di Vito Antonio Bonanno, Segretario
Generale del comune di Alcamo
L’entrata
in vigore del decreto legge 17 marzo 2020, n.18, il quale introduce, tra le
altre, misure di sostegno al mondo del lavoro pubblico in questa delicata fase
di gestione della nota emergenza epidemiologica, suggerisce l’opportunità di
una riflessione sistematica sulle misure che hanno una refluenza
sull’organizzazione del lavoro pubblico e sui poteri e le responsabilità dei
dirigenti.
Tra
le misure urgenti individuate dall’art. 1 del decreto-legge 23 febbraio 2020,
n. 6, convertito con la legge n. 13/2020, è prevista anche “la chiusura o limitazione dell’attività
degli uffici pubblici” (lett. k); tuttavia, i vari DPCM fin qui adottati ai
sensi dell’art. 3, comma 1, del richiamato decreto-legge non hanno fatto
applicazione della estrema misura della chiusura degli uffici pubblici,
operando piuttosto sul piano dell’organizzazione dell’attività e del lavoro
pubblico e, da ultimo, sulla sospensione di alcune attività. In sintesi, e nonostante le disposizioni di
cui agli artt. 40, 67, 68, 83, 87,
comma 5, 103, 106 e 107 del d.l. 18/2020, in via generale
l’attività delle pubbliche amministrazioni non risulta sospesa ma, in coerenza
con la ratio di tutti i provvedimenti
emergenziali, deve essere svolta in modo da non arrecare rischi alla salute dei
dipendenti e non trasformarsi in un
fattore di diffusione dei contagi, per la violazione –insita nella sua
prestazione in presenza- delle altre misure introdotte dalle norme
emergenziali, tra le quali il divieto di
assembramento in luoghi pubblici o aperti al pubblico e l’obbligo di distanza
interpersonale.
Entrando
nel merito del provvedimento, il legislatore dell’emergenza ha stabilito un generalizzato divieto di far
svolgere ai dipendenti attività lavorativa in presenza. Ciò si ricava, dalla
lettera del comma 1, dell’art. 87 del d.l. 18/2020 a mente del quale “il lavoro agile è la modalità ordinaria di
svolgimento della prestazione lavorativa nelle pubbliche amministrazioni”. Pare
opportuno chiarire che il legislatore non ha previsto una sospensione del
servizio o del lavoro dei dipendenti pubblici, ma dispone che la prestazione
del servizio sia resa in un luogo diverso dall’ufficio che, sebbene chiuso al
pubblico, continua ad operare. A tale regola generale fanno eccezione soltanto
due fattispecie:
a)
le attività da rendere in presenza in
ragione della gestione dell’emergenza;
b)
le attività ritenute indifferibili e che
richiedono necessariamente la presenza sul luogo di lavoro.
Prima
di chiarire le ricadute operative ed applicative di tale disposizione, giova
ancora ribadire che il legislatore, dando continuità ad una misura già
introdotta con il DPCM 8.3.2020, ha disposto che “il lavoro agile è la
modalità ordinaria di svolgimento del servizio” e le pubbliche
amministrazioni “conseguentemente limitano la presenza del personale negli uffici”
esclusivamente in relazione alle attività di cui alle lettere a) e b)
sopra indicate. Dalla chiara formula
normativa discende, dunque, che occorre motivare da parte dei dirigenti il
mantenimento dei dipendenti all’interno degli uffici: tale onere di motivazione
mentre può essere assolto attraverso il mero rinvio alle attività istituzionali
connesse alla gestione dell’emergenza (protezione civile, con funzioni anche di
assistenza alla popolazione, polizia municipale), necessita, invece, di una articolata e
penetrante istruttoria nell’ipotesi di attività e servizi non strettamente
funzionali alla gestione dell’emergenza, ma ritenuti dai dirigenti “indifferibili” e che “richiedono necessariamente la presenza sul luogo di lavoro”. La
norma è posta a garanzia dell’effettività del lavoro agile, richiedendo che la
motivazione del provvedimento datoriale con cui si dispone la presenza in
servizio abbia a riferimento sia l’indifferibilità dell’attività da espletare
sia la necessità che essa venga svolta in presenza. In buona sostanza, la
presenza in servizio –fatte salve le attività relative alla gestione
dell’emergenza- risulta del tutto eccezionale. In realtà, come diremo meglio
più avanti, la sospensione ope legis
dei termini di tutti i procedimenti amministrativi e delle attività di alcuni
uffici, come quelli tributari, limita la discrezionalità del dirigente
nell’individuazione di attività indifferibili e, comunque, pur in presenza di
tali attività (come, ad esempio quelle di cui al comma 4 dell’art.103:
pagamenti vari) lo obbliga a motivare le cause della “necessaria presenza in ufficio” di chi deve espletare tali
attività, con riguardo ai motivi per i quali non risulti possibile organizzare
la prestazione lavorativa in modalità agile, cioè fuori dall’ufficio.
