domenica 21 febbraio 2021

Riforma della PA: quella voglia di impunità mistificata da rimedio alla “paura della firma”

 

Una mistificazione dura ormai da moltissimi mesi: la “paura della firma” o “fuga dalla firma”, che sta tornando ad alimentare la voglia di riforme normative oggettivamente insensate, come strumento per “semplificare” e rendere maggiormente spedita l’azione amministrativa.

Le ipotesi sono sostanzialmente:

a)      abolire il reato di abuso d’ufficio, per sostituirlo con una disciplina differente;

b)      limitare l’azione della Corte dei conti;

c)      in alternativa alla seconda idea, estendere ai dirigenti pubblici la possibilità di un’assicurazione per la responsabilità erariale, pagata dalla pubblica amministrazione datore di lavoro.

Si tratta di un modo completamente di affrontare i molti problemi che attanagliano la pubblica amministrazione. Infatti, invece di affrontare alla radice il problema, si propone di creare una sorta di zona franca dalla responsabilità.

Tra i promotori di queste idee, sul Messaggero del 20/20/2021 è anche il prof. Sabino Cassese, attraverso l’intervista titolata “Va abolito l'abuso d'ufficio. E la Corte dei Conti smetta di giocare a fare il pm”. Si tratta di una “summa” di suggerimenti operativi che oltre a non apparire condivisibili, si rivelano in grandissima parte infondati e forieri, se ascoltati, di riforme che finirebbero per assestare il definitivo KO alla pubblica amministrazione italiana.

Affrontiamo, in primo luogo, la questione della presunta “paura della firma”. Nel rinviare ad osservazioni (qui) ed approfondimenti (qui) già proposti, riprendiamo alcuni concetti, per dimostrare che la “paura” enunciata non solo non abbia ragione di essere, ma sia una costruzione tutta romanzata dalla stampa.

Fu, tra gli altri, il Sole 24 Ore a pubblicare il 15 giugno 2020 un articolo sul tema della “paura della firma” dal titolo “Burocrazia difensiva, molte cause e poche condanne ma l’abuso d’ufficio frena la Pa”. Tale articolo indicava l’esistenza di “molte denunce e indagini a fronte di pochissime condanne: secondo l’Istat, nel 2017 sono stati oltre 6.500 i procedimenti aperti dalle procure per abuso d’ufficio e 57 le persone condannate con sentenza irrevocabile. Tendenza confermata dai dati del ministero della Giustizia: dei 7.133 procedimenti definiti nel 2018 dagli uffici Gip e Gup, 6.142 sono stati archiviati, di cui 373 per prescrizione”.

Ponendo, allora, che i 6.500 procedimenti del 2017 abbiano riguardato in media 9.000 tra dipendenti pubblici, e rapportando tale cifra ad una corrispondente platea di circa 3.100.000 di dipendenti pubblici, solo lo 0,29% dei componenti dell’apparato pubblico è stato lambito da indagini per abuso d’ufficio.

Restringendo il rapporto al novero dei soli funzionari pubblici e dirigenti, oltre che ai componenti degli organi di governo: la platea interessata è di circa 200.000 persone, rispetto alle quali l’incidenza delle indagini è allora del 3,25%.

Non sembra affatto dimostrabile coi numeri che l’incidenza del numero dei procedimenti penali per abuso d’ufficio possa determinare una “paura della firma”. I casi, come si dimostra, appaiono davvero in percentuali da “errore statistico”. Specie se, come informa l’articolo citato, su 6.500 procedimenti avviati, 6.142 sono stati archiviati, cioè il 94,49%.

Non solo sono bassissime le probabilità di un coinvolgimento in un’indagine per abuso d’ufficio, ma sono vicine alla possibilità nulla quelle di subire una condanna.

