Una mistificazione dura ormai da
moltissimi mesi: la “paura della firma” o “fuga dalla firma”, che sta tornando
ad alimentare la voglia di riforme normative oggettivamente insensate, come
strumento per “semplificare” e rendere maggiormente spedita l’azione
amministrativa.
Le ipotesi sono sostanzialmente:
a)
abolire il reato di abuso d’ufficio, per
sostituirlo con una disciplina differente;
b)
limitare l’azione della Corte dei conti;
c)
in alternativa alla seconda idea, estendere ai
dirigenti pubblici la possibilità di un’assicurazione per la responsabilità
erariale, pagata dalla pubblica amministrazione datore di lavoro.
Si tratta di un modo completamente di affrontare i molti problemi che attanagliano la pubblica amministrazione. Infatti, invece di affrontare alla radice il problema, si propone di creare una sorta di zona franca dalla responsabilità.
Tra i promotori di queste idee,
sul Messaggero del 20/20/2021 è anche il prof. Sabino Cassese, attraverso l’intervista
titolata “Va abolito l'abuso d'ufficio. E la Corte dei Conti smetta di
giocare a fare il pm”. Si tratta di una “summa” di suggerimenti operativi
che oltre a non apparire condivisibili, si rivelano in grandissima parte
infondati e forieri, se ascoltati, di riforme che finirebbero per assestare il
definitivo KO alla pubblica amministrazione italiana.
Affrontiamo, in primo luogo, la
questione della presunta “paura della firma”. Nel rinviare ad osservazioni (qui)
ed approfondimenti (qui)
già proposti, riprendiamo alcuni concetti, per dimostrare che la “paura”
enunciata non solo non abbia ragione di essere, ma sia una costruzione tutta romanzata
dalla stampa.
Fu, tra gli altri, il Sole 24
Ore a pubblicare il 15 giugno 2020 un articolo sul tema della “paura della
firma” dal titolo “Burocrazia difensiva, molte cause e poche condanne ma
l’abuso d’ufficio frena la Pa”. Tale articolo indicava l’esistenza di “molte
denunce e indagini a fronte di pochissime condanne: secondo l’Istat, nel 2017
sono stati oltre 6.500 i procedimenti aperti dalle procure per abuso d’ufficio
e 57 le persone condannate con sentenza irrevocabile. Tendenza confermata dai
dati del ministero della Giustizia: dei 7.133 procedimenti definiti nel 2018
dagli uffici Gip e Gup, 6.142 sono stati archiviati, di cui 373 per prescrizione”.
Ponendo, allora, che i 6.500
procedimenti del 2017 abbiano riguardato in media 9.000 tra dipendenti pubblici,
e rapportando tale cifra ad una corrispondente platea di circa 3.100.000 di
dipendenti pubblici, solo lo 0,29% dei componenti dell’apparato pubblico è
stato lambito da indagini per abuso d’ufficio.
Restringendo il rapporto al
novero dei soli funzionari pubblici e dirigenti, oltre che ai componenti degli
organi di governo: la platea interessata è di circa 200.000 persone, rispetto
alle quali l’incidenza delle indagini è allora del 3,25%.
Non sembra affatto dimostrabile
coi numeri che l’incidenza del numero dei procedimenti penali per abuso d’ufficio
possa determinare una “paura della firma”. I casi, come si dimostra, appaiono
davvero in percentuali da “errore statistico”. Specie se, come informa l’articolo
citato, su 6.500 procedimenti avviati, 6.142 sono stati archiviati, cioè il
94,49%.
Non solo sono bassissime le
probabilità di un coinvolgimento in un’indagine per abuso d’ufficio, ma sono vicine
alla possibilità nulla quelle di subire una condanna.
E c’è da aggiungere una cosa che
non molti sanno e che la stampa tiene ben nascosta: esiste una diffusa ed ampia
normativa, ai sensi della quale il pubblico dipendente coinvolto in procedimento
penale e in esso archiviato o assolto, laddove non si rilevino conflitti di
interesse, ha il diritto di avvalersi di un legale di comune gradimento con la
PA datore di lavoro e di ottenere da parte di questa il pagamento diretto delle
spese processuali, oppure il loro rimborso.
