domenica 12 novembre 2017

Caravaggio e lo spirito di Napoli: le sette opere di misericordia

Siamo nella seconda metà del 1606. Caravaggio è riuscito a fuggire da Roma, dopo il delitto di Ranuccio Tomassoni del 28 maggio, scampando alla condanna capitale, cioè al rischio che chiunque incontrandolo lo decapitasse intascando la taglia.

Aveva soggiornato per qualche tempo nei feudi laziali della famiglia Colonna (tra Palestrina e Zagarolo), ove dipinse la Cena in Emmaus, oggi conservata alla pinacoteca di Brera, grazie alla commessa del marchese Patrizi, a ciò spinto proprio dai Colonna, per dar modo al pittore di intascare qualche soldo e proseguire nella fuga. Che lo avrebbe portato a Napoli. Città nella quale erano presenti importanti possedimenti della marchesa di Caravaggio, quella Costanza Colonna che incoraggiò e protesse il pittore durante tutto l'arco della sua vita.
Si ritiene che nel suo primo soggiorno a Napoli, il Merisi fosse stato ospitato proprio nel palazzo di Luigi Carafa Colonna, nipote della Marchesa, se non proprio nella residenza della stessa Costanza, sul lungomare.
In ogni caso, se Caravaggio per Roma è ormai un criminale fuggiasco, per Napoli, come per il resto dei regni in Italia e nel Mediterraneo, è un famosissimo pittore, ricercato, ammirato, conteso.
Napoli, grande capitale di un regno tra i più importanti e ricchi d'Europa non intende certo farsi scappare l'opportunità di impreziosire ulteriormente la bellezza dei propri ricchi palazzi e delle proprie chiese con l'opera del genio lombardo.
L'influenza dei Colonna, insieme col grande prestigio di cui godeva Caravaggio, indussero un'importantissima istituzione laica e pubblica nata solo 5 anni prima nel 1601, il Pio Monte della Misericordia, a commissionare un'opera a Caravaggio: le Sette opere di misericordia, per la cifra all'epoca ragguardevolissima di 400 scudi.



La Napoli degli inizi del 1600 in cui si reca il Merisi è una delle più grandi capitali d'Europa, probabilmente la seconda per popolazione dopo Costantinopoli: vivono in città dalle 400.000 alle 500.000 persone (Roma contava a stento 100.000 abitanti).
E' una città dalle molte contraddizioni. Accanto alla ricchezza e allo sfarzo della nobilità e del clero, esiste una condizione generalizzata di miseria e fame. La città era sovraffollata, a causa di una fortissima inurbazione, dovuta al pugno di ferro imposto dalla dominazione spagnola. Napoli, nonostante fosse la capitale del Regno delle due Sicilie, era ancora fortemente influenzata dalla Spagna e ne era una vera e propria piazzaforte, come dimostrano i tre castelli, che ospitavano imponenti guarnigioni di soldati spagnoli, la cui presenza era fortemente avvertita.
La nobiltà napoletana, tra tasse da pagare e stile di vita spagnoleggiante, abbandonò quasi i feudi agricoli e iniziò a vivere a contatto col re, le autorità spagnole, gareggiando in sfarzo per palazzi e stile di vita.
L'abbandono delle terre coltivate e le presunte opportunità di vita migliore della città rispetto alle campagne indusse tantissimi contadini ad andare a vivere nella città, che continuava a crescere sempre più per popolazione. Simmetricamente all'inurbazione, un'attività edilizia frenetica aveva creato una città senza quasi polmoni verdi, nella quale tutti i palazzi, da quelli maestosi della nobilità a quelli ben più poveri dell'edilizia popolare, si accalcavano tra loro, creando vicoli stretti e bui, nei quali la luce del sole filtrava a malapena.
Il sovraffollamento portò a ripetuti problemi di ordine pubblico: le condizioni igieniche della gran parte del popolo erano precarie, la fame era diffusa. Sicchè il governo della città pensò di importare quanti più cereali possibile per immagazzinarli e distribuirli gratuitamente alla popolazione. Da qui la grande tradizione della pasta, ma anche l'ulteriore attrazione per altra inurbazione.
Le strade erano per lo più convulse. Le case piccole e strette, la poca aria e luce inducevano moltissimi napoletani a lavorare, vivere ed incontrarsi per strada, anche grazie al clima notoriamente mite.
Il Merisi, che da pittore aveva capacità non comuni di "fotografare" le situazioni, colse immediatamente lo "spirito" di quella città. Anche perchè, senza alcun dubbio, come fece anche a Roma, sicuramente a Napoli prese a frequentare osterie, bische, locali anche sordidi (fu all'osteria del Cerriglio, nel 1610, che venne gravemente ferito, pochi giorni prima della morte).
Proprio per tentare di creare qualche conforto alla miseria della popolazione, sette nobili napoletani nel 1601 fondarono il Pio Monte della Misericordia, nei pressi della Cattedrale. Un'istituzione pubblica il cui scopo era esattamente dare aiuto ai poveri e diseredati, seguendo l'insegnamento cristiano delle sette opere di misericordia corporali:
dar da mangiare agli affamati; dare da bere agli assetati; vestire gli ignudi; alloggiare i pellegrini; visitare gli infermi; visitare i carcerati; seppellire i morti. Tutte esigenze particolarmente sentite nella Napoli di allora.
Il Pio Monte allestì una splendida cappella, nella quale pensarono di ospitare una pala d'altare che esaltasse le opere di misericordia, da affidare appunto alle mani del grande Caravaggio.
Ne conseguì uno dei più grandi capolavori del Merisi, una spettacolare pala d'altare, che pur avendo dimensioni e struttura degne delle migliori opere di Roma, se ne differenzia per l'assenza di un "fuoco centrale" dell'azione.
Caravaggio riesce nell'impresa straordinaria di rendere tutte e sette le opere in una rappresentazione sola, senza un punto centrale di attenzione. L'occhio dello spettatore è, infatti, portato a vagare incessantemente da una parte all'altra del quadro, preso dal vortice di movimento, si potrebbe dire dalla vera e propria confusione che lo caratterizzano.
Il pittore non poteva mancare di rappresentare le opere di misericordia calandole esattamente nella Napoli che aveva incontrata. Il quadro pare rappresentare un crocicchio napoletano, convulso, sovraffollato, stretto e buio. La rappresentazione dall'alto delle figure accentua gli spazi stretti, la calca delle persone.
Il buio è parte del tenebrismo del Caravaggio, che in questo dipinto è esaltato e reso in maniera straordinaria, grazie al consueto maestoso gioco di luci ed ombre.
Osserviamo il dipinto a partire da destra, dove vengono rappresentate due prime opere di misericordia: visitare i carcerati e dar da mangiare agli affamati. Nell'angolo destro, Caravaggio rappresenta la famosa caritas romana, la storia di Pero che da dietro le sbarre sfama, allattandolo, il padre Cimone, carcerato e condannato a morire proprio di fame. Pero, dunque, visita il carcerato e allo stesso tempo lo sfama.
Il dettaglio di questa particolarissima opera nell'opera è straordinario se si pone attenzione alla goccia di latte che scende sulla barba di Cimone e alla rappresentazione viva di una reale popolana di Napoli, che impersona Pero.
Più a sinistra, incontriamo l'opera di carità della sepoltura dei morti: un chierico recita i salmi per il cadavere, che viene trascinato a forza da un operaio che inarca la schiena per lo sforzo. Il morto è rappresentato dai piedi nudi, esangui e sporchi di fango raggrumato, e dal lenzuolo che copre le caviglie.
Una curiosità: osserviamo per la prima ed unica volta in un quadro di Caravaggio la presenza di una fiamma come fonte di luce, la torcia del presule.
Un "trucco" pittorico largamente utilizzato, invece, dai caravaggeschi del nord Europa, come ad esempio, Gerorges de La Tour (Maddalena penitente, 1635-1639).


