L’imminente approvazione definitiva del ddl Delrio sulle province è, insieme con altri provvedimenti e decisioni che il Governo Renzi si accinge ad adottare, l’attestazione dell’affermazione del “partito dei sindaci”.
Renzi è un sindaco. Lo è stato fino a pochi mesi fa il suo fidato braccio destro, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Delrio, che ha anche svolto il ruolo di presidente dell’associazione nazionale dei comuni, Anci ed ha portato nell’organizzazione del Dipartimento degli affari regionali, quando era Ministro del Governo Letta, alcuni dirigenti dell’Anci. E Angelo Rughetti, sottosegretario alla Funzione Pubblica, è stato fino a pochi giorni fa direttore generale dell’Anci.
Non vi è il minimo dubbio: questo Governo e questa legislatura si incentra su una concezione della politica e dell’amministrazione molto semplificata, fondata proprio sull’esperienza amministrativa dei comuni.
Proprio il ddl Delrio, nella sua relazione illustrativa, contiene il “manifesto” di tale modo di intendere la politica: “A questo scopo tutto il disegno di legge è segnato dalla volontà di fare dei sindaci e dei presidenti delle unioni di comuni la classe politica di base del governo locale e quindi anche, in una misura non piccola, del nostro ordinamento democratico e costituzionale.
Una classe politica, quella costituita dai sindaci e dai presidenti delle unioni, sulla quale si fa poggiare non solo l'amministrazione comunale in senso proprio, ma anche l'intera organizzazione territoriale di area vasta, nel caso delle province, nonché l'istituzionalizzazione di un ente di governo metropolitano quale nuovo livello di governo destinato a dare finalmente al Paese uno strumento di governo delle aree metropolitane flessibile, dalle ampie e robuste competenze di coordinamento e di programmazione, in grado di essere motore di sviluppo per tutto il nostro sistema economico e produttivo, capace di inserire le aree più produttive della nostra realtà nella grande rete delle città nel mondo e, soprattutto, dell'Unione europea e dei suoi programmi di sviluppo.
Tutto questo fa dunque dei sindaci e della classe politica comunale molto di più del tessuto connettivo sul quale poggia la democrazia locale, fondamento e forza di ogni democrazia, come Tocqueville ci ha insegnato.
Nella prospettiva di questo disegno di legge, infatti, essa si configura come la parte della classe politica e dirigente del Paese che, proprio per la sua capacità di essere espressione della base delle nostre comunità ma anche di guardare all'interesse di queste in una prospettiva più ampia, può diventare il tessuto forte sul quale rifondare la fiducia dei cittadini nella politica e nel suo insostituibile ruolo di guida”.
Le testimonianze dirette sono moltissime. Oltre alla massiccia e pesante presenza dell’Anci al Governo, il ddl Delrio:
1) attribuisce ai sindaci dei capoluoghi delle province che saranno trasformate in città metropolitane anche il ruolo ex lege di sindaco metropolitano;
2) fa dei sindaci e dei consiglieri comunali i componenti delle assemblee di secondo grado, tanto delle città metropolitane, quanto delle province “svuotate”;
3) mentre diminuisce la compagine politica totale locale di circa 3000 consiglieri ed assessori provinciali, la aumenta di 25.000 unità circa, grazie alla modifica dell’articolo 16, comma 17, della legge 138/2011, convertita in legge 148/2011, elevando nuovamente il numero di assessori e consiglieri comunali che il Governo Berlusconi aveva tagliato in piena tempesta da spread, per garantire un risparmio alla spesa pubblica;
4) elimina l’incompatibilità tra sindaci e parlamentari per i comuni fino a 15.000 abitanti.
Altre indicazioni chiare sono nei disegni di riforma: il Senato lo si vorrebbe composto da tutti i sindaci dei capoluoghi (di cosa non si sa, visto che le province le si vuole abolire). Ulteriori, lo sono in decisioni già adottate: il “salva Roma” attesta la volontà di considerare necessario sostenere anche la più fallimentare delle gestioni municipali.