Dunque, oggettivamente, non si
riesce a capire di cosa esattamente si stia parlando, almeno a ragionare sui
numeri e sulle tutele dei dipendenti pubblici, con specifico riferimento all’abuso
d’ufficio.
In proposito, occorre ricordare
che proprio la scorsa estate, anche in esito ad una campagna di stampa agguerritissima
proprio sul tema della presunta “paura della firma” e della discutibile
concezione secondo la quale la “semplificazione” dell’azione amministrativa
passerebbe per l’abolizione del reato di abuso d’ufficio, il decreto “semplificazioni”
lo ha già ridefinito, escludendo che esso possa verificarsi per violazione dei
regolamenti e precisando che la commissione del reato dipenda dalla violazione
di norme di legge che impongano scelte vincolanti, nel tentativo di escludere
la fattispecie nei casi di provvedimenti amministrativi caratterizzati dall’esercizio
di scelte discrezionali.
L’attuale testo dell’articolo
323 del codice penale, dunque, è il seguente: “Salvo che il fatto non costituisca
un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio
che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di
specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti
aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità,
ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un
prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé
o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno
ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni”.
Nell’intervista citata prima, il
prof. Cassese afferma: “si tratta di un reato dai contorni troppo
indeterminati. Quindi la sua interpretazione si presta ad abusi, in particolare
ad ampliamenti eccessivi. Va quindi soppresso e sostituito con fattispecie
determinate che si possono facilmente trarre dall’esperienza concreta e dalla
stessa giurisprudenza”.
Non è chi non veda l’impossibilità
evidente di riformare il reato nella direzione indicata dal Cassese. Il testo
dell’articolo 323 dovrebbe essere riscritto con un’elencazione lunghissima di “casi
predeterminati”, perché l’esperienza concreta e la giurisprudenza insegnano che
nei fatti le situazioni potenziali di reato sono moltissime. E l’elencazione si
presterebbe al problema della sua qualificazione come tassativa ed inderogabile
o meno; dando la stura a continui interventi di aggiunta e modifica delle
ipotesi. E ad una giurisprudenza alluvionale e ancor più complessa e
contraddittoria di quella già esistente.
Riflettendo con lucidità, i numeri
evidenziati dall’inchiesta citata prima de Il Sole 24 Ore sembrano dimostrare
che il reato non sia affatto contestato in modo così esteso, come lo si
racconta. Non si capisce, dunque, minimamente la ratio di una riforma come
quella pensata dal Cassese, che avrebbe effetti di contorsione e complicazione
della normativa di enorme quanto imprevedibile portata.
Il dibattito in atto dimentica
che il reato di abuso d’ufficio non è un capriccio da manettari o pubblici
ministeri in cerca di ribalta mediatica. E’ un presidio ed un deterrente contro
uno dei pericoli connaturati all’azione amministrativa, se non controllata: quello,
cioè, che l’esercizio dei poteri e delle competenze degli uffici pubblici sia
rivolto non al perseguimento dell’interesse generale, bensì alla ricerca di interessi
e fini egoistici, contrastanti appunto con l’interesse generale.
La storia insegna che un’amministrazione
priva di deterrenti e controlli rischia di adottare le sue scelte non in
ragione di regole generali, valevoli per tutti e soprattutto per il beneficio
collettivo, bensì norme che favoriscano alcuni a discapito di altri, oppure
volte proprio a danneggiare specifiche persone o categorie.
Per questo, il reato di abuso di
ufficio viene in essere quando il pubblico ufficiale:
1)
intenzionalmente
2)
procura
a.
a sé
b.
o ad altri
3)
un ingiusto vantaggio patrimoniale
4)
ovvero arreca ad altri un danno ingiusto.
