiesta della procura, ritenendo che il potere riduttivo fosse stato esercitato in primo grado non allo scopo di quantificare il danno, bensì per ridurreun danno previamente quantificato; quindi, il potere riduttivo “si colloca al di fuori della fattispecie illecita e dopo la qualificazione di essa”.

In parole ancora più semplici, l’esercizio del potere riduttivo non elimina l’illiceità dell’azione oggetto di condanna erariale, né la declassifica ad un fatto di minore gravità; la riduzione della condanna è esterna e diversa, quindi, rispetto al giudizio sull’illiceità ed avviene dopo la quantificazione del danno, senza quindi attenuare la fattispecie illecita.

Per la Sezione d’appello, dunque, il giudice di primo grado non ha introdotto – diversamente da quanto ritenuto dalla Procura una “esimente data dall’applicazione analogica, nel giudizio di responsabilità, della esimente data dallo “stato di necessità”, di cui all’art. 54 c.p., a mente del quale “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo. (….) La disposizione della prima parte di questo articolo si applica anche se lo stato di necessità è determinato dall'altrui minaccia; ma, in tal caso, del fatto commesso dalla persona minacciata risponde chi l'ha costretta a commetterlo”.

Sul piano strettissimamente giuridico e procedurale la decisione della Sezione d’appello è fondata e si regge anche su un filone interpretativo solido.

Resta il fatto che sul piano del merito e della pedestre valutazione di quel che quotidianamente accade nelle amministrazioni, la vicenda giudiziaria nel suo complesso è sconcertante ed inquietante al tempo stesso.

Come evidenziato dalla sentenza di appello, “la Procura appellante, infatti, ha ritenuto che una simile motivazione per la riduzione del danno richiesto in pagamento rischierebbe di creare un “salvacondotto” per tutti quei comportamenti ricollegabili agli organi politici o comunque apicali, con potere di nomina, per le eventuali azioni illegittime poste in essere dai sottoposti, su loro minaccia ed in assenza di una conseguente sanzione”.

Si tratta di una questione di fondamentale rilevanza. Chi conosce a fondo il mondo delle amministrazioni è perfettamente al corrente che ogni giorno, presso le tante migliaia di amministrazioni, accade esattamente quanto raccontato dalle sentenze ricordare e paventato dalla Procura contabile: gli organi politici insistono continuamente nel chiedere ai dirigenti e funzionari di vertice atti e provvedimenti oltre il confine della legittimità, potendo contare sulla forza della pressione derivante dai poteri di conferimento e revoca degli incarichi. Una minaccia, talora implicita, talora velata, talora invece pienamente espressa, che crea continui tensioni e contrasti; pur non sempre sfociando, poi, in atti e decisioni conformi ai desiderata politici, ma illegittimi e dannosi, in ogni caso determinano un clima border line, sempre sulla soglia del danno e dell’illegittimità, sempre sul “chi vive”.

La Sezione di Appello ha finito per considerare, come evidenziato in apertura, tutto sommato questa condizione come normale e irrimediabile. Ha, infatti, evidenziato che il giudice di primo grado “ha ritenuto rilevante, ai fini della modulazione della pena al caso concreto, la posizione di soggezione, imbarazzo, disagio e dipendenza” che il funzionario può aver “umanamente vissuto al verificarsi del caso concreto, ritenendo detti elementi rilevanti ai fini di una modulazione soggettiva della pena”.

Ora, posto che ogni umana comprensione degli stati di soggezione di chiunque è cosa certamente nobile e meritoria, la domanda che si dovrebbe porre è se un ordinamento amministrativo, civile e democratico, improntato sui principi posti dalla Costituzione di buona fede, imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa, possa ammettere che al proprio interno si sia aperta, senza rimedio, una falla spaventosamente ampia, tale da consentire che i soggetti chiamati ad adottare le decisioni amministrative (quelle per effetto delle quali si spendono le risorse pubbliche finanziare con le tasse di tutti) debbano avere un “umanamente vissuto” di pressioni, minacce e precarizzazione della propria attività lavorativa.

Per mesi e mesi, negli scorsi due anni, si è parlato a vanvera di “paura della firma”, ma la questione vera, invece, è l’avventatezza nel firmare o la “paura per la mancata firma”, consistente proprio nel timore di subire ritorsioni, fino alla revoca dell’incarico, da parte dell’organo politico non “accontentato” nelle sue indicazioni.

Il risultato? Una vastissima lesione all’autonomia decisionale operativa dell’apparato amministrativo ed un rischio enorme di danni all’erario. Deve risultare chiaro che per una situazione di danno accertata in giudizio, centinaia se non migliaia di altre restano sconosciute.

Il flusso di sperperi e di mala amministrazione causato dall’immensa falla di cui si è parlato prima è incommensurabile. Come incommensurabile è anche l’effetto di decadimento della qualità complessiva delle decisioni e dell’amministrare, oltre che il danno imperituro all’immagine della PA.