E c’è da aggiungere una cosa che non molti sanno e che la stampa tiene ben nascosta: esiste una diffusa ed ampia normativa, ai sensi della quale il pubblico dipendente coinvolto in procedimento penale e in esso archiviato o assolto, laddove non si rilevino conflitti di interesse, ha il diritto di avvalersi di un legale di comune gradimento con la PA datore di lavoro e di ottenere da parte di questa il pagamento diretto delle spese processuali, oppure il loro rimborso.

Dunque, oggettivamente, non si riesce a capire di cosa esattamente si stia parlando, almeno a ragionare sui numeri e sulle tutele dei dipendenti pubblici, con specifico riferimento all’abuso d’ufficio.

In proposito, occorre ricordare che proprio la scorsa estate, anche in esito ad una campagna di stampa agguerritissima proprio sul tema della presunta “paura della firma” e della discutibile concezione secondo la quale la “semplificazione” dell’azione amministrativa passerebbe per l’abolizione del reato di abuso d’ufficio, il decreto “semplificazioni” lo ha già ridefinito, escludendo che esso possa verificarsi per violazione dei regolamenti e precisando che la commissione del reato dipenda dalla violazione di norme di legge che impongano scelte vincolanti, nel tentativo di escludere la fattispecie nei casi di provvedimenti amministrativi caratterizzati dall’esercizio di scelte discrezionali.

L’attuale testo dell’articolo 323 del codice penale, dunque, è il seguente: “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni”.

Nell’intervista citata prima, il prof. Cassese afferma: “si tratta di un reato dai contorni troppo indeterminati. Quindi la sua interpretazione si presta ad abusi, in particolare ad ampliamenti eccessivi. Va quindi soppresso e sostituito con fattispecie determinate che si possono facilmente trarre dall’esperienza concreta e dalla stessa giurisprudenza”.

Non è chi non veda l’impossibilità evidente di riformare il reato nella direzione indicata dal Cassese. Il testo dell’articolo 323 dovrebbe essere riscritto con un’elencazione lunghissima di “casi predeterminati”, perché l’esperienza concreta e la giurisprudenza insegnano che nei fatti le situazioni potenziali di reato sono moltissime. E l’elencazione si presterebbe al problema della sua qualificazione come tassativa ed inderogabile o meno; dando la stura a continui interventi di aggiunta e modifica delle ipotesi. E ad una giurisprudenza alluvionale e ancor più complessa e contraddittoria di quella già esistente.

Riflettendo con lucidità, i numeri evidenziati dall’inchiesta citata prima de Il Sole 24 Ore sembrano dimostrare che il reato non sia affatto contestato in modo così esteso, come lo si racconta. Non si capisce, dunque, minimamente la ratio di una riforma come quella pensata dal Cassese, che avrebbe effetti di contorsione e complicazione della normativa di enorme quanto imprevedibile portata.

Il dibattito in atto dimentica che il reato di abuso d’ufficio non è un capriccio da manettari o pubblici ministeri in cerca di ribalta mediatica. E’ un presidio ed un deterrente contro uno dei pericoli connaturati all’azione amministrativa, se non controllata: quello, cioè, che l’esercizio dei poteri e delle competenze degli uffici pubblici sia rivolto non al perseguimento dell’interesse generale, bensì alla ricerca di interessi e fini egoistici, contrastanti appunto con l’interesse generale.

La storia insegna che un’amministrazione priva di deterrenti e controlli rischia di adottare le sue scelte non in ragione di regole generali, valevoli per tutti e soprattutto per il beneficio collettivo, bensì norme che favoriscano alcuni a discapito di altri, oppure volte proprio a danneggiare specifiche persone o categorie.

Per questo, il reato di abuso di ufficio viene in essere quando il pubblico ufficiale:

1)      intenzionalmente

2)      procura

a.       a sé

b.      o ad altri

3)      un ingiusto vantaggio patrimoniale

4)      ovvero arreca ad altri un danno ingiusto.