Venendo
al lavoro agile, giova evidenziare che il decreto-legge, dopo aver reso la
prestazione in modalità agile la forma ordinaria di svolgimento del lavoro
pubblico ha precisato, positivizzando le previsioni dei Dpcm e quelle contenute
nelle direttive n. 3/2017 e n. 2/2020 della Funzione Pubblica, che nell’attuale
stato di emergenza (ovvero fino al diverso più breve termine stabilito con
decreto del Presidente del consiglio dei ministri), le amministrazioni
pubbliche “prescindono dagli accordi
individuali e dagli obblighi informativi previsti dagli articoli da 18 a 23
della legge 22 maggio 2017, n. 81”; è stato, altresì, chiarito che “la prestazione lavorativa in lavoro agile
può essere svolta anche attraverso strumenti informatici nella disponibilità
del dipendente qualora non siano forniti dall’amministrazione”, e
precisando che in tale ultimo caso non trova applicazione l’art. 18, comma 2,
della legge 81/2017.
La
norma, in pratica, deroga alla disciplina ordinaria del lavoro agile secondo la
quale tale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato è “stabilita mediante accordo tra le parti”
( art. 18, comma 1), che deve rispettare la forma scritta “ai fini della regolarità e della prova” ( art. 19), e deve essere comunicato ai sensi
dell’art.9-bis del d.l. 1° ottobre 1996, n. 510, convertito dalla legge
28.11.1996, n.608 e smi (art. 23, comma 1), con previsione in capo al datore di
lavoro della “responsabilità della
sicurezza e del buon funzionamento degli strumenti tecnologici assegnati al
lavoratore” ( art.18, comma 2), e dell’obbligo di consegnare, “a cadenza almeno annuale, un’informativa
scritta nella quale sono individuati i rischi generali e i rischi specifici
connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro” (
art. 22, comma 1). Orbene, superando la previsione dell’art. 2, lett. r) del
DPCM 8.3.2020, che consentiva di assolvere all’obbligo di informativa di cui
all’art. 22 ricorrendo alla trasmissione telematica del modello di informativa
sulla sicurezza resa disponibile sul sito istituzionale dell’Inail, il
decreto-legge n. 18/2020 deroga in modo espresso non solo all’obbligo di
informativa ma anche a tutti gli altri obblighi di comunicazione previsti dalla
legge in materia di lavoro agile nonché, soprattutto, all’accordo scritto sulle
modalità di svolgimento della prestazione, gli obiettivi e le forme di
controllo e, laddove, gli strumenti utilizzati dal dipendente non vengano forniti
dall’amministrazione, come pure ora è possibile, ovviamente il datore di lavoro
non è più responsabile della sicurezza e del buon funzionamento degli strumenti
tecnologici utilizzati dal dipendente.