Il problema vero è questo. Il modello dei sindaci è davvero funzionale e tale da garantire efficienza e modernità? Insomma, il “manifesto” visto sopra corrisponde davvero a realtà?
I fatti, purtroppo, dimostrano l’esatto contrario. I comuni non sono in alcun modo un esempio di corretta gestione. Lo dimostrano alcuni dati ineccepibili.
La spesa corrente dei comuni è passata di 51,415 miliardi di euro del 2010 a 54,375 miliardi di euro del 2013, con un incremento del 5,76% (dati Siope 2013).
Le entrate tributarie, secondo le rilevazioni Istat sui conti consuntivi, sono passate da 22 miliardi del 2002 a 33 miliardi del 2011, con un incremento del 50%.
Tra le entrate extratributarie, quelle connesse alle sanzioni per infrazioni del codice della strada sono passate da 816 milioni del 2001 a 1,5 miliardi del 2011.
Il debito pubblico dei comuni ammonta a 47 miliardi (contro i 36 delle regioni, i 15 della Sanità, gli 8 delle province).
Il numero dei comuni in dissesto conclamato è di poche centinaia ogni anno, ma la condizione complessiva dei bilanci è estremamente critica, proprio per l’immenso debito. A fronte di situazioni conclamate come ad Alessandria, vi sono situazioni latenti di dissesto finanziario, latenti semplicemente perché non ufficializzate, come a Roma, Catania, Palermo, Napoli, Torino e molti altri enti.
Il sistema assolutamente fuori controllo delle società partecipate, stimate in quantità variabili tra 4 e 7 mila, con i loro bilanci dissestati è alimentato principalmente dalla rete delle migliaia di comuni che governano il territorio.
Ed è nei comuni che continuano a concentrarsi, proprio anche grazie alla costellazione incontrollabile di società ed enti di ogni natura e foggia, le parentopoli ed i malcostumi gestionali: ultimo caso eclatante a Verona.
E’ nei comuni che la dirigenza “fiduciaria”, quella cooptata direttamente dai politici, senza concorso, per mera appartenenza o consonanza, è presente in numero pari al doppio di quella ammessa dalla legge: il 19,5% (dati del Conto Annuale del personale Rgs 2013) contro il 10% medio concesso dall’articolo 19, comma 6-quater, del d.lgs 165/2001.
Stando a queste evidenze, non appare assolutamente dimostrato e dimostrabile che la classe dirigente dei sindaci sia in grado di garantire risultati tali da cambiare radicalmente le sorti del Paese.
Occorre ricordare che il mondo dei comuni è ormai abituatissimo ad un sistema decisionale semplicistico e inadatto ad una gestione meditata e ponderata. Ciò, soprattutto a causa della sostanziale eliminazione dei controlli, tanto politici, quanto tecnici e di legittimità.
I consigli comunali non assolvono ormai da lunghissimo tempo alla funzione di dibattito, partecipazione e ripensamento delle decisioni, da parte dei rappresentanti del corpo elettorale. Le riforme degli anni ’90 hanno sottratto ai consigli tantissime competenze, lasciandone poche, delle quali le uniche davvero rilevanti sono quella connessa all’approvazione dei bilanci e quella (comunque molto ridotta) della programmazione urbanistica ed edilizia.
L’elezione diretta del sindaco rende questa figura sul piano politico molto più forte dei consigli e delle giunte stesse, nominate dai sindaci. L’indirizzo politico è sostanzialmente rimesso solo al sindaco, in modo autocratico.
A questo si aggiunge l’eliminazione totale di controlli preventivi di legittimità sugli atti, improvvidamente voluta dalle riforme Bassanini.
Dunque, la volontà dei sindaci appare assoluta, non contenibile nell’ambito di normali rapporti di dibattito maggioranza-opposizione, mentre l’assenza totale di controlli può consentire l’adozione di provvedimenti e decisioni più dannose e illegittime possibile, solo che l’adozione di tali decisioni, se non rimessa alla competenza dei sindaci e delle giunte, spetti alla competenza di dirigenti “fiduciari”, incaricati proprio per essere il prolungamento fittiziamente tecnico della politica.
