domenica 26 marzo 2017

Affondo populista sulla trasparenza per i dirigenti pubblici


Occorre sottolineare da subito che la legge è legge. Dunque, se la legge impone ai dirigenti pubblici di rendere pubblici i dati dei loro patrimoni, va adempiuta.
Poiché, però, la legge è legge, visto che essa consente a chiunque di chiedere tutela al giudice anche nei riguardi di norme ritenute lesive delle proprie posizioni, l’iniziativa dell’Unadis, il sindacato dei dirigenti pubblici, di rivolgersi al Tar contro gli obblighi di pubblicazione in internet dei dati patrimoniali dei dirigenti previsti dall’articolo 14 del d.lgs 33/2013 come di recente modificato dal d.lgs 97/2016, non può essere bollata e marchiata di infamia.

Su Il Fatto Quotidiano del 26 marzo, invece l’articolo di Peter Gomez “Dirigenti pubblici, patrimoni online per la reputazione” è un’invettiva dai toni eccessivi e spesso fuori ambito, influenzata, per altro, da conoscenze evidentemente solo parziali della normativa in materia.
I toni sono importanti. Per esempio, in un passaggio la filippica contro il ricorso dell’Unadis non fa mancare un ironico inciso tale da far immaginare ai lettori che i dirigenti del sindacato siano sostanzialmente dei fannulloni e va ancora bene se non siano furbetti del cartellino: “Le motivazioni dell'alzata di scudi, va detto subito, sono ridicole. "Cosa potrebbe accadere conlapubblicazione di tutti i dati e con i malintenzionati che potrebbero seguirci fino a casa e sapere ogni cosa della nostra vita?" si è chiesta pensosa la segretaria dell'Unadis, Barbara Casagande durante un colloquio con il nostro collega Thomas Mackinson. Tralasciando ogni considerazione sulla possibilità dei malviventi di iniziare il pedinamento partendo dall'ufficio (dove siamo certi che gli associati al sindacato siano costantemente presenti, al contrario di altri furbetti del cartellino) […]”.
Non pare, oggettivamente, un sistema di argomentare particolarmente utile, né approfondito sul piano tecnico, anche perché sul tema questa “battuta” non ha alcuna attinenza e pare solo un modo per suscitare reazioni tra gli avventori degli esercizi pubblici dove l’articolo possa essere letto ad alta voce dal più anziano o autorevole.
Sulla presunta ridicolaggine delle motivazioni del ricorso, sarebbe meglio probabilmente una documentazione maggiore.
L’articolo del Gomez dà correttamente atto che la questione è stata già rimessa al Tar Lazio, per altro da alcuni dirigenti operanti presso l’Autorità garante della privacy. L’articolo del Gomez infatti, afferma: “Davanti alla riforma Madia, che correttamente pretende la pubblicazione su internet di case, auto, barche e ogni altra proprietà detenuta dai dirigenti, il sindacato grida all'attentato alla privacy. Ricorre al tar del Lazio (che in un caso gli ha dato pure ragione)”.
In effetti, il Tar Lazio, con l’ordinanza della Sezione I-Quater 2 marzo 2017, n. 1030, ha ritenuto:
- la consistenza delle questioni di costituzionalità e di compatibilità con le norme di diritto comunitario sollevate in ricorso;
- l’irreparabilità del danno paventato dai ricorrenti, discendente dalla pubblicazione online, anche temporanea, dei dati per cui è causa, da cui l’esigenza di salvaguardare la res adhuc integra nelle more della decisione del merito della controversia.
Dunque, probabilmente il Tar Lazio solleverà una questione di legittimità costituzionale e, comunque, ha ravvisato il pericolo di danno permanente nella divulgazione del dato.
Ora, o alla stampa generalista risulta che le riforme Madia siano sempre costituzionalmente irreprensibili e blindate, tanto da superare sempre e comunque ogni vaglio di costituzionalità ed ottenere sempre pareri favorevoli dal Consiglio di stato e pronunce altrettanto favorevoli dai Tar, sì da considerare l’ordinanza del Tar Lazio un errore giudiziario. Oppure, probabilmente, proprio quell’ordinanza rivela che il ricorso dell’Unadis potrà essere considerato, forse, agli occhi di una visione radicalizzata della “trasparenza” inopportuno, ma non certo ridicolo. Altrimenti, quel Tar per primo avrebbe respinto il ricorso presentato dai dirigenti.
Forse, indagando un po’ nella miracolistica “rete”, sarebbe stato possibile imbattersi anche nel parere proprio del Garante della privacy, per rendersi conto che l’iniziativa del sindacato dei dirigenti di tutto può essere tacciata, ma non di essere ridicola.