Prima
di esaminare le ricadute operative di tale disciplina, pare opportuno ribadire
che l’art. 14, comma 1, della legge 124/2015 ha previsto l’obbligo, sia pure
nei limiti delle risorse di bilancio disponibili a legislazione vigente, in
capo alle pubbliche amministrazioni di adottare misure organizzative per
la sperimentazione del lavoro agile “che
permettano entro 3 anni ad almeno il 10% dei dipendenti, ove lo richiedano, di
avvalersi di tali modalità”. Non pare superfluo osservare che in base a
tale norma “l’adozione delle misure
organizzative e il raggiungimento degli obiettivi…costituiscono oggetto di
valutazione nell’ambito dei percorsi di misurazione della performance
organizzativa e individuale nell’ambito delle amministrazioni pubbliche”. Se
è vero che tale fase meramente sperimentale risulta conclusa solo con l’entrata
in vigore dell’art. 18, comma 5, del d.l. 9 del 2 marzo 2020, adottato in piena
emergenza coronavirus, è anche vero che i dirigenti avrebbero dovuto adottare
misure organizzative per consentire ad almeno il 10% dei dipendenti che ne
avessero fatto domanda di poter lavorare in modalità agile; e la violazione di
tale obbligo normativo, che attinge alla funzione di micro-organizzazione
propria dei dirigenti e non anche alla funzione di macro-organizzazione che si
esplica con atti di natura regolamentare di competenza dell’organo di indirizzo
politico, avrebbe dovuto essere valutata nell’ambito del Sistema di valutazione
e misurazione della performance. La normativa dell’emergenza, che punta a
tenere a casa quanti più lavoratori pubblici è possibile, prende atto del
fallimento della sperimentazione dell’implementazione del lavoro agile, e
disegna un modello evidentemente diverso da quello ordinario attraverso il
quale viene stabilita con accordo tra le parti la modalità di esecuzione della
prestazione lavorativa “senza precisi
vincoli di orario o di luogo di lavoro”. In via ordinaria, infatti, lo smart working non coincide con il
telelavoro né con lo svolgimento a casa delle ordinarie mansioni e compiti del
lavoratore; si tratta, invece, di una forma organizzativa intelligente del
rapporto di lavoro che si svolge “in parte all’interno dei locali aziendali e
in parte all’esterno”, con il solo limite della durata massima dell’orario
giornaliero e settimanale di lavoro derivanti dalla legge o dalla
contrattazione collettiva. In buona sostanza, con un accordo a tempo
determinato o indeterminato, il datore di lavoro ed il lavoratore si accordano
affinché, con ottimizzazione degli interessi di entrambe le parti, la
prestazione venga resa in circostanze di orario e di luogo più confacenti al
raggiungimento del risultato; così, se un dipendente risulta impegnato nello
studio di una importante questione o nel perfezionamento di una ricerca ben può
lavorare anche da casa, mentre se occorre esaminare gli esiti di una
istruttoria nell’ambito di una conferenza di servizi sarà più opportuno che sia
presente in ufficio.
La
norma emergenziale, invece, nel prevedere che il lavoro agile “è la modalità ordinaria di svolgimento della
prestazione lavorativa”, di fatto introduce –in coerenza con la finalità di
tutta la normativa emergenziale- una nuova fattispecie di lavoro agile semplificato, che possiamo
definire home working, da attivare in
via ordinaria non sulla base di un accordo, da cui si prescinde, ma con atto
datoriale per tutto il personale, fatta eccezione per chi è impegnato nei
servizi di gestione dell’emergenza e in quelli da rendere necessariamente in
presenza in quanto indifferibili. In pratica, ed è questo il punto più
innovativo, il legislatore derogando a requisiti minimi, presupposti e obblighi
procedimentali e informativi che caratterizzano il lavoro agile ha di fatto
–temporaneamente- stabilito che i dipendenti pubblici lavorano ordinariamente a
casa e a tal fine possono utilizzare “strumenti
informatici nella (loro) disponibilità qualora non siano forniti
dall’amministrazione”. Tale ultima disposizione rimuove il più concreto
ostacolo all’organizzazione della prestazione lavorativa in modalità agile,
consentendo anche al dipendente di utilizzare propri strumenti informatici,
superando le difficoltà nascenti dai mancati investimenti pubblici per
garantire l’attuazione del lavoro agile.