Non è un caso che la riforma della Costituzione immaginata da Renzi si ispiri molto manifestamente alle dinamiche dei comuni. Già da anni il Parlamento, a dispetto delle lungaggini che si insiste a raccontare come caratteristica dei lavori parlamentari, è quasi ridotto ad un’assemblea di semplici alzatori di mano o schiacciatori di bottoni. Infatti, l’iniziativa legislativa è stata rimessa esclusivamente al Governo; da tempo immemorabile nessun disegno di legge di iniziativa parlamentare viene poi tradotto in legge. Non solo: come è noto, il Governo legifera prevalentemente mediante decreti legge, imponendo al Parlamento la conversione entro 60 giorni, spesso per altro condizionata dalla questione di fiducia posta su maxiemendamenti governativi dell’ultima ora, approvati senza materialmente il tempo di capirne i contenuti.
Il ridimensionamento del Senato finisce per eliminare gli ormai angusti spazi del Parlamento per provare ad approvare le leggi in modo consapevole e approfondito.
E il Governo viaggia, ormai, su una corsia propria, indipendente da quella della maggioranza, la cui “fiducia” è solo una forma, non più un legame che implica l’esercizio di un potere di controllo, ormai del tutto perso.
Il sistema di gestione dei sindaci si caratterizza per la sua pericolosa autoreferenzialità, che rischia proprio nelle decisioni che il Governo Renzi sta adottando di riflettersi sul sistema nazionale.
Lo attesta proprio la riforma della pubblica amministrazione e la questione degli esuberi. Come è noto, il commissario Cottarelli li quantifica in 85.000 unità di dipendenti pubblici. Non è possibile stabilire se la cifra risulti realistica o meno, perché non è dato sapere come sia stata stimata. Soprattutto, manca il dato essenziale: dove si annidano tali esuberi, in quali amministrazioni?
Un esubero è tale se il datore di lavoro, per ragioni finanziarie ed economiche o produttive non è più in grado di sostenere costi fissi e, tra questi, anche quelli del personale.
Ora, a meno di sostenere che il Paese nel suo complesso sia già fallito, a causa del debito pubblico, sicchè vi sono 3,2 milioni di esuberi (cioè tutti i dipendenti pubblici nessuno escluso), se vi sono esuberi, ciò è perché vi sono enti che se fossero persone giuridiche private dovrebbero portare i libri in tribunale.
L’esempio emblematico è proprio un comune, la capitale, Roma. Non si vede quale altra amministrazione pubblica debba decidersi ad individuare esuberi, se non proprio il comune di Roma, con un debito corrente di 250 milioni che da solo vale 2,5 volte di più del presunto risparmio derivante dalla riforma delle province, un debito di 12 miliardi, da solo superiore a quello totale delle province (8 miliardi), 25000 dipendenti, poco meno della metà di tutti i 56000 dipendenti provinciali, 37000 dipendenti delle “municipalizzate”.
Eppure, mentre si immaginano non ancora definiti interventi di “prepensionamenti” o “mobilità obbligatoria”, il sottosegretario Rughetti propone di fare proprio di Roma un “laboratorio” sperimentale, nel quale provare anche ad introdurre la mobilità (cioè i trasferimenti, nel linguaggio tecnico del pubblico impiego) dalle municipalizzate al comune. Conseguendo i due bei risultati di non individuare, come sarebbe necessario, proprio in Roma ed in comuni come Roma, la fonte prima degli esuberi, nonché di introdurre un sistema deleterio di immissione di lavoratori nei ranghi pubblici, quelli provenienti dalle municipalizzate, moltissimi dei quali assunti senza concorsi e coinvolti nelle varie parentopoli sparse per l’Italia.
Il “partito dei sindaci” non sembra affatto la panacea ai mali. L’Anci sembra una lobby che ha conquistato la “stanza dei bottoni”, col rischio che divenga la stanza del “bottino”.
[…] – 1 aprile 2014 – Partito dei #sindaci super star panacea? #PA #Riforme di Luigi […]
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