L’azione amministrativa è sorretta dal principio di legalità: deve, cioè, essere conforme alla legge. La legge determina il potere esercitabile ed i fini da perseguire, per evitare che sia l’amministrazione a decidere volta per volta, innescando esattamente il pericolo di adottare scelte discriminanti e tali da determinare, appunto, “abusi”.

E’ per questo che l’articolo 97, comma 2, della Costituzione dispone: “I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione”; sempre le stesse ragioni hanno mosso i costituenti a formulare l’articolo 98, comma 1, della Costituzione come segue: “I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”. Il tutto, avendo presente il fondamentale articolo 3 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

Ogni deviazione da questi fondamentali principi, rischia, tra l’altro, di caratterizzare l’azione amministrativa come abusiva operazione per procurare all’amministratore un vantaggio patrimoniale ingiusto e, quindi, a scapito della collettività, oppure a danneggiare (non solo economicamente) terzi. Il reato di abuso d’ufficio intende essere uno strumento, da un lato, di afflizione e sanzione per questi comportamenti, dall’altro di prevenzione e deterrente.

La deterrenza non può essere confusa con la “paura della firma”. E’, invece, un imprescindibile canone al quale gli amministratori pubblici sono tenuti a rifarsi, quando adottano le proprie decisioni. La discrezionalità amministrativa, infatti, consiste nella scelta, tra più decisioni tutte legittime e lecite, di quella che comporti il miglior modo di perseguire l’interesse pubblico, col minor sacrificio delle posizioni private possibile.

Dunque, gli uffici amministrativi sono tenuti, anche per la presenza nell’ordinamento del reato di abuso di ufficio, a verificare in primo luogo se la scelta che stanno adottando sia legittima e non implichi ingiusti vantaggi patrimoniali per se stessi o danni ai terzi; per poi procedere con la ponderazione degli interessi in gioco.

Non è pensabile l’attuazione dei principi costituzionali ricordati sopra, senza vincolare la pubblica amministrazione ad un’attentissima analisi della liceità del suo agire, in applicazione non solo del principio de neminem laedere, ma l’ulteriore difficoltoso obiettivo dell’imparzialità e del corretto conseguimento dell’interesse collettivo.

La disamina delle norme costituzionali a fondamento del principio di legalità dell’azione amministrativa convincono non solo della profonda inopportunità di eliminare il reato di abuso d’ufficio o di renderlo un indecrittabile puzzle di comportamenti predefiniti, ma anche di un altro errore di impostazione delle riforme degli ultimi anni, pure affrontato nell’intervista rilasciata dal prof. Cassese: il tema dei controlli preventivi.

Il Professore ricorda che la Costituzione prevede controlli preventivi solo sugli atti del Governo dello Stato.

E’ vero. A partire dalla legge 142/1990, che modificò l’ordinamento degli enti locali, passando poi per la “legge Bassanini”, la 127/1997 e, soprattutto, per la scellerata riforma del Titolo V della Costituzione (legge costituzionale 3/2001), tutti i controlli preventivi di legittimità sugli atti delle amministrazioni locali  delle regioni sono stati soppressi definitivamente, ad opera della “legge La Loggia”, la 131/2001. E in quegli anni, sostanzialmente vennero eliminati tutti i controlli preventivi sugli atti delle varie amministrazioni, con l’eccezione appunto degli atti del Governo.

Il risultato? Un disastro totale ed assoluto. L’assenza di controlli preventivi, operati da soggetti terzi ed esterni alle amministrazioni, ha scatenato una diffusione enorme ed estrema dell’adozione di provvedimenti illegittimi, con l’esplosione dei conflitti di interesse e della corruzione, attestata dalla magistratura e dai giornali.

Infatti, una decina d’anni dopo, è intervenuta l’ondata di riflusso, con l’adozione della complessa normativa sull’anticorruzione, derivante dalla legge 190/2012, che ha tentato, con poco successo, di rimediare proprio all’assenza di qualsivoglia difesa preventiva dalla mala amministrazione.

