sabato 14 dicembre 2013

#province #PA E’ #spendingreview se si colpisce il personale. Parola di Cottarelli

Lo scorso 12 dicembre l’Agi ha riportato un lancio di agenzia riportante dichiarazioni davvero interessanti riguardo al futuro delle province e, in generale, delle riforme concernenti il lavoro pubblico.

Il lancio, relativo all’abolizione delle province, è il seguente: “"Un certo risparmio cè'". Lo ha detto il commissario straordinario per la spending review Carlo Cottarelli a Sky. "La cosa cruciale per riforme di questo genere è: cosa succede al personale. Si risparmia di più se la fusione tra due enti porta alla riduzione del personale. La prima domanda è: come riallocare il personale eccedente che può derivare dalla ristrutturazione o eliminazione delle province. Poi si tratta di vedere se non è possibile riassorbire il personale come affrontare la questione"”.

Poche parole, estremamente interessanti, perché, rilevatrici del modo con il quale si sta affrontando, da parte dei media e da parte della politica, il problema delle riforme che dovrebbero portare alla riduzione delle spese. Andiamo con ordine.

Sommarietà. La prima impressione che si ricava dalla dichiarazione, ma anche dal contenuto stesso della disposizione normativa da cui dovrebbe derivare la riforma delle province, è la sua estrema sommarietà.

Cottarelli, come si nota, parla della possibilità di un risparmio maggiore, scaturente dalla “fusione di due enti”.

E’ evidente che il commissario straordinario alla spending review, che pure essendo un componente rilevantissimo del Governo e, dunque, addentro alle cose, non sa esattamente quali siano i contenuti e gli effetti del ddl Delrio.

Non c’è, infatti, nessuna fusione di nulla con altro, per quanto anche il Ministro Delrio nei media pronunci a sproposito la parola “accorpamento”.

Gli effetti caotici dell’iniziativa legislativa sono tutto diversi dal creare fusioni o accorpamenti, perché, al contrario:

a)      si creano nuovi enti: le città metropolitane;

b)      è vero che le città metropolitane subentrano alle province, ma è altrettanto vero che si dà ai comuni la possibilità di uscire dalle città metropolitane neo costituite, per creare nuove miniprovince, che convivono;

c)      le città metropolitane, inizialmente previste in 10 (più 5 delle regioni a statuto speciale), ora potranno arrivare a 20 e non è detto che la lievitazione si arresti qui;

d)      le 107 province restano, numericamente, quante erano prima; il ddl le “svuota” solo potenzialmente. Infatti, si limita a ridurre il numero delle loro “funzioni fondamentali”, ma tutte le altre funzioni restano esattamente come prima, almeno finchè leggi statali e regionali non le allochino altrove;

e)      laddove venissero emanate le leggi di cui sopra, esattamente al contrario di una logica di accorpamento, le funzioni oggi svolte da 107 enti, sarebbero assegnate, in modo per altro anche differenziato di regione in regione, a 8100 comuni, 370 unioni di comuni e 20 regioni.

Sono numeri e dati assolutamente evidenti. Ma la propaganda dei media e del Governo, evidentemente li rende poco comprensibili allo stesso Cottarelli. A meno che egli non partecipi a sua volta alla creazione della cortina fumogena propagandistica.

Inesistenza dei risparmi. Il Cottarelli, in merito ad uno dei presunti benefici derivanti dalla riforma delle province, come si nota, si dimostra totalmente disinformato, limitandosi ad affermare che c’è “un certo risparmio”.

Proviamo ad immaginare se un qualsiasi funzionario pubblico o privato si provi a dire al proprio superiore o datore di lavoro che, in merito ad un qualsiasi processo o idea di modifica richiesto, rispondesse che c’è “un certo risparmio”. Come minimo, riceverebbe improperi e censure.

E’ davvero incredibile che di una riforma quale quella delle province, giustificata solo dalla circostanza che risulterebbe funzionale ad un risparmio della spesa pubblica gli autori della riforma, cioè il Governo e lo stesso Parlamento, ignorino gli effetti finanziari. Tanto che il “supercommissario” chiamato a peso d’oro a ridurre la spesa si esibisce in una considerazione vaga e vuota sulla possibilità che vi sia “un certo” risparmio.

