La sostanziale eliminazione di controlli preventivi di legittimità da parte di autorità terze e la diffusione estrema dello spoil system o, comunque, la durata precaria degli incarichi di vertice, connessi alla contingente maggioranza, hanno ormai toccato l’acme dei paradossi e della dannosità per la convivenza civile.
Ne è prova la sentenza della
Corte dei conti, Sezione III giurisdizionale centrale d’appello 15 dicembre
2021, n. 603. Una pronuncia volta a confermare la corretta applicazione del
potere di riduzione del risarcimento del danno erariale da parte del giudice di
prime cure, riduzione connessa alla “posizione di soggezione, imbarazzo,
disagio e dipendenza” che un funzionario comunale possa avere nei
confronti del sindaco che gli chiede di adottare un atto illegittimo e causa di
danno erariale.
La sentenza certifica
indirettamente una situazione in realtà nota a tutti: il sistema di
assegnazione degli incarichi di direzione delle strutture amministrative,
fondato su provvedimenti a tempo determinato adottati dagli organi di governo, crea
una deleteria precarizzazione di detti vertici, tale da assoggettarli alle
volontà dell’organo dotato del potere di conferire, ma anche revocare gli
incarichi di vertice, ed annullarne ogni obiettività e capacità di agire con
autonomia, nel perseguimento del fine che dovrebbe essere solo ed
esclusivamente l’interesse pubblico.
Una circostanza di una gravità enorme,
che emerge da una vicenda giudiziaria che potrebbe apparire meramente bagatellare,
se non fosse, invece, semplicemente la punta di un immenso iceberg, composto da
migliaia e migliaia di violazioni normative e danni all’erario dovuti
esattamente a questo perverso rapporto tra politica e apparto amministrativo,
creato sciaguratamente negli anni ’90.
Per comprendere meglio di cosa
si stia parlano, occorre riassumere brevemente i fatti da cui è scaturita la
controversia e la decisione della Sezione di appello.
Il sindaco pro tempore di un
comune venne coinvolto in alcuni procedimenti penali, dai quali risultò
assolto, ma non in tutti con formula assolutoria piena. All’epoca, non erano
ancora vigenti le norme (introdotte nel 2015) poste a fondare il rimborso delle
spese legali per gli amministratori locali.
Nonostante ciò, il sindaco
chiese, evidentemente con risolutezza, al funzionario posto al vertice dei
servizi amministrativi di adottare comunque il provvedimento di liquidazione
delle spese legai; tale funzionario adottò il provvedimento e l’altro
funzionario di vertice preposto alla direzione degli uffici finanziari appose
il visto di regolarità contabile sul provvedimento, senza eccepire nulla.
La Procura della corte dei
conti, quindi, appreso l’evento attivò il procedimento giurisdizionale che in
primo grado si concluse con la condanna dei due funzionari al risarcimento del
danno erariale, dovuto ad un esborso non ammesso, all’epoca, dalla legge. Ma, il
giudice di primo grado adottò il potere riduttivo, chiedendo quindi una somma
risarcitoria inferiore all’importo complessivo del danno accertato “avuto
riguardo alla circostanza che la richiesta di rimborso è stata avanzata alla
convenuta direttamente dal sindaco in carica, organo di vertice dell'Amministrazione
comunale ex art. 50 del Tuel, nonchè titolare dei poteri di nomina e revoca
dei responsabili degli uffici e servizi (artt. 50, comma 10 e 109 delTuel),
tra i quali figurava la convenuta”.
Una sentenza singolare e di per sé
rappresentativa appunto della gravissima situazione che coinvolge non solo le
amministrazioni locali, ma l’intero apparato pubblico. E’ come l’arrendevole
presa d’atto di un sistema nel quale i titolari dei poteri di nomina e revoca
dei dirigenti e funzionari preposti alla direzione degli uffici possono pretendere,
sulla base proprio di tale potere, l’adozione di provvedimenti illegittimi e
dannosi per le casse pubbliche, risultando normale e anzi meritevole di
riduzione del danno arrecato, la soggezione dei vertici amministrativi che per
non porsi in contrasto con chi li incarica adottano atti contrari a legge e all’interesse
pubblico.
Alla Procura contabile non è
sfuggita la singolarità della decisione del giudice di primo grado. Nella parte
narrativa della sentenza di appello, i giudici evidenziano appunto che l’accusa
“ha ritenuto che la motivazione della riduzione del quantum debeatur alla
luce della posizione ricoperta dal soggetto che ha avanzato, nei confronti
della condannata, la pretesa di pagamento, poi riconosciuta illecita, possa
far immaginare una sorta di metus potestatis subito dalla dirigente […] da
parte dell’organo politico, così paventando una tacita minaccia di un male
ingiusto che la stessa avrebbe dovuto, altrimenti, subire”.
La Sezione di appello, però, non
ha ritenuto di accogliere il gravame proposto dalla Procura, sulla base di un
ragionamento che potrebbe apparire specioso, ma fondato su questioni
specificamente procedurali.