Ai controlli esterni preventivi, sono state sostituire blandissime forme di controlli interni, debolissimi, perché il controllore è nominato dalla compagine politica, oggetto, insieme ai funzionari, dei controlli stessi.

Per regioni ed enti locali si è istituito il “controllo collaborativo” della Corte dei conti: una sbiadita ed eterea forma di controllo, non su singoli atti, ma su questioni generali, per altro limitate alla sola contabilità pubblica. Infatti, il “controllo” si basa su una funzione consulenziale (che però viene considerata espressione della giurisdizione, ponendo enormi problemi per la tutela avverso indicazioni della Corte dei conti considerate erronee), in risposta a richieste di pareri. Le quali devono riguardare ambiti ed oggetti di portata generale e non fatti gestionali specifici. Soprattutto, non è consentito sottoporre alle sezioni regionali di controllo questioni che possano comportare l’espressione anticipata di giudizi su comportamenti amministrativi, tali da determinare una potenziale interferenza dei pareri delle Sezione Regionali con ambiti di competenza delle Procure regionali della Corte dei conti.

Dunque, di fatto si tratta di pareri che non servono a nulla, se non a complicare, e non poco, il quadro operativo. Troppo spesso, infatti, i pareri espressi dalla magistratura contabile finiscono per essere “creativi”: non si limitano, cioè, ad interpretare le norme attenendosi al loro dettato, ma lo restringono, oppure estendono, andando molto oltre i confini dei binari normativi.

In assenza di controlli preventivi esterni, si moltiplicano solo i conflitti interni tra parte politica ed uffici, a meno che questi ultimi non siano diretti, in omaggio allo spoil system selvaggio all’italiana, da dirigenti cooptati per appartenenza politica dagli organi di governo.

I provvedimenti dannosi, di conseguenza, sono deflagrati. Basta andare a guardare le banche dati delle sentenze proprio della Corte dei conti, per comprendere la diffusione immensa di continue e gravi violazioni di legge, che implicano anche la conseguenza di importanti danni all’erario: cioè spesa di denaro pubblico indebita o mancata acquisizione di entrate.

Molti di questi danni, spessissimo eclatanti, potrebbero essere tranquillamente evitati, con un’opera di prevenzione e di controllo. Si pensi, in particolare, alle clamorose violazioni delle regole sull’erogazione dei premi di produttività ai dipendenti pubblici, oggetto di continui abusi e danni che intasano le Procure e le Sezioni giurisdizionali: i contratti decentrati sono fittissimi di violazioni clamorose alla buona amministrazione ed alle regole di contabilità pubblica.

I controlli su tali contratti sono affidati a soggetti debolissimi e privi di specifiche competenze in tema di lavoro pubblico: i revisori dei conti. Spesso questi organi non si rendono assolutamente conto delle diffuse illegittimità dei contratti, che passano quindi tranquillamente, salvo scoprire, poi, a distanza di anni, la loro portata dannosa.

Ma, è da chiedersi: è utile scoprire a distanza talvolta di un decennio un danno erariale, scatenando poi i costi e i disagi del processo? Oppure, è meglio cercare di prevenire?

Nel caso della contrattazione collettiva nazionale, si prevede un controllo preventivo sulla compatibilità dei costi da parte delle Sezioni Riunite della Corte dei conti. Sfugge perché a livello decentrato, invece, i controlli siano affidati a figure debolissime, invece che alle Sezioni regionali di controllo.

In generale, non si comprende che la presenza di un soggetto terzo competente per il controllo preventivo sulle decisioni di per sé rende maggiormente difficile lo scantonamento dalle regole e lo stesso abuso di ufficio.