La verità è una sola: l’intero ammontare della spesa delle province, circa 10,5 miliardi, si aggira intorno all’1,30% del totale della spesa pubblica italiana, circa 807 miliardi.

Proviamo a capire: una famiglia con un reddito annuo netto di 30.000 euro, se per tagliare le spese decide di risparmiare l’1,30%, risparmierebbe 390 euro in un anno, cioè 1,07 euro al giorno: la rinuncia, insomma di un caffè al bar al giorno.

Tutti hanno capito, però, ma non lo affermano con chiarezza, che bene che vada, della spesa gestita dalle province, si otterrebbe un taglio di circa 1 miliardo. Le cose, allora, cambiano. Infatti, 1 miliardo corrisponde allo 0,12% del totale della spesa pubblica. Torniamo a quella famiglia che dispone di un reddito netto annuo di 30.000 euro. Per essa, il risparmio dello 0,12% significa in cifra assoluta 36 euro in un anno, 10 centesimi al giorno.

La cifra di circa un miliardo è l’ultima stimata da un soggetto, l’Istituto Bruno Leoni, che della questione dell’abolizione delle province si interessa molto e le cui ricerche sono molto tenute in considerazione dal Ministro Delrio.

Peccato, tuttavia, che il Ministro, come lo Stesso Cottarelli, non si rendano conto che scardinare il sistema organizzativo degli enti locali e dell’intero Stato, addirittura con una riforma della Costituzione, per un risparmio corrispondente in una famiglia a 10 centesimi al giorno è visibilmente un’assurdità.

Costi-benefici non valutati. Quanto visto sopra, dimostra non solo che il Governo ed il Legislatore stanno agendo con estrema sommarietà, ma anche senza aver minimamente tenuto conto del basilare rapporto costi-benefici dell’azione.

Il beneficio è sostanzialmente nullo. Il Ministro Delrio, per affascinare chi considera nonostante tutto che sia utile abolire le province, utilizza una leva “sentimentale”, affermando che solo con l’eliminazione dei costi della politica provinciale, circa 110 milioni, sarebbe possibile incrementare i posti negli asili nido di 11.000 unità.

E’, ovviamente, un volo pindarico. Laddove davvero dalla manovra sulle province dovessero derivare risparmi, e si è visto che sarebbero insignificanti più ancora che irrisori, non vi sarebbe mai un legame diretto tra essi e la creazione di nuovi posti negli asili nido.

Infatti, il Ministro non considera una cosa banale: una spesa tagliata non corrisponde a una spesa finanziata. Per meglio dire: se il bilancio pubblico lo si taglia di 110 milioni, ciò significa che non ci sono risorse da 110 per realizzare asili nido, ma un risparmio secco. Che, se realmente fosse conseguito, dovrebbe per altro andare a ridurre l’immane debito pubblico.

Se, invece, i 110 milioni fossero destinati da asili nido, allora non vi sarebbe alcun risparmio per le casse pubbliche, ma semplicemente uno spostamento della spesa, che per quella cifra corrispondente resterebbe identica, ma con diversa finalità.

Il fatto è, però, che l’assenza della valutazione costi-benefici, fa affermare al Ministro indicazioni non realistiche.

Corte dei conti ignorata. IL Ministro Delrio, come visto sopra, rimane molto affascinato da ricerche e stime di soggetti privati, come l’Istituto Bruno Leoni. E pazienza che delle stime di risparmio proposte da detto istituto si sia accorto dopo aver presentato il ddl, nel quale non esiste traccia alcuna di indicazioni di risparmio alla spesa pubblica.

La cosa che lascia straniati, però, è che in merito alle conseguenze della riforma delle province esista non uno studio, ma una vera e propria analisi di un soggetto pubblico, previsto dalla Costituzione, esattamente allo scopo di supportare Legislatore e Governo nelle scelte di finanza pubblica, oltre che a controllare la correttezza della gestione della spesa. Si chiama Corte dei conti.