Non ha accolto la richiesta della
procura, ritenendo che il potere riduttivo fosse stato esercitato in primo
grado non allo scopo di quantificare il danno, bensì per ridurreun danno
previamente quantificato; quindi, il potere riduttivo “si colloca al di fuori
della fattispecie illecita e dopo la qualificazione di essa”.
In parole ancora più semplici, l’esercizio
del potere riduttivo non elimina l’illiceità dell’azione oggetto di condanna
erariale, né la declassifica ad un fatto di minore gravità; la riduzione della
condanna è esterna e diversa, quindi, rispetto al giudizio sull’illiceità ed
avviene dopo la quantificazione del danno, senza quindi attenuare la
fattispecie illecita.
Per la Sezione d’appello, dunque,
il giudice di primo grado non ha introdotto – diversamente da quanto ritenuto
dalla Procura una “esimente data dall’applicazione analogica, nel giudizio
di responsabilità, della esimente data dallo “stato di necessità”, di cui all’art.
54 c.p., a mente del quale “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi
stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di
un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né
altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo. (….)
La disposizione della prima parte di questo articolo si applica anche se lo
stato di necessità è determinato dall'altrui minaccia; ma, in tal caso, del
fatto commesso dalla persona minacciata risponde chi l'ha costretta a
commetterlo”.
Sul piano strettissimamente
giuridico e procedurale la decisione della Sezione d’appello è fondata e si
regge anche su un filone interpretativo solido.
Resta il fatto che sul piano del
merito e della pedestre valutazione di quel che quotidianamente accade nelle
amministrazioni, la vicenda giudiziaria nel suo complesso è sconcertante ed
inquietante al tempo stesso.
Come evidenziato dalla sentenza
di appello, “la Procura appellante, infatti, ha ritenuto che una simile
motivazione per la riduzione del danno richiesto in pagamento rischierebbe di
creare un “salvacondotto” per tutti quei comportamenti ricollegabili agli
organi politici o comunque apicali, con potere di nomina, per le eventuali
azioni illegittime poste in essere dai sottoposti, su loro minaccia ed in
assenza di una conseguente sanzione”.
Si tratta di una questione di
fondamentale rilevanza. Chi conosce a fondo il mondo delle amministrazioni è
perfettamente al corrente che ogni giorno, presso le tante migliaia di
amministrazioni, accade esattamente quanto raccontato dalle sentenze ricordare
e paventato dalla Procura contabile: gli organi politici insistono continuamente
nel chiedere ai dirigenti e funzionari di vertice atti e provvedimenti oltre il
confine della legittimità, potendo contare sulla forza della pressione
derivante dai poteri di conferimento e revoca degli incarichi. Una minaccia,
talora implicita, talora velata, talora invece pienamente espressa, che crea
continui tensioni e contrasti; pur non sempre sfociando, poi, in atti e decisioni
conformi ai desiderata politici, ma illegittimi e dannosi, in ogni caso determinano
un clima border line, sempre sulla soglia del danno e dell’illegittimità,
sempre sul “chi vive”.
La Sezione di Appello ha finito
per considerare, come evidenziato in apertura, tutto sommato questa condizione
come normale e irrimediabile. Ha, infatti, evidenziato che il giudice di primo
grado “ha ritenuto rilevante, ai fini della modulazione della pena al caso
concreto, la posizione di soggezione, imbarazzo, disagio
e dipendenza” che il
funzionario può aver “umanamente vissuto al verificarsi del caso
concreto, ritenendo detti elementi rilevanti ai fini di una modulazione
soggettiva della pena”.
Ora, posto che ogni umana
comprensione degli stati di soggezione di chiunque è cosa certamente nobile e
meritoria, la domanda che si dovrebbe porre è se un ordinamento amministrativo,
civile e democratico, improntato sui principi posti dalla Costituzione di buona
fede, imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa, possa ammettere
che al proprio interno si sia aperta, senza rimedio, una falla spaventosamente
ampia, tale da consentire che i soggetti chiamati ad adottare le decisioni
amministrative (quelle per effetto delle quali si spendono le risorse pubbliche
finanziare con le tasse di tutti) debbano avere un “umanamente vissuto” di
pressioni, minacce e precarizzazione della propria attività lavorativa.
Per mesi e mesi, negli scorsi
due anni, si è parlato a vanvera di “paura della firma”, ma la questione vera,
invece, è l’avventatezza nel firmare o la “paura
per la mancata firma”, consistente proprio nel timore di subire ritorsioni,
fino alla revoca dell’incarico, da parte dell’organo politico non “accontentato”
nelle sue indicazioni.
Il risultato? Una vastissima
lesione all’autonomia decisionale operativa dell’apparato amministrativo ed un
rischio enorme di danni all’erario. Deve risultare chiaro che per una situazione
di danno accertata in giudizio, centinaia se non migliaia di altre restano
sconosciute.
Il flusso di sperperi e di mala
amministrazione causato dall’immensa falla di cui si è parlato prima è
incommensurabile. Come incommensurabile è anche l’effetto di decadimento della
qualità complessiva delle decisioni e dell’amministrare, oltre che il danno
imperituro all’immagine della PA.