Il Cassese non sembra pensarla a questo modo. Afferma, nell’intervista citataLa: “gli inconvenienti dei controlli preventivi sono noti. Svolgono una funzione frenante. Allungano i tempi dell’azione amministrativa. Sono fondati sul presupposto della sfiducia nei confronti dei funzionari. Finiscono per attenuare i controlli successivi. Sono controlli di tipo procedurale e formale, mentre solo i controlli successivi sono sui risultati”. Si tratta di considerazioni sostanzialmente erronee o basate su prospettive fallaci.

I controlli preventivi sono “frenanti”? Certo: servono a quel supplemento di valutazione sulla rispondenza della decisione ai complessi canoni visti prima. Se, come si vedrà nelle prossime righe, si svolgono in tempi velocissimi, il freno serve ad evitare la frana. La frana che discende da illegittimità e danni erariali scoperti dopo anni e con costi enormi di carattere processuale.

L’idea, poi, che i controlli preventivi allunghino i tempi è semplicemente uno slogan, privo di fondamento. Specie oggi, negli anni della digitalizzazione, effettuare un controllo preventivo, con lo scambio dei dati su piattaforme entro brevissimo tempo, 3 giorni al massimo, è un gioco da ragazzi, purchè si attivino strutture amministrative di controllo ben dotate. Certo, se per controllo si intendono i pareri delle Sezioni regionali della Corte dei conti, emanati da un collegio di moltissime unità di persone, che si riunisce poche volte al mese ed elabora pareri che per metà sono occupati nella disquisizione sull’ammissibilità del quesito, allora si allungano i tempi, ovvio.

Se, invece, il controllo è svolto da un istruttore, basandosi su schemi e strumenti agili e veloci, e su piani di produttività molto rapidi, senza fronzoli, non si allunga nulla.

Per altro, da anni ed anni sentiamo lo slogan dell’amministrazione pubblica che dovrebbe agire come un’azienda. Ma, un’azienda produttiva, per essere certa di immettere nel mercato prodotti affidabili che poi vengono comprati poiché rispondono ad un preciso standard, se v’è una cosa alla quale non rinuncia è proprio il controllo preventivo di qualità del prodotto. La Ferrero, mitizzata pochi mesi fa come azienda da prendere come esempio per il suo sistema di premialità dei dipendenti, fonda proprio sull’esito dei controlli di qualità l’indice principale dei premi.

Non si capisce perché la PA, accusata di non sapere valutare e cosa e come valutare, debba rinunciare proprio a controllare i principali suoi “prodotti”, cioè i provvedimenti amministrativi, non solo come metodo per garantire legittimità, ma anche per favorire efficacia e misurabilità delle performance.

I controlli sono fondati sul presupposto della sfiducia nei confronti dei funzionari? Tornando all’esempio della Ferrero e delle aziende manifatturiere: esse controllano perché non hanno fiducia, o per avere maggiori garanzie della qualità? I controlli non sono atti di sfiducia, ma strumenti per la garanzia di agire nel miglior modo possibile.

I controlli preventivi finiscono per attenuare i controlli successivi? Anche questa idea è del tutto infondata e si basa sull’idea altrettanto senza supporti che i controlli preventivi debbano essere necessariamente solo di tipo procedurale e formale. Non è così: un controllo preventivo che sventi un affidamento diretto di un appalto, laddove vi dovrebbe essere una gara, evita un contenzioso, un contratto nullo, problemi nel reperire il nuovo contraente, il blocco per mesi o per anni del lavoro. Un controllo preventivo, quindi, sul merito tecnico delle scelte, se tempestivo e ben realizzato, incide molto positivamente proprio sul risultato finale. E consente di effettuare controlli successivi davvero mirati alla sola rendicontazione ed al collaudo e non al ripercorso, dopo anni, del processo decisionale.

E’, quindi, del tutto auspicabile e necessario che il Legislatore corregga, finalmente, il tiro dopo tanti anni e ripristini controlli preventivi esterni di legittimità, quanto meno sulle materie considerate ex lege particolarmente soggette a rischio di corruzione e conflitti di interessi: appalti, concorsi, atti espansivi della posizione di terzi (licenze, concessioni, permessi e similari) e contributi economici.