Riportiamo due passaggi particolarmente significativi per la questione:
-          Il tema dell'applicazione delle disposizioni sulla c.d. "trasparenza" è particolarmente delicato e necessita di un approccio equilibrato per evitare che i diritti fondamentali alla riservatezza e alla protezione dei dati personali, nonché la dignità dell'individuo (art. 2 del d. lgs. 30/6/2003, n. 196 intitolato "Codice in materia di protezione dei dati personali", attuativo della direttiva comunitaria 95/46/CE, di seguito «Codice») possano essere gravemente pregiudicati da una indiscriminata diffusione di documenti riportanti dati personali.
Occorre, infatti, tenere in adeguata considerazione le conseguenze e i rischi per la vita privata e per la dignità della persone interessate derivanti dal crescente e generalizzato obbligo di pubblicazione delle informazioni del settore pubblico, previsto anche dal suddetto intervento normativo mediante la diffusione di dati personali sul web che è, per definizione, la forma più ampia e più invasiva di diffusione di dati.
I rischi connessi al trattamento dei dati personali sulla rete emergono ancora di più ove si consideri la delicatezza di talune informazioni e la loro facile reperibilità una volta pubblicate, grazie anche ai motori di ricerca.
Si consideri anche il rischio di "cristallizzazione" delle informazioni sul web, a fronte di oggettive difficoltà pratiche (oltre che giuridiche, a volte) nell'ottenere la loro cancellazione una volta decorso il termine di pubblicazione e, soprattutto, laddove un termine non sia fissato o comunque i dati non siano cancellati dopo il raggiungimento dello scopo perseguito, in violazione del cd. "diritto all'oblio.
L'Autorità -come si ricordava supra- ha già espresso un parere condizionato sulla bozza di decreto legislativo n. 33/2013, a fronte del quale occorre far presente che mentre alcune indicazioni sono state recepite dal Governo in maniera integrale, altre non sono state accolte o lo sono state solo parzialmente e  restano quindi  pienamente valide e riproducibili in relazione allo schema di decreto in esame.
Dal momento che lo schema di decreto non ha pienamente attuato il criterio di delega volto alla rimodulazione degli obblighi di pubblicazione,  appare necessario modificare le disposizioni del d. lgs. n. 33/2013 la cui formulazione ingenera dubbi interpretativi , rischiando oltretutto di violare l'art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, gli artt. 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, nonché la disciplina europea e nazionale in materia di protezione dei dati personali (dir. 95/46/CE; d. lgs. 30 giugno 2003, n. 196)
.
-          L'art. 14 d.lgs. n. 33 del 2013,disciplina gli obblighi di pubblicazione dei dati reddituali e patrimoniali dei «titolari di incarichi politici» anche non elettivi, nonché degli incarichi dirigenziali a qualsiasi titolo conferiti.
Nel successivo articolo 15, invece, sono disciplinati gli oneri di trasparenza di titolari di «cariche di governo» e di «incarichi amministrativi di vertice».
Le modifiche sul punto innovano profondamente il precedente bilanciamento effettuato dal legislatore delegato, equiparando completamente gli obblighi di trasparenza dei dirigenti delle amministrazioni pubbliche e degli altri soggetti cui il decreto si applica a quelli previsti per i titolari di incarichi politici. Tale previsione, oltre ad assimilare condizioni  non del tutto equiparabili fra loro (quali quelle dei titolari di incarichi dirigenziali e dei titolari di incarichi politici) impone la pubblicazione della propria situazione patrimoniale ad un notevolissimo numero di soggetti: secondo le elaborazioni dell'Aran, infatti, i dirigenti pubblici ai quali si applicherebbero tali nuove disposizioni sarebbero oltre 140.000, senza contare coniugi né parenti fino al secondo grado.
Inoltre, il predetto personale dirigenziale sarebbe assoggettato ad importanti obblighi di trasparenza (e quindi ad un trattamento giuridico limitativo della riservatezza individuale) a prescindere dall'effettivo rischio corruttivo insito nella funzione svolta, così come altri soggetti pubblici risulterebbero invece inspiegabilmente esclusi dai medesimi obblighi pur potendo ricoprire incarichi di analogo rilievo (si pensi ai soggetti di cui all'articolo 17, comma 22, della legge 127/1997, tenuti alla mera comunicazione dei propri dati patrimoniali, senza che in relazione agli stessi sussista alcun obbligo di pubblicazione sul sito dell'amministrazione di appartenenza ).