Tirando
le fila di tale ragionamento, dalla più recente normativa si ricavano i
seguenti principi:
a)
il dirigente è obbligato
ad organizzare per tutti i dipendenti la prestazione lavorativa in modalità
agile;
b)
non occorre alcuna istanza
del dipendente per essere autorizzato allo svolgimento del lavoro agile,
essendo stato derogato l’istituto dell’accordo e, quindi, del consenso del
lavoratore, fatto salvo quanto indicato al successivo punto d);
c)
il dipendente potrà utilizzare sia
dispositivi mobili messi a disposizione dal datore di lavoro, sia anche gli
strumenti hardware già utilizzati in ufficio, concessi in comodato, sia
ancora strumenti informatici nella propria disponibilità;
d)
il dipendente, laddove utilizza
dispositivi che gli consentono l’accesso ai server e alle banche dati del
Comune, si avvale dei contratti di connettività alla rete internet di cui
dispone per fini personali: in tale ipotesi, il dirigente dovrà acquisire una
dichiarazione di disponibilità del dipendente a tale utilizzo, nonché una
dichiarazione relativa alle protezioni antivirus dallo stesso istallate, nonché
agli accorgimenti messi in campo per garantire la sicurezza informatica del
server e delle banche dati cui il dipendente accede, facendogli sottoscrivere l’impegno
al rispetto del decalogo predisposto da Agid;
e)
la modalità agile di svolgimento della
prestazione lavorativa può essere autorizzata anche laddove il dipendente
non disponga o non possa essere dotato di strumenti tecnologici, in quanto
tale presupposto non è previsto dalla legge come requisito obbligatorio ma solo
“possibile”;
f)
non risulta necessaria alcuna
comunicazione di cui all’art. 9-bis del d.l. 1° ottobre 1996, n.510 e smi
(da effettuare in via telematica per ogni trasformazione in modalità agile
entro il 20 del mese successivo alla trasformazione); lo scrivente ritiene
all’uopo sufficiente la comunicazione massiva tramite l’applicativo messo a
disposizione tramite il sito web cliclavoro.gov.it,
oltre la comunicazione a scopo informativo al Dipartimento della Funzione
Pubblica;
g)
non risulta necessaria l’informativa
scritta sui rischi generali e specifici, potendosi ritenere
superata anche la modalità semplificata di cui all’art. 2, lett. r) del DPCM
8.3.2020, posto che l’art. 87, comma 1, lett. b) del d.l. 18/2020 ha
espressamente derogato all’art. 22 della legge 81/2017 che la contempla;
h)
il dirigente deve organizzare e
rendere note ai dipendenti anche le modalità di controllo sulle prestazioni
rese in modalità agile, tenuto conto che non è prevista la
stipula dell’accordo che in via ordinaria è la sede per tale disciplina.
Da
ciò consegue che, fatti salvi i casi in cui è necessaria per legge o motivata
per necessità la presenza in servizio, per tutti i dipendenti la prestazione
lavorativa dovrà essere resa dall’esterno dell’ufficio, sulla base di questa
nuova formula organizzatoria del lavoro pubblico prevista in via generale dal
legislatore dell’emergenza. Da ciò consegue che il dirigente difficilmente
potrà motivare l’impossibilità di organizzare la prestazione in modalità agile,
riducendosi tale casistica alle attività degli operatori (cat. A) e di
alcuni esecutori (cat. B), ma non potendo in linea di massima costituire
un ostacolo all’applicazione della regola generale l’assenza di strumentazioni
tecnologiche o di strumenti di connessione; con riguardo a questi ultimi,
facendo applicazione dell’art. 36 del codice dei contratti o, anche, della
procedura introdotta dall’art. 75 del d.l. 18/2020, risulta possibile in poche
ore provvedere all’attivazione di contratti di connettività, secondo le varie
formule disponibili sul mercato.