Allo scopo, occorrerebbe creare strutture provinciali, da porre alle dipendenze funzionali di Corte dei conti o Anac, alle quali affidare solo compiti di fissazione di criteri generali. Le strutture provinciali, poi, debbono garantire elevatissime performance in termini di tempi, qualità e quantità dei controlli, con piena assunzione della responsabilità degli effetti degli atti controllati, a surroga dell’amministrazione controllata (se si verifica un danno, ne risponde il controllore, per evitare che l’attività di controllo si riveli mera forma o possa favorire “accordi” col controllato); prevedendo anche il controllo favorevole per silenzio assenso, che comporti, però, oltre alla conferma della surroga nella responsabilità, rilevanti penalizzazioni sui premi per il risultato dei controllori. I quali, grazie anche alle risorse di internet, dovrebbero operare in regioni territoriali distantissime da quelle ove hanno sede le amministrazioni controllate, per rendere il più difficile possibile la pressione e l’influenza politica e i conflitti di interessi. E’ possibile. E’ doveroso, anche come strumento per ridurre ulteriormente l’abuso di ufficio.

Se queste osservazioni, che appaiono oggettive e lapalissiane, da 24 anni non passano e si insiste su una strada del tutto erronea, le ragioni ci sono.

Il dibattito su una “paura della firma” che appare del tutto romanzata, nasconde quella fortissima voglia di misure normative che favoriscano la collocazione degli organi amministrativi di governo al di fuori della soglia delle responsabilità.

Solo pochissimi anni fa, si assistette ad un tentativo di riforma della dirigenza mirato esattamente allo scopo di creare uno scudo totale ed assoluto alla responsabilità erariale degli organi politici. Si tratta della riforma Madia della dirigenza, mai andata per fortuna in porto, grazie alla provvidenziale sentenza della Consulta 251/2017.

La riforma Madia (molto gradita al prof. Cassese) intendeva attuare la micidiale delega normativa contenuta nell’articolo 17, comma 1, lettera t), della legge 124/2017 che aveva fornito al Governo il criterio di delega del “rafforzamento del principio di separazione tra indirizzo politico-amministrativo e gestione e del conseguente regime di responsabilità dei dirigenti, attraverso l’esclusiva imputabilità agli stessi della responsabilità amministrativo-contabile per l’attività gestionale”. Insomma, una vera e propria volontà di creare una dirigenza pubblica che facesse da scudo umano alle responsabilità delle scelte di indirizzo della politica, per sottrarla a qualsiasi responsabilità erariale.

Lo schema di decreto legislativo che avrebbe attuato tale delega, se non fosse intervenuta la provvida sentenza della Consulta ricordata sopra, prevedeva all’articolo 11, comma 1, lettera c) ii), di modificare l’articolo 17 del d.lgs 165/2001, introducendo la previsione che i dirigenti fossero “titolari in via esclusiva della responsabilità amministrativo-contabile per l’attività gestionale, ancorchè derivante da atti di indirizzo dell’organo di vertice politico”.

Al Consiglio di stato, in sede di parere allo schema di decreto delegato (Adunanza della Commissione speciale del 14 settembre 2016, numero affare 01648/2016) questa previsione normativa non piacque, ovviamente, per nulla. Ed espresse un rilievo in quanto “alla ragionevolezza della previsione che contempla la responsabilità unica del dirigente con esclusione di qualsiasi possibile forma di concorso di responsabilità dell’organo politico. E’ evidente che la spettanza al dirigente di poteri autonomi di gestione implichi che sia il dirigente poi a dovere rispondere in sede di accertamento di responsabilità amministrativo-contabile per gli eventuali danni cagionati al patrimonio pubblico. Ma è altrettanto evidente che non si può escludere che l’organo politico individui un obiettivo che di per sé possa contribuire causalmente a determinare tale danno. Si tratta di accertamenti di merito che in quanto tali mal si prestano ad essere imbrigliati in rigide e preclusive disposizioni normative”. E Palazzo Spada suggerì: “la norma dovrebbe essere eliminata dal testo o, in via subordinata, si potrebbe mantenerla ma al solo fine di ribadire che per: «per l’attività gestionale, articolata nelle funzioni indicate nel comma precedente, sussiste l’esclusiva responsabilità amministrativo-contabile del dirigente»”.