Ebbene la Sezione Autonomie della Corte dei conti , nell’audizione alla Commissione Affari Costituzionali alla Camera in merito al ddl ha affermato:

a)      che si tratta di un’iniziativa frettolosa e poco ponderata;

b)      che i costi verosimilmente saranno superiori ai risparmi;

c)      che, con riferimento in particolare ai costi degli organi di governo, in realtà la spesa e, dunque, il possibile risparmio sarebbe di 89 milioni.

Aggiungiamo noi che se le province andassero al voto, per effetto delle manovre dell’estate 2011 il numero dei consiglieri e degli assessori provinciali risulterebbe drasticamente ridotto, sicchè la spesa per i “costi della politica” puri sarebbe di soli 35 milioni.

Insomma gli 11.000 posti negli asili nido sono solo una chimera, un’elucubrazione retorica, senza alcuna possibilità di concretezza.

Non solo. Non si capisce come sia possibile che un Ministro della Repubblica possa trascurare o sottovalutare le considerazioni della Corte dei conti sugli effetti del disegno di legge da egli promosso, e continuare ad utilizzare valutazioni di soggetti privati, che per quanto autorevoli o affidabili, ovviamente non possono e non debbono avere lo stesso peso, agli occhi di un amministratore, delle conclusioni dell’organo costituzionale preposto alla materia finanziaria.

Effettivi risparmi: taglio del personale. Ma, a ben vedere, Cottarelli, che nell’ambito dell’attività svolta nel Fondo Monetario Internazionale ha appreso dove e come colpire le spese degli Stati che incautamente chiedono aiuti finanziari a detta istituzione, nella laconica dichiarazione riporta all’inizio indica, indirettamente, quale sarebbe la strada.

Insomma, nel dire che dalla riforma delle province vi sarebbe “un certo risparmio”, in realtà afferma che non vi è alcun significativo risparmio, a meno che il tutto non porti “alla riduzione di personale”.

I 56000 dipendenti circa delle province comportano un costo di circa 2,2 miliardi, sul totale della spesa per personale pubblico di 163 miliardi, pari, dunque all’1,35%.

Cottarelli esprime in modo sintetico ed omissivo un pensiero, che invece risulta chiaro: l’unico modo di ottenere un risparmio certo dal caos del ddl è tagliare i dipendenti delle province.

Se si parte dall’assunto che le province sono da eliminare perché le funzioni che svolgono sono inutili, oppure possono essere tranquillamente svolte da altri enti (quali non lo si è capito bene tra comuni, unioni di comuni e regioni), allora occorre porsi la domanda se sia proprio necessario che continuino a prestare servizio i 56.000 attualmente addetti a quelle funzioni medesime.

Andando a fondo al ragionamento, assumendo che le funzioni provinciali siano fungibili, non utili e gestibili senza colpo ferire da altre amministrazioni, l’unico sistema per conseguire un risparmio alla spesa pubblica almeno un po’ più consistente delle cifre irrisorie viste prime, circa 2 miliardi, è appunto licenziare i 56.000 dipendenti.

Infatti, Cottarelli si chiede: “La prima domanda è: come riallocare il personale eccedente che può derivare dalla ristrutturazione o eliminazione delle province. Poi si tratta di vedere se non è possibile riassorbire il personale come affrontare la questione”.

L’indicazione è chiarissima: meglio sarebbe licenziare i dipendenti provinciali, altrimenti occorre vedere dove e come riallocarli.

Risparmi effettivi dal personale pubblico. La logica riguarda, in realtà, per esteso l’intero problema della spesa del personale pubblico, che ammonta, come visto, all’ingente cifra di 163 miliardi, che, comunque non risulta affatto maggiore, né in termini assoluti, né relativi, a quella che incontrano allo stesso fine Paesi come Germania, Gran Bretagna e Francia.