[…]
A ciò si aggiunge che il nuovo art. 14 non specifica se gli obblighi di pubblicazione della situazione patrimoniale si applichino a tutti, oppure solo ai soggetti tenuti a fare le dichiarazioni previste dalla l. n. 441 del 5/7/1982.
La questione non è di poco conto, considerando che ad esempio l'Anac ha ritenuto che la disposizione si applicasse ai  membri del Senato accademico dell'Università di cui fanno parte anche studenti e personale tecnico amministrativo, ma non ai sindaci, consiglieri e assessori con popolazione inferiore a 15.000 abitanti (cfr. delibera Anac 7/10/2014 n. 144). La conseguenza è che uno studente che fa parte di un Senato accademico sarebbe tenuto a pubblicare la propria dichiarazione dei redditi, mentre un sindaco di un comune di 14.999 abitanti non sarebbe obbligato.
[…]
Più in generale, si sottolinea in questa materia l'importanza di un approccio rispettoso del principio di proporzionalità di derivazione europea (art. 6, par. 1, lett. c, dir. 95/46/CE), che tenga in considerazione l'orientamento espresso dalla Corte di giustizia nelle sentenze del 20 maggio 2003 (Cause riunite C-465/00, C-138/01 E C-139/01, Rechnungshof e al.), del 9 novembre 2010 (Cause riunite C-92/09 e C-93/09, Volker und Markus Schecke GbR e al.) e del 29 giugno 2010 (Causa C-28/08P, Commissione/Bavarian Lager). Secondo tale orientamento, le istituzioni pubbliche, prima di divulgare informazioni riguardanti una persona fisica, devono soppesare l'interesse dell'Unione a garantire la trasparenza delle proprie azioni con la lesione dei diritti riconosciuti dagli artt. 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell'UE, senza che possa riconoscersi alcuna automatica prevalenza dell'obiettivo di trasparenza sul diritto alla protezione dei dati personali, anche qualora siano coinvolti rilevanti interessi economici (par. 85, sentenza Volker und Markus Schecke GbR e al.).
In questo quadro, va messa in luce la necessità di adottare una graduazione degli obblighi di pubblicazione di dati personali sotto il profilo della platea dei soggetti coinvolti, del contenuto degli atti da pubblicare e delle modalità di assolvimento di tali oneri Andrebbero dunque previsti livelli differenziati di trasparenza del personale pubblico, tali da modulare la conoscibilità delle informazioni a seconda del ruolo e della carica ricoperta, in modo da evitare interferenze sproporzionate sulla sfera privata degli interessati.
[…]
”.
Se si ha la pazienza di leggere, senza impeti e pregiudizi, quanto scrive il Garante, difficilmente si sfugge alla sensazione che bollare come “ridicola” l’azione del sindacato e, di conseguenza, l’ordinanza del Tar Lazio, risulti abbastanza fuori luogo.
L’invettiva del Gomez prosegue, poi, con l’argomentazione che vorrebbe demolire i rischi di eccessività di diffusione del dato, paventati dalla segretaria del sindacato, Barbara Casagrande, evidenziando che “il ragionamento fa un certo effetto. Perché è totalmente falso. Il modulo da compilare, messo a punto dall'Anac di Raffaele Cantone, prevede esplicitamente che non vengano pubblicati gli indirizzi degli immobili, ma solo il tipo e il loro valore. Il resto dei dati da mostrare in Rete vengono poi depurati da ogni elemento sensibile, come prevede la legge, dai responsabili della trasparenza presenti in ogni amministrazione. Detto in altre parole: i cittadini potranno sapere se il dirigente statale ha una Ferrari, non quale sia la sua targa. Oppure potranno scoprire se ha tre case e un castello, ma non dove si trovano”.
Che il ragionamento sia “falso” è smentito tanto dall’ordinanza del Tar Lazio, quanto dalle argomentazioni del Garante viste sopra.
Per altro, c’è da osservare, nel merito, che il rischio per chi pubblica questi dati non consiste nella circostanza che il mondo sappia quale sia la targa dell’autovettura posseduta o l’indirizzo del castello di famiglia, ma la circostanza stessa che qualcuno abbia la proprietà di Ferrari e castelli: non ci vuol molto a comprenderlo.
Non è certamente il caso di dilungarsi molto, poi, sull’efficacia concreta dello strumento della pubblicazione on line: posto che le Ferrari ed i castelli siano frutto di corruttele e reati di ogni tipo contro la pubblica amministrazione, per “beccare” il dirigente pubblico che conduca uno stile di vita sfarzoso delinquendo, ci si deve augurare che quel dirigente sia talmente poco avveduto da rendere pubblica la provenienza illecita di quei patrimoni e di scrivere nell’apposito rigo della dichiarazione dei redditi “altri redditi” che si tratta di “proventi da tangente”.