Tuttavia, la voglia di creare questi campi di sottrazione della politica soprattutto dalle responsabilità contabili ed anche penali persevera e prosegue, sotto le mentite spoglie del rimedio alla presunta “paura della firma”.

Nel 2019 vi fu un ritorno di fiamma per questo innamoramento degli “scudi” contro le responsabilità, nel disegno di legge “liberiamo i sindaci”. Iniziativa fini qui, fortunatamente, rimasta al palo, che conteneva la riproduzione, limitatamente all’ordinamento locale, della stessa logica del fallito tentativo di riforma Madia: si voleva modificare l’articolo 107 del Tuel, che disciplina la dirigenza locale, aggiungendo la previsione che i dirigenti “Sono altresì titolari in via esclusiva della responsabilità amministrativo-contabile per l’attività gestionale, ancorché derivante da atti di indirizzo dell’organo di vertice politico”. Norma caratterizzata dai medesimi vizi logici, funzionali ed operativi di qualsiasi previsione tendente a creare scudi dalla responsabilità.

E che la questione della “paura della firma” dei dirigenti sia soltanto un pretesto, lo dimostra ancora una volta il Messaggero, nell’articolo del 21 febbraio 2021, titolato “Abuso d’ufficio il sì dei partiti alla revisione”. Dove si vuole arrivare è la creazione appunto di una bolla di impunità per gli organi di governo.

Scrive il giornalista, ovviamente sulla base di fonti raccolte dal “palazzo”: “uno dei più strenui sostenitori della necessità di modificare quel reato (l’abuso d’ufficio, nda) è il predecessore della Appendino. Piero Fassino ne fa una battaglia da anni anche perché una condanna per abuso d’ufficio può far scattare la sospensione se non la decadenza prevista dalla legge Severino”. Il punto, quindi, non è per nulla la responsabilità dei dirigenti, ma lo scudo, anche penale, per i politici, tornato agli onori proprio anche a seguito della sentenza di condanna del sindaco di Torino.

Aggiunge, ancora, il Conti le ragioni che chi è favorevole alla modifica del reato adduce per sostenerne la riforma: “il reato non distingue il dolo dalla colpa, il fatto che ci sia stata o meno una decisione drasticamente difforme dal processo amministrativo sottostante e tanto meno il fine che può aver indotto l’amministratore pubblico a compiere l’abuso”.

Si tratta di argomenti del tutto erronei. E’ pacifico in giurisprudenza che il reato di abuso d’ufficio sia reato cagionato necessariamente non da colpa, bensì da dolo e, per altro, da dolo “intenzionale”. Il reato, ovverossia, emerge solo laddove si dimostri la specifica intenzione dell’amministratore di agire allo scopo di trarre un illecito vantaggio patrimoniale per sé, o di arrecare un preciso danno ad altri.

E’, dunque, un travisamento assoluto e totale pensare che il reato consegua necessariamente solo ad una decisione platealmente difforme dalle regole procedimentali. Per solito, l’abuso d’ufficio si commette attraverso decisioni e provvedimenti formalmente del tutto corretti, ma adottati in modo appunto da abusare del potere, per sviare gli effetti della decisione, dal perseguimento dell’interesse pubblico, all’acquisizione dell’ingiusto vantaggio patrimoniale o del danno ingiusto.