Pare
doveroso precisare che il legislatore non sospende l’ordinario strumento del
lavoro agile pleno iure, al quale può
farsi ricorso ove ne sussistano tutti i presupposti; ciò si evince dal comma 3
dell’art. 87 il quale indica le soluzioni sussidiarie di organizzazione del
lavoro pubblico cui deve farsi ricorso solo qualora non sia possibile ricorrere
al lavoro agile “anche nella forma
semplificata” di cui al comma 1.
In
tali ipotesi residuali, “le amministrazioni
utilizzano gli strumenti delle ferie
pregresse, del congedo, della banca delle ore, della rotazione, ed altri
analoghi istituti”; solo una volta “esperite
tali possibilità le amministrazioni possono motivatamente esentare il personale dipendente dal servizio”.
Una
lettura della norma non coordinata con le altre disposizioni normative
concernenti l’attività delle pubbliche amministrazioni potrebbe indurre ad una
applicazione formalistica della norma, non valutando l’impatto
sull’organizzazione del lavoro nelle amministrazioni pubbliche in questa
congiuntura delle complessive misure introdotte dal legislatore.
Giova,
dunque, tenere in considerazione quanto dispongono le norme in premessa
richiamate, evidenziando che:
a)
non si tiene conto del periodo dal 23
febbraio 2020 al 15 aprile 2020, ai fini del computo di tutti i termini
relativi allo svolgimento di tutti i procedimenti amministrativi ad istanza di
parte o d’ufficio, ivi compresi quelli per i quali è contemplato il silenzio
significativo (ivi compreso il procedimento di accesso) che –dunque- subiscono
uno slittamento massimo di 52 giorni a decorrere dal 16 aprile 2020 ( art. 103,
comma 1);
b)
è prorogato il termine di validità ad ogni
effetto dei documenti di identità fino al 31 agosto 2020 (art. 104);
c)
è prorogato al 15 giugno 2020 la validità
di tutti i certificati, attestati, permessi, concessioni, autorizzazioni e atti
abilitativi comunque denominati in scadenza tra il 31 gennaio ed il 15 aprile
2020 (art. 103, comma 2);
d)
sono sospesi fino al 15 aprile 2020 tutti
i termini dei procedimenti disciplinare (art. 103, comma 5);
e)
sono sospesi dal 8 marzo al 31 maggio 2020
i termini relativi alle attività, ex parte ufficio tributi, di liquidazione, di
controllo, di accertamento, di riscossione, di contenzioso, di esame e risposta
alle istanze di interpello (art. 67 comma 1);
f)
sono sospesi fino al 15 aprile 2020 per la
proposizione dei ricorsi tributari e per l’esame delle istanze di mediazione (art.
83 comma 1);
g)
sono sospesi fini al 31 maggio 2020 i
termini per la riscossione delle cartelle esattoriali e delle ingiunzioni fiscali
di cui al R.d. n. 639/1910 (art. 68 commi 1 e 2);
h)
sono differiti al 31 maggio 2020 i termini
di approvazione del bilancio 2020/2022 e del rendiconto 2019 (art. 107);
i)
è differito al 30 giugno 2020 il termine
di approvazione della TARI e, ove non ci si avvalga della facoltà di cui al
comma 5 dell’art. 107, dell’approvazione del Pef (art. 107, comma 4);
j)
risultano chiusi i musei e gli altri
istituti e luoghi di cultura fino al 3 aprile 2020 ( art. 1, lett. l) Dpcm
8.3.2020, confermato da DPCM 11.3.2020).