L’azione amministrativa è
sorretta dal principio di legalità: deve, cioè, essere conforme alla legge. La
legge determina il potere esercitabile ed i fini da perseguire, per evitare che
sia l’amministrazione a decidere volta per volta, innescando esattamente il
pericolo di adottare scelte discriminanti e tali da determinare, appunto, “abusi”.
E’ per questo che l’articolo 97,
comma 2, della Costituzione dispone: “I pubblici uffici sono organizzati
secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e
l'imparzialità dell'amministrazione”; sempre le stesse ragioni hanno mosso
i costituenti a formulare l’articolo 98, comma 1, della Costituzione come
segue: “I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”.
Il tutto, avendo presente il fondamentale articolo 3 della Costituzione: “Tutti
i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza
distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche,
di condizioni personali e sociali”.
Ogni deviazione da questi
fondamentali principi, rischia, tra l’altro, di caratterizzare l’azione
amministrativa come abusiva operazione per procurare all’amministratore un vantaggio
patrimoniale ingiusto e, quindi, a scapito della collettività, oppure a
danneggiare (non solo economicamente) terzi. Il reato di abuso d’ufficio
intende essere uno strumento, da un lato, di afflizione e sanzione per questi
comportamenti, dall’altro di prevenzione e deterrente.
La deterrenza non può essere
confusa con la “paura della firma”. E’, invece, un imprescindibile canone al
quale gli amministratori pubblici sono tenuti a rifarsi, quando adottano le
proprie decisioni. La discrezionalità amministrativa, infatti, consiste nella
scelta, tra più decisioni tutte legittime e lecite, di quella che comporti il miglior
modo di perseguire l’interesse pubblico, col minor sacrificio delle posizioni
private possibile.
Dunque, gli uffici amministrativi
sono tenuti, anche per la presenza nell’ordinamento del reato di abuso di
ufficio, a verificare in primo luogo se la scelta che stanno adottando sia
legittima e non implichi ingiusti vantaggi patrimoniali per se stessi o danni
ai terzi; per poi procedere con la ponderazione degli interessi in gioco.
Non è pensabile l’attuazione dei
principi costituzionali ricordati sopra, senza vincolare la pubblica
amministrazione ad un’attentissima analisi della liceità del suo agire, in
applicazione non solo del principio de neminem laedere, ma l’ulteriore
difficoltoso obiettivo dell’imparzialità e del corretto conseguimento dell’interesse
collettivo.
La disamina delle norme
costituzionali a fondamento del principio di legalità dell’azione amministrativa
convincono non solo della profonda inopportunità di eliminare il reato di abuso
d’ufficio o di renderlo un indecrittabile puzzle di comportamenti predefiniti,
ma anche di un altro errore di impostazione delle riforme degli ultimi anni,
pure affrontato nell’intervista rilasciata dal prof. Cassese: il tema dei
controlli preventivi.
Il Professore ricorda che la
Costituzione prevede controlli preventivi solo sugli atti del Governo dello
Stato.
E’ vero. A partire dalla legge
142/1990, che modificò l’ordinamento degli enti locali, passando poi per la “legge
Bassanini”, la 127/1997 e, soprattutto, per la scellerata riforma del Titolo V
della Costituzione (legge costituzionale 3/2001), tutti i controlli preventivi
di legittimità sugli atti delle amministrazioni locali delle regioni sono stati soppressi
definitivamente, ad opera della “legge La Loggia”, la 131/2001. E in quegli
anni, sostanzialmente vennero eliminati tutti i controlli preventivi sugli atti
delle varie amministrazioni, con l’eccezione appunto degli atti del Governo.
Il risultato? Un disastro totale
ed assoluto. L’assenza di controlli preventivi, operati da soggetti terzi ed
esterni alle amministrazioni, ha scatenato una diffusione enorme ed estrema
dell’adozione di provvedimenti illegittimi, con l’esplosione dei conflitti di
interesse e della corruzione, attestata dalla magistratura e dai giornali.
Infatti, una decina d’anni dopo,
è intervenuta l’ondata di riflusso, con l’adozione della complessa normativa
sull’anticorruzione, derivante dalla legge 190/2012, che ha tentato, con poco
successo, di rimediare proprio all’assenza di qualsivoglia difesa preventiva
dalla mala amministrazione.