Questa condizione di “soggezione,
imbarazzo, disagio e dipendenza”, descritta senza remore dalla Corte
dei conti, è esattamente il risultato voluto delle insensate riforme degli anni
’90 del secolo scorso. Che avrebbero trovato la loro sublimazione nella riforma
Madia, per fortuna mai andata in porto, il cui scopo era l’ulteriore
irrimediabile precarizzazione
della dirigenza.
Nessun rimedio efficace a questa
strisciante condizione di illegittimità e conflitto interno. Non lo è certo la
complessa normativa anticorruzione, la legge 190/2012, il cui esito formale
consiste per lo più in adempimenti formalistici, come l’adozione di piani
triennali anti corruzione, il cui risultato, tuttavia, è sostanzialmente l’adozione
di provvedimenti sanzionatori da parte dell’Anac nei confronti dei responsabili
per vizi formali, senza alcuna concreta efficacia a garanzia della legittimità
dell’azione amministrativa.
Anche perché, persino i
responsabili anticorruzione nelle amministrazioni sono a loro volta soggetti
alla medesima condizione di “soggezione, imbarazzo, disagio e dipendenza”, perché
anch’essi nominati e revocati dagli organi di governo, cioè il controllato
nomina (e revoca) il controllore.
In questi giorni è sui media la
vicenda della richiesta di rinvio a giudizio avanzata dalla Procura della
repubblica di Cagliari nei confronti del presidente della regione Sardegna,
proprio per questioni connesse a nomine ed incarichi di dirigenti in ruoli
importanti, ricadute su persone prive – a giudizio degli inquirenti – dei necessari
requisiti soggettivi (fattispecie, per altro, che molto spesso si ripete nelle
varie amministrazioni).
Sul Fatto Quotidiano del
2.1.2022 si riportano fatti in tutto e per tutto sovrapponibili a quelli
oggetto delle sentenze della Corte dei conti di cui ci si è occupati sopra: il
direttore generale del personale della regione pare fosse contrario a formulare
parere favorevole alle nomine; ne conseguirono pressioni del presidente,
effettuate per il tramite del suo capo di gabinetto e le concrete minacce dell’assessore
al personale l’incarico non gli sarebbe stato rinnovato. Nel caso di specie, il
dirigente del personale diede le dimissioni dall’incarico senza firmare il
parere favorevole. Né il responsabile della prevenzione della corruzione potè
essere di alcun aiuto: infatti, dopo aver espresso “perplessità” sugli
incarichi, venne sostituita da un altro responsabile, per altro il dirigente
che aveva sottoscritto coi due incaricati senza titoli i loro contratti di
assunzione.
Fino a sentenza definitiva, nessuno
può e deve essere considerato colpevole. Ma, la “corruzione” di cui si occupa
la prima parte della legge 190/2012 non coincide col reato disciplinato dal
codice penale: si tratta della “corruzione amministrativa”, cioè la
compressione o addirittura l’annullamento del pubblico interesse, anche solo
potenziale, derivante dall’adozione di provvedimenti amministrativi il cui fine
concreto sia invece il perseguimento di un interesse specifico egoistico,
comunque difforme dal precetto normativo.
Ora, qualsiasi azione umana è ovviamente
perfettibile e soggetta ad errori e vizi: non si può certo immaginare né pretendere
che l’attività amministrativa ne sia assolutamente esente, sebbene questo è
quello che in astratto prevede l’articolo 97 della Costituzione, anche perché,
come dispone il successivo articolo 98 della Costituzione stessa, i dipendenti
pubblici sono alle dipendenze dell’intera Nazione e non, quindi, di una
specifica maggioranza temporaneamente al governo.
Nulla, tuttavia, da quasi 30
anni si fa per promuovere un processo di autocorrezione ed emendamento interno
a tali possibili vizi, se non palliativi inefficaci, come appunto una disciplina
dell’anticorruzione debolissima e formale. Ma, giungere alla cinica
constatazione che la situazione di “soggezione, imbarazzo, disagio e dipendenza”
dei vertici amministrativi sia qualcosa di strettamente connesso al modo di
amministrare, tanto da essere fonte della riduzione del danno erariale
accertato, dovrebbe far accendere quella lucetta rossa che rivela il definitivo
superamento di ogni confine accettabile.
Dopo 25 anni si sveglia la Corte dei Conti, ma la realtà effettuale scoperta e stigmatizzata dopo 25 anni, ripeto, dalla Corte dei Conti è esattamente l'obiettivo che le sedicenti "riforme Bassanini" volevano raggiungere. Ora, cioè dopo 25 anni, se ne accorge la Corte dei Conti? E quali sono gli effetti di tale tardiva giurisprudenza?
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RispondiEliminaHa perfettamente ragione caro Olivieri, i professori ministri della funzione pubblica hanno prodotto danni incommensurabili. Purtroppo anche il buon Draghi, con la nomina del revenant R.B., ci ha messo la sua. Mai scelta fu più infelice...
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