Ciò
posto, una corretta applicazione all’ attività dirigenziale dei canoni di
efficacia, efficienza ed economicità, funzionali a garantire il rispetto del
principio costituzionale del buon andamento, presuppone che i dirigenti in
presenza di ferie pregresse in capo a dipendenti ordinariamente impegnati nei
servizi interessati dallo slittamento dei termini procedimentali dispongano in
via ordinaria che gli stessi usufruiscano delle ferie arretrate, tenuto
conto che nella materia de qua prevale la disciplina contrattuale ( art.
28 CCNL funzioni locali), la quale impone che le ferie vengano fruite entro
l’anno di maturazione e, al più, entro il 30 giugno dell’anno successivo,
dovendo ritenersi che il più lungo termine di cui all’art. 10 del d.lgs 66/2003
costituisca il parametro la cui violazione comporta la sanzione amministrativa
in capo al datore di lavoro. A tal fine, è assolutamente necessario che
vengano collocati in ferie d’ufficio tutti i dipendenti che nell’anno
precedente non abbiano goduto almeno del periodo minimo delle due settimane (e
a maggior ragione, quelli che hanno ferie antecedenti al 2019), fattispecie che
ai sensi del comma 2 dell’art. 10 del d.lgs 66/2003 espone il datore di lavoro
alle sanzioni dell’Autorità Regionale di controllo; mentre è opportuno, che il
dirigente valuti anche la concessione delle restanti giornate di ferie che,
comunque, vanno godute entro il 30 giugno 2020. Sul punto, anche al fine di
uniformare l’attività datoriale e fugare dubbi sollevati da alcune
organizzazioni sindacali, giova qui sottolineare che le ferie sono stabilite
dal datore di lavoro con riguardo alle esigenze aziendali; esse non
dipendono dalla volontà del lavoratore che non può determinarne il periodo di
godimento unilateralmente. Ciò si evince dall’art. 28, comma 9 del CCNL
funzioni locali che prevede il rifiuto della richiesta di ferie in base ad
esigenze organizzative, e trova riscontro anche negli indirizzi consolidati di
ARAN consultabili nella raccolta
del 2015 sugli orientamenti in materia di ferie ( punti 4.4. e
6.2), oltre ad essere stato ribadito dalla circolare 8/2005 del Ministero del
Lavoro che ha fornito indirizzi interpretativi sulla disciplina in materie di
ferie ed orario di lavoro di derivazione europea di cui al d.lgs 66/2003.
Da
quanto fin qui detto, ne deriva che ciascun dirigente –fermo restando l’obbligo
di assicurare senza soluzione di continuità tutte le attività relative alla
gestione dell’emergenza- non può non effettuare una attenta ricognizione sia
della posizione giuridica del personale assegnato che della situazione
organizzativa e di contesto degli uffici e delle attività e funzioni da
espletare, anche alla luce della disposizione di cui all’art. 103, comma 4, del
d.l. 18/2020 che espressamente dispone che non è ammissibile alcuna
interruzione dei termini di pagamento di stipendi, corrispettivi, canoni ed
indennità, e predisporre un piano delle
attività che indichi persone, risorse obiettivi e tempi, tenendo conto che
se è vero che i termini procedimentali sono sospesi, è anche previsto l’obbligo
di adozione “di ogni misura idonea ad
assicurare comunque la ragionevole durata e la celere conclusione dei
procedimenti” ( art. 103, comma 1, secondo periodo). E’, cioè, necessario che il management dell’ente, con una visione prospettica
e strategica, non blocchi o si adagi sul blocco dei procedimenti, ma
organizzi in modalità agile –e mettendo in ferie anche a rotazione coloro i
quali hanno un credito di ferie maturate superiore a 15 giorni- l’attività
lavorativa con l’obiettivo, oltre che di assicurare la tempestività del ciclo
passivo dei debiti commerciali, degli stipendi e delle indennità assistenziali,