Ai controlli esterni preventivi,
sono state sostituire blandissime forme di controlli interni, debolissimi, perché
il controllore è nominato dalla compagine politica, oggetto, insieme ai
funzionari, dei controlli stessi.
Per regioni ed enti locali si è
istituito il “controllo collaborativo” della Corte dei conti: una sbiadita ed
eterea forma di controllo, non su singoli atti, ma su questioni generali, per
altro limitate alla sola contabilità pubblica. Infatti, il “controllo” si basa
su una funzione consulenziale (che però viene considerata espressione della
giurisdizione, ponendo enormi problemi per la tutela avverso indicazioni della
Corte dei conti considerate erronee), in risposta a richieste di pareri. Le
quali devono riguardare ambiti ed oggetti di portata generale e non fatti gestionali
specifici. Soprattutto, non è consentito sottoporre alle sezioni regionali di
controllo questioni che possano comportare l’espressione anticipata di giudizi
su comportamenti amministrativi, tali da determinare una potenziale
interferenza dei pareri delle Sezione Regionali con ambiti di competenza delle
Procure regionali della Corte dei conti.
Dunque, di fatto si tratta di
pareri che non servono a nulla, se non a complicare, e non poco, il quadro
operativo. Troppo spesso, infatti, i pareri espressi dalla magistratura
contabile finiscono per essere “creativi”:
non si limitano, cioè, ad interpretare le norme attenendosi al loro dettato, ma
lo restringono, oppure estendono, andando molto oltre i confini dei binari
normativi.
In assenza di controlli
preventivi esterni, si moltiplicano solo i conflitti interni tra parte politica
ed uffici, a meno che questi ultimi non siano diretti, in omaggio allo spoil
system selvaggio all’italiana, da dirigenti cooptati per appartenenza politica
dagli organi di governo.
I provvedimenti dannosi, di
conseguenza, sono deflagrati. Basta andare a guardare le banche dati delle
sentenze proprio della Corte dei conti, per comprendere la diffusione immensa
di continue e gravi violazioni di legge, che implicano anche la conseguenza di
importanti danni all’erario: cioè spesa di denaro pubblico indebita o mancata
acquisizione di entrate.
Molti di questi danni,
spessissimo eclatanti, potrebbero essere tranquillamente evitati, con un’opera
di prevenzione e di controllo. Si pensi, in particolare, alle clamorose
violazioni delle regole sull’erogazione dei premi di produttività ai dipendenti
pubblici, oggetto di continui abusi e danni che intasano le Procure e le
Sezioni giurisdizionali: i contratti decentrati sono fittissimi di violazioni clamorose
alla buona amministrazione ed alle regole di contabilità pubblica.
I controlli su tali contratti
sono affidati a soggetti debolissimi e privi di specifiche competenze in tema
di lavoro pubblico: i revisori dei conti. Spesso questi organi non si rendono
assolutamente conto delle diffuse illegittimità dei contratti, che passano
quindi tranquillamente, salvo scoprire, poi, a distanza di anni, la loro
portata dannosa.
Ma, è da chiedersi: è utile
scoprire a distanza talvolta di un decennio un danno erariale, scatenando poi i
costi e i disagi del processo? Oppure, è meglio cercare di prevenire?
Nel caso della contrattazione
collettiva nazionale, si prevede un controllo preventivo sulla compatibilità
dei costi da parte delle Sezioni Riunite della Corte dei conti. Sfugge perché a
livello decentrato, invece, i controlli siano affidati a figure debolissime,
invece che alle Sezioni regionali di controllo.
In generale, non si comprende
che la presenza di un soggetto terzo competente per il controllo preventivo
sulle decisioni di per sé rende maggiormente difficile lo scantonamento dalle
regole e lo stesso abuso di ufficio.