Inoltre, essendo un reato caratterizzato dal dolo intenzionale, non si può minimamente nemmeno pensare che esso non vada a configurarsi in relazione alla valutazione del “fine” dell’amministratore che commetta l’abuso: l’abuso, infatti, dipende proprio dall’intento di conseguire un “fine” non permesso dalla legge e che implichi il suo indebito arricchimento patrimoniale o il danno ingiusto a terzi.

Se queste sono le motivazioni, totalmente erronee, che la “politica” intende diffondere tramite la stampa a sostegno della riforma/abolizione del reato di abuso d’ufficio, si dimostra che quello che si vuole, ma non si osa affermare esplicitamente, non è una soluzione alla presunta “paura della firma”, bensì, all’opposto, una serie di garanzie per la spinta al “coraggio” di adottare provvedimenti illegittimi e fonti di abuso, e di farsi mandare avvisi di garanzia a raffica, per aver posto in essere abusi, però per “fini” ritenuti commendevoli, ovviamente ad uso e consumo del singolo amministratore e non in rapporto all’interesse pubblico.

Si cerca, a ben vedere, una vera e propria impunità per scelte che avvantaggiano pochi e danneggiano tutti; il contrario di quel che vi sarebbe da pretendere da una corretta azione amministrativa.

Chi affronta il problema della riforma della PA pensando che essa si ottenga eliminando il reato di abuso d’ufficio, creando scudi penali ed erariali alle responsabilità, non sa o finge di non sapere che ogni giorno, specie negli enti locali, si combatte una battaglia sul campo per evitare gli abusi d’ufficio e variegate piccole grandi illegittimità. Ogni giorno gli organi politici pressano l’apparato amministrativo (sempre più spesso anche mediante dirigenti cooptati direttamente per la loro esplicita adesione politica alla parte politica al governo) perché venga concesso un titolo edilizio a chi non può averlo, per dare un incarico professionale di discutibile utilità ad un amico senza alcuna selezione, cancellare una sanzione amministrativa ad un elettore, sanare sotto traccia un debito fuori bilancio causato da un ordine ad un imprenditore non preceduto da impegno di spesa e non regolato da contratti, concedere contributi senza criteri ad amici, affidare appalti direttamente senza gara ad imprese determinate e “vicine”, esentare dal pagamento di tributi alcuni “maggiorenti”, distribuire aumenti di stipendio sulla base di contratti decentrati illegittimi ai dipendenti, assumere dirigenti senza concorso purchè abbiano dichiarato la propria “personale adesione” alla parte politica al governo; e, ancora, la pressione per “derogare”, derogare continuamente alle regole, alle priorità, alle tempistiche, alla logica, a tutto. Nella convinzione che l’amministrare consista non nell’applicare quelle regole generali che consentano il rispetto dell’imparzialità e delle pari condizioni, nell’interesse di tutti, bensì nell’inventare caso per caso regole ad personam; creando esattamente quel caos, quelle disparità, quelle lesioni alla concorrenza e all’efficienza del mercato e del convivere civile, quella stratificazione tra cittadini, ridotti ad elettori/clienti, che gli articoli 97, 98 e soprattutto 3 della Costituzione vogliono impedire.

Un bagno di consapevolezza e di realismo indica con precisione quali sono le vere necessità di riforma della PA, tra le quali la previsione di campi di impunibilità e scudi da responsabilità varie proprio non rientrano.

 

 

2 commenti:

  1. Leggo l'articolo dopo con calma, ma già da ora mi sento di affermare che i vari politici che tentano di affrontare il problema della PA non solo non ci hanno mai lavorato ma non ci capiscono nulla.

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  2. Tanto vale abolire il Parloamento, quindi. E prima ancora abrogare la Costituzione dcella Repubblica Italiana. Evidentemente non sono bastate le riforme criminogene di Bassanini del 1997.
    Mala tempora currunt sed peiora parantur

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