anche di lavorare ai documenti del ciclo di bilancio, i cui termini sono
semplicemente spostati a fine maggio 2020, e a recuperare l’arretrato e le
disfunzioni nei vari procedimenti di competenza, anche alla luce del fatto
che una volta superata l’attuale fase dell’emergenza si porrà la necessità di
fornire al tessuto economico, produttivo e alle famiglie risposte celeri sulle
loro istanze tese al tempestivo recupero di efficienza e produttività, da cui
dipende anche la sorte dell’equilibrio del bilancio comunale. Sotto tale
profilo, concludendo sul punto, non pare superfluo segnalare che, allo stato,
l’unico effettivo strumento di sostegno finanziario al bilancio degli enti
locali al momento è costituito dalla possibilità, prevista dall’art. 109, comma
2, secondo periodo del d.l. 18/2020, a mente del quale i comuni “limitatamente all’esercizio finanziario
2020, possono utilizzare, anche integralmente, per il finanziamento delle spese
correnti connesse all’emergenza in corso, i proventi delle concessioni edilizie
e delle sanzioni previste” dal Dpr 380/2001, fatta eccezione per le
sanzioni dell’art. 31 comma 4-bis. Bisogna, dunque, adottare stringenti e
concrete misure organizzative per assicurare i flussi finanziari in entrata di
tali risorse.
La
norma in commento prevede, proprio per garantire la salute individuale e
prevenire la diffusione dei contagi, che se non sia possibile attivare il
lavoro agile semplificato, oppure se risultano esaurite le ferie pregresse,
ovvero non sia possibile far ricorso o risultano goduti i congedi, o anche la
banca delle ore, il dirigente
motivatamente può esentare il dipendente del servizio.
Rinviando
per l’applicazione dei nuovi istituti di congedo connessi all’emergenza
introdotti dagli artt. 24 e 25 del dl. 18/2020 alle indicazioni già fornite
dall’Inps, si ritiene di dover chiarire che l’istituto dell’esenzione
costituisce una extrema ratio,
una ipotesi eccezionale alla quale far ricorso in casi circoscritti, solo ove
non sia possibile far ricorso a nessuno degli istituti fin qui esaminati. Ha
chiarito la relazione tecnica bollinata dalla Ragioneria Generale dello Stato che
dall’attuazione di tale decisione “non
debbono derivare effetti negativi sull’attività che l’amministrazione è
chiamata ad espletare”. Ne consegue che il provvedimento di esenzione,
pur essendo in capo a ciascun dirigente, è conseguente ad una analisi del
complessivo fabbisogno dell’ente, non essendo giustificabili effetti negativi
sull’attività che l’ente è chiamato ad espletare nel contesto di dipendenti
esentati dal servizio.
La
corretta applicazione della norma, anche per escludere responsabilità
erariali e dirigenziali, implica, pertanto, le istruttorie che supportano
provvedimenti dirigenziali di esenzione dal servizio effettuate dai singoli
dirigenti debbono indicare il numero dei dipendenti da esentare, la categoria
di inquadramento, le mansioni, la eventuale professionalità e la data da cui
dovrebbe decorrere l’esenzione; si suggerisce che ciascuna di tali istruttorie venga
comunicata con una tabella sintetica all’ufficio del personale che provvederà a
redigere un’unica tabella organizzata
per categoria, profilo e mansioni da rendere nota a tutti i dirigenti e alla
quale si potrà far ricorso, attraverso provvedimenti di temporanea mobilità
interna, per assicurare il funzionamento dei servizi connessi alla gestione
dell’emergenza ovvero la rotazione del
personale nei servizi da rendere in presenza secondo le ricognizioni dei
singoli dirigenti, come pure prevede il comma 3 dell’art. 87 del decreto legge.
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