Il Cassese non sembra pensarla a
questo modo. Afferma, nell’intervista citataLa: “gli inconvenienti dei
controlli preventivi sono noti. Svolgono una funzione frenante. Allungano i
tempi dell’azione amministrativa. Sono fondati sul presupposto della sfiducia
nei confronti dei funzionari. Finiscono per attenuare i controlli successivi.
Sono controlli di tipo procedurale e formale, mentre solo i controlli successivi
sono sui risultati”. Si tratta di considerazioni sostanzialmente erronee o
basate su prospettive fallaci.
I controlli preventivi sono “frenanti”?
Certo: servono a quel supplemento di valutazione sulla rispondenza della
decisione ai complessi canoni visti prima. Se, come si vedrà nelle prossime righe,
si svolgono in tempi velocissimi, il freno serve ad evitare la frana. La frana
che discende da illegittimità e danni erariali scoperti dopo anni e con costi
enormi di carattere processuale.
L’idea, poi, che i controlli
preventivi allunghino i tempi è semplicemente uno slogan, privo di fondamento.
Specie oggi, negli anni della digitalizzazione, effettuare un controllo
preventivo, con lo scambio dei dati su piattaforme entro brevissimo tempo, 3
giorni al massimo, è un gioco da ragazzi, purchè si attivino strutture
amministrative di controllo ben dotate. Certo, se per controllo si intendono i pareri
delle Sezioni regionali della Corte dei conti, emanati da un collegio di
moltissime unità di persone, che si riunisce poche volte al mese ed elabora
pareri che per metà sono occupati nella disquisizione sull’ammissibilità del
quesito, allora si allungano i tempi, ovvio.
Se, invece, il controllo è
svolto da un istruttore, basandosi su schemi e strumenti agili e veloci, e su
piani di produttività molto rapidi, senza fronzoli, non si allunga nulla.
Per altro, da anni ed anni
sentiamo lo slogan dell’amministrazione pubblica che dovrebbe agire come un’azienda.
Ma, un’azienda produttiva, per essere certa di immettere nel mercato prodotti
affidabili che poi vengono comprati poiché rispondono ad un preciso standard,
se v’è una cosa alla quale non rinuncia è proprio il controllo preventivo di
qualità del prodotto. La Ferrero, mitizzata
pochi mesi fa come azienda da prendere come esempio per il suo sistema di premialità
dei dipendenti, fonda proprio sull’esito dei controlli di qualità l’indice
principale dei premi.
Non si capisce perché la PA,
accusata di non sapere valutare e cosa e come valutare, debba rinunciare
proprio a controllare i principali suoi “prodotti”, cioè i provvedimenti
amministrativi, non solo come metodo per garantire legittimità, ma anche per
favorire efficacia e misurabilità delle performance.
I controlli sono fondati sul
presupposto della sfiducia nei confronti dei funzionari? Tornando all’esempio
della Ferrero e delle aziende manifatturiere: esse controllano perché non hanno
fiducia, o per avere maggiori garanzie della qualità? I controlli non sono atti
di sfiducia, ma strumenti per la garanzia di agire nel miglior modo possibile.
I controlli preventivi finiscono
per attenuare i controlli successivi? Anche questa idea è del tutto infondata e
si basa sull’idea altrettanto senza supporti che i controlli preventivi debbano
essere necessariamente solo di tipo procedurale e formale. Non è così: un controllo
preventivo che sventi un affidamento diretto di un appalto, laddove vi dovrebbe
essere una gara, evita un contenzioso, un contratto nullo, problemi nel
reperire il nuovo contraente, il blocco per mesi o per anni del lavoro. Un
controllo preventivo, quindi, sul merito tecnico delle scelte, se tempestivo e
ben realizzato, incide molto positivamente proprio sul risultato finale. E
consente di effettuare controlli successivi davvero mirati alla sola
rendicontazione ed al collaudo e non al ripercorso, dopo anni, del processo
decisionale.