In vista del 2015, quando sarà necessario iniziare a ridurre il debito pubblico di 40-50 miliardi all’anno per 20 anni, una riduzione secca del personale pubblico, a prima vista di circa un terzo, produrrebbe questo effetto di risparmio. Insomma 1 milione di dipendenti pubblici in meno, vale appunto circa 50 miliardi.

Ovvio che 56.000 dipendenti delle province, nell’ambito di un milione di licenziamenti sarebbero una goccia nel mare. Gestibile. Anche se, anni addietro, la messa a rischio di un numero ingente di posti di lavoro, 7000, nell’ambito della crisi Alitalia, ha portato lo Stato non a tagliare la spesa, ma aumentarla di 5 miliardi.

Non c’è da negare che in molti, compreso l’Istituto Bruno Leoni, accarezzano l’idea di un dimagrimento fortissimo del personale pubblico, anche perché appare una delle voci di spesa che, per quanto fisse e continuative, è più facilmente aggredibile di altre.

Ma, in realtà, un tipo di ragionamento di questa natura porta a conseguenze ben diverse, sia sul numero effettivo di licenziamenti che sarebbero necessari, sia sul rapporto debito pubblico Pil.

Quest’ultimo è frutto di una semplice frazione: ammontare del debito pubblico su Pil prodotto. Attualmente il debito è di 2.085 miliardi, mentre il Pil è di 1.600 miliardi, per cui il rapporto è dell’1,30%.

La riduzione di 50 miliardi della spesa riduce il debito se il Pil resta uguale e si opera sulla spesa per interessi, agendo dunque sul numeratore, e non sul denominatore.

Se i 50 miliardi si riducono sia al numeratore, sia al denominatore il rapporto resta sempre invariato.

Nella realtà, la manovra di rientro dell’Italia sul debito richiede non solo che si riduca la spesa per interessi ed il debito, ma che il denominatore aumenti, altrimenti non si ottiene alcun risultato.

Per altro, riducendo i dipendenti pubblici di 1 milione, il risparmio secco non sarebbe di 50 miliardi: almeno un 60% di tale somma andrebbe ad incrementare in un periodo medio lungo la spesa per pensioni. Quindi l’effetto sarebbe di molto attutito e, dunque, per giungere alla cifra assoluta di 50 miliardi occorrerebbe fare a meno di molti più di un milione di dipendenti pubblici.

Si tratta, ovviamente di elucubrazioni. In una fase di crisi acuta come questa, l’economia non potrebbe permettersi di far crescere di colpo il numero dei disoccupati da 3,2 milioni a 4 milioni o addirittura 5.

Ma 56.000 dipendenti provinciali, per quanto si tratti di un numero esorbitante, che se fosse messo sul piatto della crisi da una qualsiasi azienda privata desterebbe un allarme sociale immenso, potrebbero essere messi in gioco.

Anche se, alla fine, i 2 miliardi, ma meglio dire anche in questo caso il circa 1 miliardo di risparmio (scontando gli effetti sulla previdenza), sulla grande manovra per il rientro dal debito inciderebbero davvero poco, ma, soprattutto, rischierebbero di essere un modo per ridurre la ricchezza prodotta, cioè il Pil, e di aggravare, sia pure di poco, addirittura il rapporto debito/pil, rivelandosi totalmente inutile e controproducente.

Inutilità accordo del 19 novembre con i sindacati. In ogni caso, le dichiarazioni di Cottarelli rivelano come e quanto inutile sia l’accordo Governo-sindacati del 19 novembre scorso sul destino del personale delle province, conseguente alla riforma.

In effetti, poiché la spending review è in mano al commissario e non al Ministro degli affari regionali o della Funzione pubblica (che hanno sottoscritto l’accordo), è il supercommissario che ha l’ultima parola sul destino dei dipendenti provinciali.

I sindacati, dunque, hanno sottoscritto un accordo velleitario, che parla di garanzia dell’occupazione, con soggetti privi della competenza concreta a trattare la materia.

Cottarelli, con le poche parole dette, dimostra di avere le idee chiare, anche se non le ha espresse in modo aperto e completo. Ma sa che il “certo” risparmio non è significativo, se non si agisca sul personale.

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