Questa condizione di “soggezione, imbarazzo, disagio e dipendenza”, descritta senza remore dalla Corte dei conti, è esattamente il risultato voluto delle insensate riforme degli anni ’90 del secolo scorso. Che avrebbero trovato la loro sublimazione nella riforma Madia, per fortuna mai andata in porto, il cui scopo era l’ulteriore irrimediabile precarizzazione della dirigenza.

Nessun rimedio efficace a questa strisciante condizione di illegittimità e conflitto interno. Non lo è certo la complessa normativa anticorruzione, la legge 190/2012, il cui esito formale consiste per lo più in adempimenti formalistici, come l’adozione di piani triennali anti corruzione, il cui risultato, tuttavia, è sostanzialmente l’adozione di provvedimenti sanzionatori da parte dell’Anac nei confronti dei responsabili per vizi formali, senza alcuna concreta efficacia a garanzia della legittimità dell’azione amministrativa.

Anche perché, persino i responsabili anticorruzione nelle amministrazioni sono a loro volta soggetti alla medesima condizione di “soggezione, imbarazzo, disagio e dipendenza”, perché anch’essi nominati e revocati dagli organi di governo, cioè il controllato nomina (e revoca) il controllore.

In questi giorni è sui media la vicenda della richiesta di rinvio a giudizio avanzata dalla Procura della repubblica di Cagliari nei confronti del presidente della regione Sardegna, proprio per questioni connesse a nomine ed incarichi di dirigenti in ruoli importanti, ricadute su persone prive – a giudizio degli inquirenti – dei necessari requisiti soggettivi (fattispecie, per altro, che molto spesso si ripete nelle varie amministrazioni).

Sul Fatto Quotidiano del 2.1.2022 si riportano fatti in tutto e per tutto sovrapponibili a quelli oggetto delle sentenze della Corte dei conti di cui ci si è occupati sopra: il direttore generale del personale della regione pare fosse contrario a formulare parere favorevole alle nomine; ne conseguirono pressioni del presidente, effettuate per il tramite del suo capo di gabinetto e le concrete minacce dell’assessore al personale l’incarico non gli sarebbe stato rinnovato. Nel caso di specie, il dirigente del personale diede le dimissioni dall’incarico senza firmare il parere favorevole. Né il responsabile della prevenzione della corruzione potè essere di alcun aiuto: infatti, dopo aver espresso “perplessità” sugli incarichi, venne sostituita da un altro responsabile, per altro il dirigente che aveva sottoscritto coi due incaricati senza titoli i loro contratti di assunzione.

Fino a sentenza definitiva, nessuno può e deve essere considerato colpevole. Ma, la “corruzione” di cui si occupa la prima parte della legge 190/2012 non coincide col reato disciplinato dal codice penale: si tratta della “corruzione amministrativa”, cioè la compressione o addirittura l’annullamento del pubblico interesse, anche solo potenziale, derivante dall’adozione di provvedimenti amministrativi il cui fine concreto sia invece il perseguimento di un interesse specifico egoistico, comunque difforme dal precetto normativo.

Ora, qualsiasi azione umana è ovviamente perfettibile e soggetta ad errori e vizi: non si può certo immaginare né pretendere che l’attività amministrativa ne sia assolutamente esente, sebbene questo è quello che in astratto prevede l’articolo 97 della Costituzione, anche perché, come dispone il successivo articolo 98 della Costituzione stessa, i dipendenti pubblici sono alle dipendenze dell’intera Nazione e non, quindi, di una specifica maggioranza temporaneamente al governo.

Nulla, tuttavia, da quasi 30 anni si fa per promuovere un processo di autocorrezione ed emendamento interno a tali possibili vizi, se non palliativi inefficaci, come appunto una disciplina dell’anticorruzione debolissima e formale. Ma, giungere alla cinica constatazione che la situazione di “soggezione, imbarazzo, disagio e dipendenza” dei vertici amministrativi sia qualcosa di strettamente connesso al modo di amministrare, tanto da essere fonte della riduzione del danno erariale accertato, dovrebbe far accendere quella lucetta rossa che rivela il definitivo superamento di ogni confine accettabile.

3 commenti:

  1. Dopo 25 anni si sveglia la Corte dei Conti, ma la realtà effettuale scoperta e stigmatizzata dopo 25 anni, ripeto, dalla Corte dei Conti è esattamente l'obiettivo che le sedicenti "riforme Bassanini" volevano raggiungere. Ora, cioè dopo 25 anni, se ne accorge la Corte dei Conti? E quali sono gli effetti di tale tardiva giurisprudenza?

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  3. Ha perfettamente ragione caro Olivieri, i professori ministri della funzione pubblica hanno prodotto danni incommensurabili. Purtroppo anche il buon Draghi, con la nomina del revenant R.B., ci ha messo la sua. Mai scelta fu più infelice...

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