E’, quindi, del tutto
auspicabile e necessario che il Legislatore corregga, finalmente, il tiro dopo
tanti anni e ripristini controlli preventivi esterni di legittimità, quanto
meno sulle materie considerate ex lege particolarmente soggette a rischio di
corruzione e conflitti di interessi: appalti, concorsi, atti espansivi della
posizione di terzi (licenze, concessioni, permessi e similari) e contributi
economici.
Allo scopo, occorrerebbe creare
strutture provinciali, da porre alle dipendenze funzionali di Corte dei conti o
Anac, alle quali affidare solo compiti di fissazione di criteri generali. Le
strutture provinciali, poi, debbono garantire elevatissime performance in
termini di tempi, qualità e quantità dei controlli, con piena assunzione della
responsabilità degli effetti degli atti controllati, a surroga dell’amministrazione
controllata (se si verifica un danno, ne risponde il controllore, per evitare
che l’attività di controllo si riveli mera forma o possa favorire “accordi” col
controllato); prevedendo anche il controllo favorevole per silenzio assenso,
che comporti, però, oltre alla conferma della surroga nella responsabilità,
rilevanti penalizzazioni sui premi per il risultato dei controllori. I quali,
grazie anche alle risorse di internet, dovrebbero operare in regioni
territoriali distantissime da quelle ove hanno sede le amministrazioni
controllate, per rendere il più difficile possibile la pressione e l’influenza
politica e i conflitti di interessi. E’ possibile. E’ doveroso, anche come
strumento per ridurre ulteriormente l’abuso di ufficio.
Se queste osservazioni, che
appaiono oggettive e lapalissiane, da 24 anni non passano e si insiste su una
strada del tutto erronea, le ragioni ci sono.
Il dibattito su una “paura della
firma” che appare del tutto romanzata, nasconde quella fortissima voglia di
misure normative che favoriscano la collocazione degli organi amministrativi di
governo al di fuori della soglia delle responsabilità.
Solo pochissimi anni fa, si
assistette ad un tentativo di riforma della dirigenza mirato esattamente allo
scopo di creare uno scudo totale ed assoluto alla responsabilità erariale degli
organi politici. Si tratta della riforma Madia della dirigenza, mai andata per
fortuna in porto, grazie alla provvidenziale sentenza della Consulta 251/2017.
La riforma Madia (molto
gradita al prof. Cassese) intendeva attuare la micidiale delega normativa
contenuta nell’articolo 17, comma 1, lettera t), della legge 124/2017 che aveva
fornito al Governo il criterio di delega del “rafforzamento del principio di
separazione tra indirizzo politico-amministrativo e gestione e del conseguente
regime di responsabilità dei dirigenti, attraverso l’esclusiva imputabilità
agli stessi della responsabilità amministrativo-contabile per l’attività
gestionale”. Insomma, una vera e propria volontà di creare una dirigenza
pubblica che facesse da scudo umano alle responsabilità delle scelte di
indirizzo della politica, per sottrarla a qualsiasi responsabilità erariale.
Lo schema di decreto legislativo
che avrebbe attuato tale delega, se non fosse intervenuta la provvida sentenza
della Consulta ricordata sopra, prevedeva all’articolo 11, comma 1, lettera c)
ii), di modificare l’articolo 17 del d.lgs 165/2001, introducendo la previsione
che i dirigenti fossero “titolari in via esclusiva della responsabilità
amministrativo-contabile per l’attività gestionale, ancorchè derivante da atti
di indirizzo dell’organo di vertice politico”.
Al Consiglio di stato, in sede
di parere allo schema di decreto delegato (Adunanza della Commissione speciale
del 14 settembre 2016, numero affare 01648/2016) questa previsione normativa
non piacque, ovviamente, per nulla. Ed espresse un rilievo in quanto “alla
ragionevolezza della previsione che contempla la responsabilità unica del
dirigente con esclusione di qualsiasi possibile forma di concorso di
responsabilità dell’organo politico. E’ evidente che la spettanza al dirigente
di poteri autonomi di gestione implichi che sia il dirigente poi a dovere
rispondere in sede di accertamento di responsabilità amministrativo-contabile
per gli eventuali danni cagionati al patrimonio pubblico. Ma è altrettanto
evidente che non si può escludere che l’organo politico individui un obiettivo
che di per sé possa contribuire causalmente a determinare tale danno. Si tratta
di accertamenti di merito che in quanto tali mal si prestano ad essere
imbrigliati in rigide e preclusive disposizioni normative”. E Palazzo Spada
suggerì: “la norma dovrebbe essere eliminata dal testo o, in via
subordinata, si potrebbe mantenerla ma al solo fine di ribadire che per: «per
l’attività gestionale, articolata nelle funzioni indicate nel comma precedente,
sussiste l’esclusiva responsabilità amministrativo-contabile del dirigente»”.
