La sentenza della Corte dei conti, sezione giurisdizionale per il Molise, 4.2.2022, n. 4, è l'ennesima che dichiara il danno erariale derivante dall'assegnazione di contributi da parte di un comune, violando le indicazioni ed i criteri disposti dalla regolamentazione comunale e dalla legge, condannando non solo sindaco e giunta per danno erariale, ma anche il segretario comunale ed il responsabile dei servizi finanziari per non aver rilevato alcun problema di legittimità all'operato.
L’atteggiamento passivo, che spesso finisce per essere complice, dei segretari comunali, dei ragionieri e dei dirigenti o funzionari, nell’adozione di provvedimenti in chiara violazione di norme e principi è da sempre visto come fonte di responsabilità erariale da parte della Corte dei conti.
Molti dirigenti e funzionari interpretano la loro funzione in modo totalmente erroneo e contrario all’impostazione ordinamentale. Ritengono, cioè, che la doverosa collaborazione istituzionale mirante all’attuazione degli obiettivi politici si attui attraverso il silenzio e la remissività sulle decisioni, anche quando esse risultino contrarie a leggi e regolamenti. Il malinteso è considerare la collaborazione come una sorta di obbligo a non frapporre ostacoli operativi, quando, al contrario, collaborare ed attuare correttamente un obiettivo politico implica l’obbligo di allestire procedure e sistemi gestionali capaci di perseguire i risultati richiesti, ma operando in modo legittimo e tale da non esporre, poi, il comune e gli amministratori a fattispecie dannose.
L’erogazione dei contributi comunali è da sempre una criticità formidabile. Infatti, la pulsione degli organi di governo va verso l’idea di attribuire le risorse pubbliche in modo definito “discrezionale”, ma in realtà del tutto arbitrario, connesso alle conoscenze personali dei destinatari o alla convinzione che i beneficiari rientrino tra l’elettorato capace, poi, di riconoscere col consenso agli eroganti la rielezione.
Proprio per questa ragione, da sempre l’articolo 12 della legge 241/1990 impone alle amministrazioni pubbliche di predeterminare criteri oggettivi e verificabili, sulla base dei quali decidere se attribuire i contributi, a chi, in quale misura e per quali motivazioni.
Troppo spesso, i regolamenti degli enti locali applicano queste previsioni in modo del tutto laconico, limitandosi a ripetere i principi della norma, senza stabilire il dettaglio dei criteri, rendendo alla fine impossibile una valutazione concreta. Altre volte, i regolamenti scendono nel dettaglio, soprattutto procedurale e documentale, ma il rispetto delle regole stabilite viene vissuto dagli organi di governo come un legaccio, un vincolo operativo alla “discrezionalità” della scelta, intollerabile: per queste ragioni, le erogazioni dei contributi avvengono in dispregio e violazione delle regole, senza che, per le ragioni viste prima, l’apparato amministrativo (del resto reso debolissimo dallo spoil system che precarizza e condiziona i segretari comunali, nonchè dal sistema degli incarichi ai dirigenti e funzionari, molto condizionato dalle decisioni dei sindaci) evidenzi la necessità di rispettare i vincoli procedurali posti, che sono poi una garanzia di legittimità, anche della spesa.
Si dimentica, inoltre, che la materia dell’erogazione dei contributi pubblici è considerata a particolare rischio di corruzione dall’articolo 1, comma 16, lettera c), della legge 190/2012 (e sgomenta la circostanza che un segretario comunale, per legge responsabile della prevenzione della corruzione non intervenga su erogazioni di contributi in violazione delle norme regolamentari). Il rischio non è attenuato e regolato solo adempiendo agli obblighi speciali di pubblicazione, posti dagli articoli 26 e 27 del d.lgs 33/2013, che hanno come fine solo la trasparenza, uno solo tra gli strumenti posti a limitare i rischi connessi. La combinazione tra le regole anticorruzione e le previgenti disposizioni contenute nell’articolo 12 della legge 241/1990 dovrebbero lasciar intendere che l’assegnazione dei contributi è un processo non dissimile a quello degli appalti. L’amministrazione dovrebbe evidenziare a priori le aree di interesse, i fini di interesse pubblico perseguibili con la collaborazione dei soggetti privati, i criteri per evidenziare l’effettiva sussistenza di un interesse pubblico connesso all’iniziativa del privato, i modi per selezionare i progetti, gli strumenti per stabilire gli importi.
Una regolamentazione corretta e completa della materia deve, poi, portare alla conclusione inevitabile, che però gli organi di governo non accettano mai, perchè si sentirebbero privati di una funzione “politica” da essi reputata irrinunciabile: la competenza ad erogare i contributi non è degli organi di governo, ma dell’apparato.
Sul punto, è chiarissimo l’articolo 4 del d.lgs 165/2001. Il comma 1, infatti, stabilisce che “gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento di tali funzioni, e verificano la rispondenza dei risultati dell'attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti. Ad essi spettano, in particolare: [...] d) la definizione dei criteri generali in materia di ausili finanziari a terzi”. Compito degli organi di governo, dunque, non è “concedere” i contributi, ma stabilire le regole per la concessione, sicchè l’attuazione di tali regole è competenza della dirigenza, come da lungo tempo ormai ha accertato il Tar Sicilia-Catania Sezione II, 17 giugno 2005, n. 1032.
Per approfondire, si veda qui.
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