Ecco una delle molte opere del Caravaggio dalla storia complicata e di difficile attribuzione dell'autografia, oltre che della datazione.
Fu Roberto Longhi, da una fotografia, a ritenere che la versione in esposizione a Milano fosse da considerare opera autografa del Merisi. Come emerge da "Una vita per la storia dell'arte. Scritti in memoria di Maurizio Marini, a cura di Pietro Loreto, 2015) fu il Marini ad osservare la presenza di alcuni pentimenti nell'opera, utili per ritenere che si tratti dell'originale, anche se ancora non vi è piena concordia sul tema.
Altrettanta incertezza v'è sulla datazione. Secondo il Longhi l'opera risale agli anni tra il 1595 e il 1600; secondo altri, tra il 1604 e il 1605; c'è chi la ritiene del 1607.
In ogni caso, il quadro ebbe certamente notevole fortuna, come confermano le numerose copie esistenti (a Berlino, Gemaldgalerie Staatchle Museum, Tours, Musèe des Beaux-Arts, collezioni private e stampe d'epoca).
Non stupisce il favore col quale l'opera è stata considerata. Pur presenti in maniera evidente i chiari e gli scuri, appare un'opera nella quale Caravaggio "riscopre" in qualche misura il classicismo. E' una composizione quasi non caravaggesca, anche se la capacità di disporre le figure nello spazio appare tipicamente del pittore. E' una scena serena e soave, quasi paragonabile a quella dei Riposo durante la fuga in Egitto, caratterizzata da armoniosi e complici sguardi tra i protagonisti. Tenerissimo è Giuseppe che accompagna la carezza del Giovannino, così come lo sguardo infantile del Gesù bambino. Solo Maria guarda lo spettatore, vestita con una veste rossa, che ricorda in parte quella della Natività di Palermo.
Posizione del bimbo ed espressione di Maria ricordano molto da vicino quella presente nella Madonna del rosario:
Madonna del rosario, olio su tela, 1606-1607, Kunsthistorisches Museum di Vienna. |
Altra opera di attribuzione sofferta. Fino agli inizi del secolo scorso, la si considerava del de Ribera. Ancora controversa è la datazione: è il Longhi ad aver proposto di collocarla tra il 1605 e il 1606, ma per altri potrebbe essere antecedente di due-tre anni.
Faceva probabilmente parte della collezione di Vincenzo Giustiniani, banchiere protettore del Caravaggio: un San Gerolemo delle stesse dimensioni di quest'opera appare nell'inventario Giustiniani del 1638.
E' una raffigurazione molto particolare del padre della Chiesa. Infatti, non viene mostrato mentre si percuote il petto con la pietra in atto di penitenza, nè mentre scrive il testo, intento a tradurre la bibbia, come negli altri due San Girolamo a noi giunti, dipinti dal Caravaggio:
San Girolamo scrivente, olio su tela, 1605-1606, Galleria Borghese, Roma |
San Girolamo, 1608, olio su tela, Concattedrale di San Giovanni, La Valletta, Malta |
E' presente il teschio come "memento mori" a fare da contrappunto al capo calvo del santo, del quale viene raffigurata in modo ancor più marcato rispetto al quadro conservato a Roma la vecchiaia, attraverso il gioco delle ombre che evidenziano il corpo stanco, le pieghe della pelle cadente. Si nota, come nell'opera di Roma, anche il maggiore colorito di mani e collo, rispetto al pallore del tronco.
Il quadro presenta anche l'attributo del manto rosso, a testimoniare il ruolo cardinalizio e l'alta posizione nella gerarchia ecclesiastica del santo.
Si nota che la postura del San Girolamo in meditazione è sostanzialmente identica a quella del San Giovanni Battista del Museo Nelson-Atkins, Kansas City:
14. San Francesco in meditazione 1605-1606 olio su tela Museo civico Ala Ponzone, Cremona
San Francesco rappresentava per Caravaggio l'ideale della chiesa umile e povera, vicina al popolo, del quale si era imbevuto nei suoi anni della prima giovinezza a Milano. La raffigurazione del santo di Assisi è, dunque, piuttosto ricorrente, in particolare nel Caravaggio degli ultimi suoi mesi di permanenza a Roma, se non addirittura già in fuga dall'Urbe dopo l'assassino di Ranuccio Tomassoni del maggio 1606 e la condanna alla pena capitale, nei feudi dei Colonna, sulla strada per Napoli.
Il quadro rappresenta l'ideale di pauperismo e forse rispecchia anche l'intima sofferenza, la paura del pittore braccato e a disagio.
Si torna, in questo quadro, in un esterno avvolto in un'oscurità opprimente, dalla quale a mala pena emergono un tronco d'albero e alcune fronde. Un fascio di luce illumina dall'alto Francesco, intento a meditare sulla vita e la morte, confortato solo dalla presenza del crocifisso, quale mediazione col divino, e dalla lettura dei sacri testi, che porta alla salvezza: la morte, rappresentata dal teschio su cui poggia il libro aperto non è la fine, ma addirittura appunto la base per il definitivo riavvicinamento a Dio, che, però, nell'esperienza umana è difficile, complesso, pieno di amore e rinunce.
Il saio di Francesco è povero, pesante, lo avvolge quasi a voler ulteriormente sottolineare la chiusura nella sofferta meditazione. Il volto profondamente turbato, irto di pieghe che evidenziano la sofferenza dei profondi pensieri del santo.
Anche quest'opera ha una storia sofferta. E' al Longhi che si deve la sua probabile riconduzione al Caravaggio, mentre la sua datazione è alquanto incerta, come visto sopra. Il prevalere dei colori terrigni sembra alludere alla tavolozza che Caravaggio adotta mentre è in fuga nei feudi Colonna, come attesta la cena in Emmaus conservata alla Pinacoteca di Brera a Milano.
L'opera è, ovviamente, da mettere in relazione con quella analoga conservata presso la galleria Baerberini-Corsini a Roma, anch'essa di datazione incerta se tra gli ultimi mesi a Roma o i primi in fuga da Roma:
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