Tuttavia, la voglia di creare
questi campi di sottrazione della politica soprattutto dalle responsabilità
contabili ed anche penali persevera e prosegue, sotto le mentite spoglie del
rimedio alla presunta “paura della firma”.
Nel 2019 vi fu un ritorno di
fiamma per questo innamoramento degli “scudi” contro le responsabilità, nel disegno
di legge “liberiamo i sindaci”. Iniziativa fini qui, fortunatamente, rimasta
al palo, che conteneva la riproduzione, limitatamente all’ordinamento locale,
della stessa logica del fallito tentativo di riforma Madia: si voleva modificare
l’articolo 107 del Tuel, che disciplina la dirigenza locale, aggiungendo la
previsione che i dirigenti “Sono altresì titolari in via esclusiva della
responsabilità amministrativo-contabile per l’attività gestionale, ancorché derivante
da atti di indirizzo dell’organo di vertice politico”. Norma caratterizzata
dai medesimi vizi logici, funzionali ed operativi di qualsiasi previsione tendente
a creare scudi dalla responsabilità.
E che la questione della “paura
della firma” dei dirigenti sia soltanto un pretesto, lo dimostra ancora una
volta il Messaggero, nell’articolo del 21 febbraio 2021, titolato “Abuso d’ufficio
il sì dei partiti alla revisione”. Dove si vuole arrivare è la creazione
appunto di una bolla di impunità per gli organi di governo.
Scrive il giornalista,
ovviamente sulla base di fonti raccolte dal “palazzo”: “uno dei più strenui
sostenitori della necessità di modificare quel reato (l’abuso d’ufficio,
nda) è il predecessore della Appendino. Piero Fassino ne fa una battaglia da
anni anche perché una condanna per abuso d’ufficio può far scattare la sospensione
se non la decadenza prevista dalla legge Severino”. Il punto, quindi, non è
per nulla la responsabilità dei dirigenti, ma lo scudo, anche penale, per i
politici, tornato agli onori proprio anche a seguito della sentenza di condanna
del sindaco di Torino.
Aggiunge, ancora, il Conti le
ragioni che chi è favorevole alla modifica del reato adduce per sostenerne la
riforma: “il reato non distingue il dolo dalla colpa, il fatto che ci sia
stata o meno una decisione drasticamente difforme dal processo amministrativo
sottostante e tanto meno il fine che può aver indotto l’amministratore pubblico
a compiere l’abuso”.
Si tratta di argomenti del tutto
erronei. E’ pacifico
in giurisprudenza che il reato di abuso d’ufficio sia reato cagionato
necessariamente non da colpa, bensì da dolo e, per altro, da dolo “intenzionale”.
Il reato, ovverossia, emerge solo laddove si dimostri la specifica intenzione
dell’amministratore di agire allo scopo di trarre un illecito vantaggio
patrimoniale per sé, o di arrecare un preciso danno ad altri.
E’, dunque, un travisamento
assoluto e totale pensare che il reato consegua necessariamente solo ad una
decisione platealmente difforme dalle regole procedimentali. Per solito, l’abuso
d’ufficio si commette attraverso decisioni e provvedimenti formalmente del
tutto corretti, ma adottati in modo appunto da abusare del potere, per sviare
gli effetti della decisione, dal perseguimento dell’interesse pubblico, all’acquisizione
dell’ingiusto vantaggio patrimoniale o del danno ingiusto.