Diversamente, è da ritenere che l’unico metodo concreto e utile per scovare i delinquenti siano e restino le indagini, come ad esempio le intercettazioni, quelle che alla Consip sono state impedite dalla soffiata da cui è derivata la bonifica delle “cimici”.
Oppure, c’è un altro sistema. Il Gomez afferma: “sarebbe bello e giusto che le migliaia e migliaia di dirigenti statali onesti presenti nei nostri ministeri, all'agenzia delle entrate, del demanio, fazione e onore. delle dogane, nei comuni e nelle varie authority già da domani cominciassero a compilare la documentazione sui loro patrimoni”. Ancora una volta, si riscontra un deficit piuttosto importante di conoscenza delle norme e dei fatti. I dirigenti pubblici da anni, almeno dal 1997, per effetto della legge Bassanini, sono tenuti a “compilare” la documentazione relativa ai loro patrimoni e a depositarla agli enti presso i quali lavorano. Dal 2013 questi obblighi si sono estesi anche alla dichiarazione dei redditi.
Dunque, da moltissimo tempo, la PA dispone di tutti i dati per farsi un’idea se lo stile di vita dei propri dirigenti corrisponda al reddito da lavoro dipendente che traggono dalla loro attività lavorativa. La novità della riforma Madia, quindi, non consiste affatto nell’aver introdotto un obbligo di compilazione dei dati reddituali e patrimoniali, ma nella pubblicazione on line, tendente ad assimilare la posizione dei dirigenti pubblici a quella dei politici, come inevitabilmente osserva, oltre al Garante della privacy, anche l’Anac nelle sue linee guida per l’attuazione.
Un’assimilazione che tende, dunque, a considerare politici e dirigenti sullo stesso piano, quando, al contrario, gli articoli 97 e 98 della Costituzione e gli articoli 4 e 5 del d.lgs 165/2001 (il testo unico sul lavoro pubblico) impongono la separazione tra politica e dirigenza, indicando che questa, pur dovendo attuare gli indirizzi della prima, ne resti autonoma, operando al solo servizio della Nazione e non della maggioranza di turno.
Incredibilmente, proprio le linee guida, invece, esentano dagli obblighi di pubblicazione richiesti ai dirigenti pubblici, quei dirigenti direttamente ed inscindibilmente connessi alla politica, incaricati senza concorso negli staff o uffici di diretta collaborazione dei politici.
Invettive, filippiche e strepiti contro iniziative tendenti a tutelare l’autonomia e la distinzione necessari tra politica e gestione, finiscono per sostenere la filosofia fondante della riforma Madia della dirigenza, bloccata fortunatamente dalla sentenza 251/2016 della Corte costituzionale: l’estensione estrema dello spoil system, legata alla considerazione della dirigenza, anche quella di ruolo, come una “costola” della politica, da essa totalmente dipendente.
Le cose, alla luce dell’ordinamento costituzionale vigente, che Il Fatto Quotidiano ha così strenuamente difeso, non stanno e non possono stare così.
Se si vuole tutelare l’onore e la reputazione dei dirigenti pubblici onesti, certo, una delle possibili strade è assimilarli alla politica, in una logica affatto compatibile con l’ordinamento costituzionale vigente. Oppure, si potrebbe prevedere che le dichiarazioni sui redditi e sui patrimoni che da anni i dirigenti compilano, oltre ad essere depositate presso gli enti di appartenenza, siano consegnate alla Guardia di finanza o alle Procure della Repubblica, in modo che questi organismi si avvalgano dell’unico vero strumento per scoprire reati: le indagini giudiziarie.

2 commenti:

  1. Certi giornali e certi giornalisti farebbero la propria bella figura in un regime come quello turco. Poi l'ANAC per alcuni applica la legge, per altri la interpreta. Non è cambiato molto rispetto ai tempi peggiori della prima repubblica, salvo che adesso le Autorità (di tutti i tipi) hanno messo il bavaglio e si sostituiscono alla Magistratura.

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  2. troppe leggi mal scritte, e troppe agenzie, come Anac, che decretano linee guida che si incrociano con leggi mal scritte, cercando di interpretarle senza offendere il legislatore...risultato: caos...

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