Come possiamo notare, il quadro è un'opera particolarmente "colta", che abbina alla conoscenza dei precetti cristiani la conoscenza dei miti pagani (la storia di Pero e Cimone).
Ancora a sinistra, incontriamo san Martino di Tours, militare romano che nel 335, durante la ronda notturna incontra un mendicante nudo, intirizzito e senza esitare prende la spada e taglia in due il mantello (clamide) militare, per vestirlo e riscaldarlo. La tradizione vuole che la sera dopo Gesù sia apparso in sogno a Martino, svelandogli che era lui il mendicante col quale aveva condiviso il mantello.
L'episodio è citato per rappresentare l'opera del vestire gli ignudi. Il mendicante è dipinto mentre prende con la destra la metà del mantello tagliata da Martino, mentre con la sinistra si appoggia al terreno. La schiena potente e in torsione ha molto del Michelangelo Buonarroti che il Michelangelo Merisi conosceva ed ammirava.
E' evidente la simmetria della posa del mendicante con quella del catecumeno che assiste spaventato al martirio di san Matteo, uno dei laterali della Cappella Contarelli a Roma, che rappresenta un'altra scena drammatica e convulsa:


Facciamo adesso attenzione alla spada di Martino, la cui punta viene sapientemente illuminata da un riflesso di luce. Al di sotto della spada scorgiamo una figura in penombra, che si nasconde ma che proprio a Martino rivolge lo sguardo. E' un povero storpio, malato, rifiutato dalla società, al quale però il pio Martino va a fare visita: ecco l'opera del visitare gli ammalati.
Martino deve quasi "spintonare" un'altra figura accanto a sè per farsi strada, un uomo che porta un segno inconfondibile sul cappello (notiamo che, come sempre, Caravaggio dipinge le figure col vestiario della sua epoca, in omaggio al forte verismo della sua poetica): la conchiglia. E' un pellegrino e davanti al lui un oste gli indica l'ingresso della propria locanda: è l'opera del dare alloggio ai pellegrini.
Infine, addossato al muro, vediamo un uomo che beve da una mascella d'asino. E' Sansone che con la mascella, arma con cui aveva ucciso mille uomini che lo avevano legato, beve dalla fonte che Dio gli aprì nella roccia per evitargli una morte per sete.
Dall'alto osserva la scena compiaciuta una soave Madonna col Bambino, che scende sulla terra in volo accompagnata da due angeli che si aggrovigliano in una spirale vorticosa nell'aria, creando un ulteriore senso di dinamismo e confusione nel quadro. Mirabile è l'ombra che il gruppo celeste proietta sul muro in alto a destra, un'ombra che rende il divino reale, tangibile, molto più vicino a noi, ai poveri, al popolo, nello spirito religioso pauperistico proprio della Controriforma, particolarmente sentito nell'Italia del sud.



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