Inoltre, essendo un reato
caratterizzato dal dolo intenzionale, non si può minimamente nemmeno pensare
che esso non vada a configurarsi in relazione alla valutazione del “fine” dell’amministratore
che commetta l’abuso: l’abuso, infatti, dipende proprio dall’intento di
conseguire un “fine” non permesso dalla legge e che implichi il suo indebito
arricchimento patrimoniale o il danno ingiusto a terzi.
Se queste sono le motivazioni,
totalmente erronee, che la “politica” intende diffondere tramite la stampa a
sostegno della riforma/abolizione del reato di abuso d’ufficio, si dimostra che
quello che si vuole, ma non si osa affermare esplicitamente, non è una soluzione
alla presunta “paura della firma”, bensì, all’opposto, una serie di garanzie
per la spinta al “coraggio”
di adottare provvedimenti illegittimi e fonti di abuso, e di farsi mandare avvisi
di garanzia a raffica, per aver posto in essere abusi, però per “fini” ritenuti
commendevoli, ovviamente ad uso e consumo del singolo amministratore e non in
rapporto all’interesse pubblico.
Si cerca, a ben vedere, una vera
e propria impunità per scelte che avvantaggiano pochi e danneggiano tutti; il
contrario di quel che vi sarebbe da pretendere da una corretta azione
amministrativa.
Chi affronta il problema della
riforma della PA pensando che essa si ottenga eliminando il reato di abuso d’ufficio,
creando scudi penali ed erariali alle responsabilità, non sa o finge di non
sapere che ogni giorno, specie negli enti locali, si combatte una battaglia sul
campo per evitare gli abusi d’ufficio e variegate piccole grandi illegittimità.
Ogni giorno gli organi politici pressano l’apparato amministrativo (sempre più
spesso anche mediante dirigenti cooptati direttamente per la loro esplicita adesione
politica alla parte politica al governo) perché venga concesso un titolo
edilizio a chi non può averlo, per dare un incarico professionale di
discutibile utilità ad un amico senza alcuna selezione, cancellare una sanzione
amministrativa ad un elettore, sanare sotto traccia un debito fuori bilancio
causato da un ordine ad un imprenditore non preceduto da impegno di spesa e non
regolato da contratti, concedere contributi senza criteri ad amici, affidare
appalti direttamente senza gara ad imprese determinate e “vicine”, esentare dal
pagamento di tributi alcuni “maggiorenti”, distribuire aumenti di stipendio sulla
base di contratti decentrati illegittimi ai dipendenti, assumere dirigenti
senza concorso purchè abbiano dichiarato la propria “personale adesione” alla
parte politica al governo; e, ancora, la pressione per “derogare”, derogare
continuamente alle regole, alle priorità, alle tempistiche, alla logica, a
tutto. Nella convinzione che l’amministrare consista non nell’applicare quelle
regole generali che consentano il rispetto dell’imparzialità e delle pari
condizioni, nell’interesse di tutti, bensì nell’inventare caso per caso regole ad
personam; creando esattamente quel caos, quelle disparità, quelle lesioni
alla concorrenza e all’efficienza del mercato e del convivere civile, quella
stratificazione tra cittadini, ridotti ad elettori/clienti, che gli articoli
97, 98 e soprattutto 3 della Costituzione vogliono impedire.
Un bagno di consapevolezza e di
realismo indica con precisione quali sono le vere necessità di riforma della
PA, tra le quali la previsione di campi di impunibilità e scudi da responsabilità
varie proprio non rientrano.
Leggo l'articolo dopo con calma, ma già da ora mi sento di affermare che i vari politici che tentano di affrontare il problema della PA non solo non ci hanno mai lavorato ma non ci capiscono nulla.
RispondiEliminaTanto vale abolire il Parloamento, quindi. E prima ancora abrogare la Costituzione dcella Repubblica Italiana. Evidentemente non sono bastate le riforme criminogene di Bassanini del 1997.
RispondiEliminaMala tempora currunt sed peiora parantur